Non ci sono solo le vertenze sindacali aperte con il pesante fardello occupazionale. All’appello mancano anche i rinnovi di molti contratti nazionali. Dal primo gennaio 2020 sono oltre 4 milioni i lavoratori con un contratto scaduto, quasi la metà nel settore privato. Metalmeccanici, Commercio e terziario, logistica e chimici, i principali. Dietro la porta il tema del salario minimo.
Lo scenario economico complessivo induce le imprese alla cautela e l’intervento relativamente modesto sul costo del lavoro da parte del Governo non lascia molti margini di manovra. All’ordine del giorno dei sindacati confederali la questione salariale ritorna in primo piano ed è destinata ad aprire scenari nuovi sul piano delle dinamiche sociali. Gli spazi di manovra sono ristretti e difficilmente offriranno sbocchi facili ai negoziati in corso.
I tre temi che dovrebbero animarli sembrano ritornati in ombra nello stesso dibattito sindacale. Il diritto/dovere all’occupabilità, il rafforzamento del welfare contrattuale e una sorta di forma di esigibilità concreta della contrattazione decentrata non sembrano costituire un terreno comune da esplorare nei rinnovi dei contratti nazionali.
Anche dall’altra lato del tavolo prevale una dose forse eccessiva di scetticismo sulla migliore direzione di marcia da scegliere. Imprese e sindacati sembrano volersi incamminare su percorsi più tradizionali e quindi divergenti. Se questa sensazione dovesse confermarsi sarebbe una sconfitta per coloro che credono in un’evoluzione possibile del sistema delle relazioni industriali.
In questi anni c’è stato un indubbio slittamento di una parte del rischio di impresa sul lavoro. In alcuni settori più accentuato, in altri meno. Ma questo slittamento non ha portato con sé alcun riequilibrio del sistema contrattuale. Anzi.
Le imprese hanno navigato sostanzialmente da sole nella crisi e nelle riorganizzazioni necessarie e il coinvolgimento dei rappresentanti dei lavoratori è stato spesso solo sulla gestione delle conseguenze. La crescita e lo sviluppo professionale dei collaboratori non hanno più, di fatto, nulla a che fare con gli inquadramenti e le declaratorie contrattuali, il salario aziendale, quando c’è, è sempre più gestito autonomamente dalle stesse aziende e, spesso, sono queste ultime a proporre sperimentazioni innovative sugli orari, sullo smart working o su forme di welfare specifiche. Salvo coinvolgere i sindacati (se ci sono) nella fase più gestionale.
Politiche che però non raggiungono la maggioranza delle aziende, soprattutto PMI, che al contrario rischiano di registrare solo lo spostamento del rischio di impresa e che segnalano un’approccio generale che riserva al contratto nazionale un ruolo sempre più percepito come un male necessario e non certo come un’opportunità.
Mentre chimici e alimentaristi mantengono il loro apparente basso profilo con un percorso collaudato e con benefici reciproci soprattutto nelle grande impresa, i metalmeccanici già nello scorso rinnovo, avevano cercato di interrompere questo declino rivendicando sia il diritto soggettivo alla formazione che la necessità di spostare decisamente il baricentro del confronto a livello aziendale.
I risultati, a loro parere, sono stati però deludenti al punto da indirizzarli verso un approccio più pragmatico al rinnovo in corso. Diverso è il giudizio di Federmeccanica che rivendica i passi in avanti pur limitati sottolineando che i cambiamenti culturali necessari anche per le imprese hanno tempi più lunghi della durata di un contratto nazionale e sarebbe un errore sottovalutarli o negarli.
Nel terziario la presenza di più contratti in dumping tra di loro non aiuta l’innovazione del sistema. Lo stallo è un’opzione concreta. Se a questo aggiungiamo l’interesse di Confindustria teso a garantire ai propri associati un contratto specifico per la parte di terziario di loro derivazione non possiamo che prevedere tempi lunghi.
Il rischio per Confcommercio è alto. Se dovesse prendere corpo un CCNL specifico del terziario di derivazione industriale la Confederazione dei commercianti si troverebbe “assediata” da un lato da Federdistribuzione che ormai ha un peso nel commercio che rischia di essere preponderante e Confindustria nel terziario di mercato con numeri altrettanto competitivi. In gioco un complesso sistema bilaterale di derivazione contrattuale con all’orizzonte la partita della certificazione della rappresentanza che incombe.
E su questo sarà determinante il ruolo che vorranno assegnarsi i sindacati di categoria che potrebbero essere spinti a muoversi in ordine sparso su più tavoli. Come è già successo con Federdistribuzione. Ovviamente peserà anche il parere delle rispettive Confederazioni e la loro volontà di assecondare o meno le rispettive categorie. Lo stesso vale per il turismo dove la sovrapposizione tra contratti mette in surplace tutti i contendenti.
Al palo c’è anche il rinnovo del contratto dei dirigenti del terziario. Di solito produttore di innovazioni interessanti. Dopo l’esperienza di “managerattivo” che ha consentito di aiutare al ricollocamento oltre 1200 dirigenti e quella recente, sviluppata autonomamente da Manageritalia del “career fitness” resta forte la volontà di mettere al centro del rinnovo contrattuale il diritto/dovere all’impiegabilità. Sarebbe una scelta lungimirante ma è difficile anche qui prevederne lo sbocco e i tempi di realizzazione. Confcommercio sembra puntare più ad una difesa dello status quo che a intervenire sui temi legati all’innovazione del sistema bilaterale.
Infine il rinnovo del CCNL dei trasporti e logistica. All’inseguimento dei rider nel raggio di interesse anche di altri comparti temo si stia sottovalutando il ruolo, i temi e il peso della logistica soprattutto laddove presenta forti concentrazioni di addetti che rischia di rappresentare in quel contesto ciò che la GDO ha rappresentato nel CCNL del terziario. E cosa ha comportato sulla tenuta dello stesso sul lungo termine.
Un panorama generale quindi piuttosto complesso attende le parti sociali sapendo che alle loro spalle, presto o tardi, irromperà il dibattito sul salario minimo proprio in una stagione che mostra incertezze e difficoltà a trovare sintesi nuove.
Personalmente resto dell’idea che come la conferma del livello distributivo prevalente del contratto nazionale ha contribuito a marginalizzare la contrattazione decentrata, il salario minimo rischia di rappresentare, vista la dimensione delle imprese italiane, la stessa cosa per la contrattazione ai vari livelli.
Ma su questo tema avremo modi e tempo di ritornarci con più calma.