Nelle ristrutturazioni aziendali che hanno caratterizzato gli ultimi venti anni del 900 più che la qualità del piani di rilancio il criterio prevalente adottato dai rappresentanti dei lavoratori per valutarne la loro consistenza e fattibilità si concentrava sulla gestione dei soggetti più deboli. Ed era relativamente semplice identificarli. Dalla individuazione delle persone, al repechage, ai trasferimenti e ai demansionamenti l’obiettivo è stato sempre quello di lasciar uscire volontariamente più persone possibili, prepensionarne altre e mantenere al lavoro il più alto numero di lavoratori con tutti gli strumenti disponibili.
Oggi è molto più difficile individuare con certezza i tempi, i risultati attesi ma anche qual’è la parte più debole in una ristrutturazione complessa anche perché le persone coinvolte non sono tutte uguali. E non è più possibile considerarle tali. Neanche nelle conseguenze. C’è una componente di aleatorietà sulla prospettiva lavorativa e di necessaria attenzione alla personalizzazione che un tempo erano sullo sfondo mentre oggi sono diventate entrambe centrali. Anche per queste ragioni le procedure di licenziamento collettivo che accompagnano i piani di ristrutturazione e rilancio tendono generalmente a concludersi con accordi sindacali laschi costruiti per sostenere, per quanto è possibile, i lavoratori che inseguono il loro destino della nuova realtà ma anche assicurandosi che gli incentivi economici concordati finiscano al massimo possibile nelle tasche di quelli costretti a lasciare l’azienda evitando che si perdano in mille rivoli fiscali e contributivi come avverrebbe nel caso di un mancato accordo tra le parti. Mancato accordo che rischia di danneggiare economicamente quasi sempre i lavoratori e quasi mai l’azienda. E questo è un punto importante su cui occorre riflettere. E che apre solo ad infiniti contenziosi legali individuali che durano anni e dagli esiti incerti.
In tutti i casi la scelta di fondo per i sindacati era ed è di escludere sempre e comunque l’accettazione formale dei licenziamenti lasciando ad una strumentazione più “spintanea” che spontanea la gestione delle cosiddette uscite individuali. Che però, nella stragrande maggioranza dei casi, in passato erano residuali o marginali rispetto ai numeri complessivi in gioco. Oggi non è sempre così.
Le conseguenze della crisi, le operazioni di merger & acquisition più impegnative e l’inadeguatezza delle risorse economiche pubbliche attivabili hanno disegnato un’altra realtà nella quale gli interessi in gioco rischiano di diventare ancora più contrastanti e difficili da comporre.
Innanzitutto oggi nessuno è più in grado di dare garanzie sul futuro. Tanto più in situazioni, come nella GDO, dove chi subentra compra una quota di mercato potenziale e localizzata, legata al passato, che dovrà essere confermata dai consumatori. Compresi quelli che hanno lasciato quell’insegna e quel punto vendita per andare altrove.
Un mercato potenziale che va riconquistato come unica garanzia di futuro del lavoro e dell’impresa che ha scommesso sulla possibilità di recuperarlo. Non c’è però nulla di scontato o di automatico. E i piani di rilancio possono funzionare in un contesto e non in un altro. E tutto questo, pur tutelato nella fase di passaggio dal 2112 del c.c., non consente di optare per facili scorciatoie. È la realtà che lo rende aleatorio. Qualsiasi azienda subentrante può scommettere su un periodo di tempo necessario all’inversione di tendenza e, di conseguenza, può concordare con i rappresentanti dei lavoratori un tempo congruo. Ma è sinceramente difficile pretendere automatismi realistici. Anche perché in caso di crisi irreversibile l’insieme dei lavoratori dell’azienda subentrante, pur non essendo coinvolti in prima persona nell’operazione di trasferimento, verrebbe comunque considerata come se lo fosse come sembra stabilire una recente sentenza della Cassazione.
