Etica del business, coscienza, professionalità degli HR e responsabilità sociale delle imprese

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Che sia per una ristrutturazione, una riorganizzazione, un passaggio di proprietà o un capriccio del capo, il licenziamento è come una sentenza di Cassazione difficile da metabolizzare se non nel tempo. Individuale o collettivo poco importa. Non c’è alcuna ragione logica che lo possa rendere meno drammatico per chi lo subisce. Soprattutto nel momento della comunicazione.

Licenziare è anche un “mestiere” demandato in genere, nelle aziende più strutturate,  ad una figura professionale particolare: l’uomo dell’HR. Nell’interessantissimo libro “il futuro del lavoro spiegato a mia figlia” di Pino Mercuri DHR di Microsoft, l’autore attribuisce a suo padre la definizione più semplice e immediata della sua attività: assumere e licenziare. Non è solo questo il lavoro dell’HR, ovviamente. Ma se dovessimo lanciare una survey nel mondo del lavoro chiedendo a tutti una sintesi della job descriprion HR non avremmo risposte molto diverse. Assumere e licenziare.

Da ormai troppo tempo,  la prima caratteristica è spesso condivisa con altri colleghi o con società specializzate esterne, la seconda lasciata volentieri all’HR di turno. O agli avvocati. A licenziare si impara. Spesso addirittura ci si abitua. Per alcuni è un esercizio di potere personale. Forse l’ultimo rimasto ad una professione spinta forzatamente ad un  declino di ruolo dopo anni di euforia. Per altri un semplice dovere. Per altri ancora una sensazione alla quale non si è mai preparati per quanto sempre simile a sé stessa.

Devi colpire duro, sotto la cintura  mentre hai di fronte la persona nel momento in cui è più fragile. Le parole aiutano chi le pronuncia ma non attutiscono il colpo a chi lo riceve. E non è questione di ruolo. Dal CEO alla commessa fa male allo stesso modo. Sono momenti in cui ti scorrono davanti errori e successi come in un  film. Quello che hai costruito anche sul piano personale lo vedi crollare improvvisamente. Tutto sembra sbriciolarsi. Non capisci cosa ti ha portato lì. E mentre cerchi di uscire dalla morsa, chi ti sta di fronte, pronuncia e pesa parole sempre uguali a sé stesse. Assumere e licenziare.

Certo alcuni colleghi spiegheranno che la Job Description immaginata ha ben altre caratteristiche. Oggi nelle imprese più attrezzate la persona è posta, spesso a parole, sempre più al centro. Si fanno molte cose per renderla partecipe alla vita dell’impresa. Per ingaggiarla e coinvolgerla. Riconoscimenti materiali e immateriali, welfare, flessibilità e formazione riempiono di soddisfazioni il “mestiere” dell’HR. Altro che assumere e licenziare!

Ma poi arriva quel momento. Alcuni si vergognano di ammetterlo, altri si danno una giustificazione morale addossandone le responsabilità ai comportamenti del malcapitato. Altri lo considerano un “lavoro sporco che qualcuno deve pur fare”. Altri infine cercano di delegarlo all’avvocato di turno.

I licenziamenti, non per giusta causa,  hanno sempre due risvolti. Uno evidente e diretto su chi lo subisce. L’altro sull’intera popolazione collegata che  percepisce in quell’istante ciò che potrebbe accadere a chiunque. E in qualsiasi momento.

In un attimo, per  buona parte della popolazione aziendale, la comunicazione interna, i suoi eccessi, i valori declamati e non praticati, la mission e la vision finiscono tra le slide in un cassetto e relegati come un esempio di abuso della credulità popolare. Tutto diventa fasullo. L’azienda stessa rischia di diventare fasulla. Perde di brillantezza. Si imbolsisce. La forza si trasforma in arroganza. Anche se la propaganda interna tenta di passare velocemente oltre. Di separare il fatto in sé dal contesto. Di renderlo oggettivo. Ma non è mai così.

