L’amico Giorgio Santambrogio ha ragione a rivendicare un maggior peso politico per l’intero comparto della GDO. L’impegno delle imprese nei territori e per l’occupazione di tutti questi anni così come l’importante sbocco fornito alle PMI italiane sono lì a dimostrane l’importanza. Un settore che cresce e che deve essere riconosciuto per il contributo che dà alla nostra economia. Ma allora perché non è così?
A mio parere ci sono cause esterne e cause interne. Sulle prime è fuori dubbio che la GDO si è trovata per lungo tempo l’associazionismo di categoria schierato contro (oggi non più così) che ha lasciato in molti osservatori un retro pensiero negativo. Inoltre la maggiore capacità lobbistica e comunicativa dei settori a monte ha permesso di banalizzarne il ruolo e di trasformare l’anello finale della filiera nel responsabile unico di ciò che non funzionava in tutto il percorso.
Per non parlare del lavoro dove l’adozione di un modello tayloristico a volte troppo rigido, gli orari di lavoro e il tema delle aperture domenicali hanno creato tensioni e incomprensioni che hanno posto in secondo piano le esigenze e le opinioni dei consumatori, la concorrenza dei grandi player della rete e la necessità del comparto di cambiare per accompagnare l’evoluzione delle abitudini di acquisto.
Infine la difficoltà di convergere su un progetto condiviso che guardasse oltre le esigenze delle singole imprese ha fatto il resto, anche perché, gli imprenditori che hanno fatto la storia del comparto, spesso troppo innamorati di sé stessi e della propria azienda, hanno faticato a capire che era arrivato il momento di cambiare e di assumere, come settore, un ruolo propositivo nel contesto sociale andando oltre la semplice difesa dell’esistente.
Federdistribuzione ha fatto un buon lavoro sul piano dell’identità di settore, della comunicazione esterna e della rappresentanza però non ha potuto andare oltre per l’evidente difficoltà di mettere a fattor comune gli interessi spesso confliggenti tra le imprese associate. Ha retto perfino il divorzio da Confcommercio ma non è riuscita ad andare molto più il là. Ciascuno è rimasto intrappolato nei propri recinti senza essere in grado di attrarre gli altri.
Se partiamo dall’Europa, dove oggi si gioca la partita più importante, la GDO si muove ancora in ordine sparso. Federdistribuzione è in Eurocommerce. Confcommercio in SMEunited. Coop ha il suo ufficio relazioni internazionali. L’ANCD (Conad) è membro dell’I.R.E. Independent Retail Europe (Organizzazione Europea che rappresenta i Dettaglianti Indipendenti). I Retailer dell’elettronica specializzata hanno EuCER Council, European Consumer Electronic Retail Council.
Le multinazionali poi hanno i loro rapporti con Business Europe attraverso le loro case madri. E, a livello europeo, sono loro a decidere le strategie e le priorità della GDO. E non sempre i loro interessi coincidono con quelli del nostro Paese, della filiera nazionale ma neanche della stessa GDO italiana. Vedi, ad esempio, la querelle sulle centrali di acquisto.
E questo consente anche a parti dell’associazionismo nostrano (vedi Coldiretti, l’industria alimentare multinazionale tramite la loro attività di lobby) di giocare in solitaria per nome e per conto degli interessi complessivi del nostro Paese. Che però non sono solo quelli del primario o della grande industria di trasformazione.
Anche in Italia, poi, le voci si elidono sovrapponendosi. Federdistribuzione è certamente la più rappresentativa ma non può contare sulle due principali realtà del settore. Coop, per una conventio ad excludendum decisa fin dai tempi di Bernardo Caprotti e Conad perché è in parte in Confesercenti, dove è nata, e per un’altra parte in Confcommercio ma ha la propria struttura di rappresentanza riconosciuta in ANCD.
Confcommercio a sua volta, a parte una serie importante di aziende della GDO, mantiene una buona rappresentatività soprattutto nel no food e nel franchising ma non ha una propria federazione di riferimento. Infine, Confimprese che ha una presenza minore ma significativa per qualità avendo scelto un criterio più intersettoriale di rappresentanza. Quindi più innovativo in una prospettiva di filiera.
A mio parere, però, ci sono troppe associazioni a presidiare uno spazio già di per sé angusto di questi tempi. Se poi passiamo al campo sociale nel comparto esistono ben quattro contratti nazionali. Un lusso inutile. L’obiettivo massimo possibile in queste condizioni sembra essere diventato il famoso “marciare divisi e colpire uniti” di vecchia scuola. Sulla vicenda delle chiusure domenicali è andata così.
Salvo Confimprese e quindi Confindustria che mantengono una posizione netta sulla libertà di impresa e quindi sul diritto alle aperture previste dalla liberalizzazione montiana tutte le altre associazioni, preoccupate della volontà interventista dei 5s hanno condiviso una proposta unitaria che prevede la disponibilità alla chiusura di 8 festività decise però centralmente. Un tatticismo rischioso che non esclude, vista la superficialità sul tema degli interlocutori, di ritrovarsi a discutere ancora a livello locale con tutte le contraddizioni del caso.
Il problema centrale è che ogni azienda rivendica a parole un ruolo di settore ma non riesce ad accettare di proporsi riconoscendosi come parte di un insieme. L’insegna in sé fa certamente premio sul consumatore, meno sulla politica. Lì pesano i numeri e l’unità del comparto.
E per questo servirebbero anche uomini nuovi e risorse adeguate. Eppure basterebbe crederci. Alcune iniziative in corso tentano di rompere i vecchi recinti che sono destinati comunque a cadere.
L’intero comparto è alle prese con una riorganizzazione profonda e dai tratti comuni. Il futuro prossimo, quindi vivrà gli stessi problemi e sarà all’insegna delle concentrazioni, pur di diversa tipologia, assolutamente necessarie per crescere. L’innovazione tecnologica, la qualità del servizio al cliente, l’affermarsi della MDD e i progetti di internazionalizzazione premieranno le imprese che sapranno aprirsi e costruire nuovi rapporti nella filiera. Così come verranno valorizzate le insegne che sapranno mettere al centro il rapporto con il contesto e con i propri collaboratori.
Tutto questo può consentire veramente una nuova stagione per la GDO e per l’associazionismo collegato. Oggi, forse più che in passato, ci sono gli uomini in grado di interpretarne le esigenze e di mettere a fattor comune le opportunità e gli interessi del settore.
La GDO è molto di più di ciò che qualche osservatore esterno distratto vorrebbe etichettare. Ma proprio per questo le ragioni di questo necessario cambiamento devono venire innanzitutto da dentro. Il resto, credo, verrà da sé.