E qui nasce una prima grande differenza rispetto al passato. Il rischio in operazioni di riorganizzazione complesse non è più sostenibile dalla sola azienda. Per questo occorrerebbe ragionare in termini di condivisione del rischio ma anche delle opportunità che possono essere generate in caso di successo. altrimenti si condivide solo il rischio. Consapevolmente o meno. Quindi diventa determinante il percorso, le verifiche, la qualità della gestione, il rispetto degli impegni sottoscritti. Quindi la scommessa sul futuro. È lì che le garanzie possono trovare uno sbocco accettabile per entrambe le parti. Altrimenti la contrapposizione diventa sterile e il risultato inevitabile. Ed è su questo terreno che, purtroppo, non c’è stata alcuna evoluzione significativa se non in alcuni comparti industriali.
Quando un’azienda di una certa dimensione, in crisi profonda, passa di mano perché ha esaurito la sua ragion d’essere è il suo concreto rilancio in un nuovo contesto l’unica garanzia possibile di futuro. Quindi la qualità del piano industriale. Il resto che lo si voglia ammettere o meno è scritto sulla sabbia. E di questo occorre esserne consapevoli.
C’è però un secondo conflitto di interesse interno ai lavoratori che nasce inevitabilmente in queste situazioni. Quello tra chi deve, pur non volendolo, lasciare l’azienda “autolicenziandosi” e chi invece punta a continuare a restarci pur in modalità organizzative, economiche e di contenuti lavorativi differenti. Il caso Auchan sotto questo punto di vista è paradigmatico.
I dirigenti, tramite Manageritalia, hanno trovato a suo tempo un’intesa sulla loro uscita (tempi, contenuti e modalità) dimostrando che è possibile trovare un compromesso intelligente tra esigenze di tutela di categoria, personalizzazione e strumentazione di supporto. Gli addetti nelle filiali sanno che verranno ceduti a terzi o entreranno nel sistema Conad. Resta semmai il problema per chi dovesse restare fuori da queste soluzioni il cui impatto territoriale, salvo che in alcune situazioni a cui va trovata una risposta specifica, sarà però sostanzialmente modesto. Non nel senso dei numeri complessivi ma nella loro distribuzione territoriale. E comunque più facilmente gestibili rispetto all’insieme delle sedi che, al contrario, non hanno questa prospettiva.
Tutti coloro che sanno che entro un anno dovranno lasciare comunque l’azienda perché il termine massimo è già stato sostanzialmente fissato non possono permettersi di perdere tempo. E questo rischia di creare un enorme conflitto di interessi tra lavoratori.
Sono esigenze diverse difficili da comporre perché prevedono soluzioni diversificate, persona per persona, per chi si trova nella condizione di doversi muovere sul mercato. I numeri complessivi, in questo caso fanno sicuramente la differenza.
Nelle sedi vivono centinaia di persone che hanno una professionalità specifica e che sanno che non avranno alcuna possibilità interna. Manager, quadri, professional ma anche impiegati che devono essere messi in condizione di ricollocarsi sul mercato. O individualmente, quindi è fondamentale che si chiuda la partita degli incentivi e delle condizioni di accompagnamento ma anche collettivamente attraverso tutta la strumentazione necessaria (formazione, preparazione ai colloqui di lavoro, tempistiche e modalità del ricollocamento) che deve rendere i tempi sufficienti e congrui a trovare un altro posto di lavoro. E questo in una situazione di grande difficoltà organizzativa e lavorativa in continuo stravolgimento che si complicherà giorno dopo giorno..
Come mettere a fattor comune esigenze così diverse non sarà affatto facile. Però è urgente e fondamentale. A mio parere non dovrebbe esserci un prima e un dopo. Sono problematiche differenti che andrebbero affrontate in modo differente. Anche sul piano negoziale.
Trattare uscite di una certa dimensione, professionalità e condizioni individuali non è come trattare un trasferimento che ha comunque tutele di legge. Occorre organizzare un sistema di supporto e di sostegno. E i tempi, è meglio tenerlo sempre presente, sono quelli della procedura.