Se la persona è stimata e non ha fatto nulla per meritarsi quel trattamento, dopo aver tirato un respiro di sollievo per non essere nei suoi  panni subentra la percezione fredda e razionale di un’azienda sempre più matrigna che si nasconde e colpisce alle spalle. Figuriamoci se la pugnalata ha caratteristiche plurime e sottovaluta l’impatto sulla generalità delle persone coinvolte e i loro problemi esistenziali e professionali. Soprattutto il silenzio che cala sull’ingiustizia subìta che opprime.

Per questo temo il cinismo di maniera e il fatalismo collegato del “così fan tutti”. E non stimo i colleghi che di fronte ad una inevitabile ristrutturazione non si dedicano anima e corpo a trovare tutte le soluzioni possibili a vantaggio delle persone incolpevolmente coinvolte.  Interne o esterne. Che non mettono tutto il loro peso aziendale in campo per suggerire ipotesi di lavoro, indirizzando capi e consulenti verso le soluzioni meno traumatiche.

Essere HR oggi significa anche assumersi responsabilità, fare proposte, insistere, coinvolgere l’intero management, stimolarlo a riflettere. Non semplicemente eseguire ordini pur con il mal di pancia. Vale per le grandi ristrutturazioni che coinvolgono migliaia di persone.  Vale per i singoli.

Così come nell’ultimo caso passato praticamente sotto silenzio è relegato nelle cose che succedono che ha coinvolto gli autori del successo di UNES dopo le dimissioni di Mario Gasbarrino. Tremano i polsi a pensare che il claim “il supermercato controcorrente” può essere interpretato diabolicamente come l’unico luogo al mondo dove si lasciano a casa gli autori di un successo aziendale (http://bit.ly/37C9qda)  Cosa da non credere.  È bastato tirare dalla propria parte il vero decisore per compiere il delitto perfetto.

Così fan tutti? Forse. Però io resto tra coloro che riescono ancora indignarsi quando  percepiscono mala fede, interessi personali in gioco, o peggio, fatalismo mentre, al contrario, servirebbero visione del futuro, lucidità e determinazione.

Le aziende, le organizzazioni di rappresentanza, le stesse comunità perdono smalto e si pregiudicano il futuro  se tutti coloro che potrebbero fare qualcosa per migliorarle, cambiarle  e farle crescere continueranno a girarsi dall’altra parte. 

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3 risposte a “Etica del business, coscienza, professionalità degli HR e responsabilità sociale delle imprese”

  1. Molto interessante in riferimento ai vari momenti che coinvolgono i personaggi interessati, a me è successo 2 volte.. inoltre conosco Mercuri, colleghi in artsana, e l ho apprezzato in un ruolo non dacile

  2. Bell’articolo, ma non ho trovato dettagli sull’omicidio perfetto o sulla malafede.

    Riesce a circonstanziarli nel prossimo blog.
    Giusto per avere il quadro completo.

    Grazie

    1. In un’azienda dove il proprietario viaggia verso i 93 anni e ha accumulato nella sua vita indubbi meriti come imprenditore ma non ha eredi spingerlo a portare via il pallone al centravanti più titolato della sua squadra perché il pallone è suo (e quindi può decidere chi deve giocare e chi no) non credo sia difficile. In ogni azienda ci sono invidie e ambizioni frustrate. Essendo ormai lontanissimo dal campo da gioco, il “padrone del pallone”, ascolterà con maggiore attenzione chi gli sta intorno. Se questo è verosimile (a leggere l‘Articolo allegato sembrerebbe di sì) mi immagino che chi lo ha convinto lo avrà fatto per un legittimo interesse personale. Questo è, a mio parere, il delitto perfetto. Vedremo tra un anno o due se sarà stata una mossa azzeccata o meno. Se c’è mala fede o buona fede nel fatto in sé non sono in grado di giudicare. Infatti elenco diverse ipotesi. L’articolista è, al contrario, più drastico. Però mi dà comunque fastidio che si rompa un giocattolo che funziona. Mi interrogo sul perché. Vede, qualche anno fa, quell’azienda valeva la metà. Non riconoscerlo o non ammettere di chi è il merito e in più punire chi ha realizzato quel risultato dovrebbe essere un caso di studio. Clinico. Tra l’altro UNES è il mio supermercato preferito.

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