Confindustria ci sta provando sul serio. Ci sono stati alcuni incontri di approfondimento con i sindacati confederali per valutarne l’opportunità. Lo si capisce anche dalle mosse per blandire i sindacati di categoria, coinvolti direttamente o riservatamente, messe in atto da Confcommercio. “No pasaran” sembra essere il grido di battaglia di quest’ultima.
Tra garanzie fornite da alcuni interlocutori sindacali e strategie di organizzazione il fronte non è così compatto come vorrebbero farlo apparire. C’è tanto in ballo. Sul tavolo il contratto nazionale del terziario italiano per il momento in capo all’unica organizzazione datoriale che lo ha presidiato fino ad ora.
Un contratto più flessibile e conveniente di altri che ha attraversato indenne le stagioni delle rigidità sindacali e, per questo, è stato adottato dalla maggioranza silenziosa delle piccole imprese italiane per i loro lavoratori entrambi fuori dai radar della rispettiva rappresentanza datoriale e sindacale.
È chiaro che non c’è un rapporto diretto tra rappresentanza e rappresentatività. La prima è data dal numero di associati reali in termini complessivi e del loro peso da far valere sul terreno politico e istituzionale, la seconda dal peso effettivo in uno specifico settore o sotto settore.
È indubbio che per quanto riguarda il turismo e gli esercizi commerciali non c’è mai stata partita. Confindustria ci ha provato ma non ha mai inciso più di tanto. Forte tra i grandi player internazionali ma inesistente nel tessuto vero del turismo italiano. Il radicamento delle federazioni di Confcommercio a cominciare da Federalberghi e FIPE è fuori discussione. Così come la loro rappresentatività del comparto che ne trascina con sé molti altri collegati.
Se il terziario fosse tutto qua non ci sarebbe partita. Se però si osserva con la lente di ingrandimento questi due comparti ci si renderebbe conto che il contratto nazionale del terziario non c’entra nulla. Oltre alla loro indubbia titolarità a rappresentare il comparto entrambe hanno il loro specifico contratto nazionale. Così come i trasporti e la logistica. Quindi i tre milioni di lavoratori a cui si applica il CCNL del terziario sono tutt’altra partita.
Il caso del contratto nazionale dei dirigenti del terziario chiarisce molte cose. Da una parte del tavolo Manageritalia che vanta oltre il 95% degli iscritti dei 25.000 circa dirigenti a cui viene applicato. Quindi, in questo caso, rappresentanza e rappresentatività coincidono.
Dall’altra 8.000 imprese con dirigenti dove Confcommercio difficilmente supera il 30% delle aziende che lo hanno scelto. Senza dimenticare che, in questa quota, vanno compresi anche un numero significativo di piccoli imprenditori che ha scelto di assegnare a sé stesso o ad un familiare la qualifica di dirigente per garantirsi una tutela sanitaria e previdenziale di prim’ordine.
Indipendentemente da quante aziende di questo comparto siano già iscritte a Confindustria o ad altre confederazioni c’è un prato verde su cui in molti vorrebbero costruire il proprio ruolo e aggiungervi il relativo peso politico. Senza dimenticare che i confini tra settori tradizionali stanno perdendo di significato.
La stagione dei contratti nazionali adesso è formalmente aperta ma non credo che Manageritalia abbia interesse a cercare nuovi interlocutori anche perché si troverebbe in concorrenza con Federmanager con cui condivide la presenza in CIDA. Diverso è lo scenario sul “contrattone” dei dipendenti. Una sottovalutazione del contesto competitivo, dei tempi di rinnovo o dei contenuti potrebbe aprire ben altri scenari. Nella tornata appena scaduta la firma del primo CCNL della distribuzione moderna da parte di Federdistribuzione ha creato un precedente da cui è difficile prescindere. Ed è quello su cui insiste Confindustria.
Lo stesso recente accordo di quest’ultima con Confimprese, pur salvaguardando la rispettiva autonomia, va in direzione di una rappresentatività più trasversale. La GDO da sola rappresenta circa il 50% del comparto del commercio e solo in questo specifico settore convergono quattro contratti nazionali più un numero abbondante di contratti pirata.
Qualche riflessione andrebbe fatta sull’intera realtà dei CCNL presenti nel terziario di mercato. Altrimenti lo stallo potrebbe innescare reazioni a catena. FIPE, da parte sua, ha rotto già da anni la tradizionale convivenza con Federalberghi costruendo un proprio CCNL in un momento nel quale le attività del commercio moderno e tradizionale e quelle della ristorazione iniziano a sovrapporsi. L’elemento che ne caratterizza il contenuto, oltre alle micro specificità, è solo la competizione sul costo del lavoro. Non certo il livello di innovazione in rapporto al contesto.
Quindi addirittura nella parte “core” della rappresentanza contrattuale tradizionale per Confcommercio esiste già lì un serio problema di competitività al proprio interno, di allineamento e di riconoscimento complessivo da parte delle imprese. Trasporti e logistica, dal canto loro, seguono altre traiettorie contrattuali pur riconoscendosi nella Confederazione di piazza Belli.
In questo “caos calmo” sui terreni noti nessuno può vantare una reale rappresentatività sul resto della prateria del terziario se non in nicchie specifiche. E, a mio parere, stiamo parlando di qualche milione di addetti a cui oggi viene applicato per semplice convenienza delle imprese il CCNL del terziario. Una sorta di salario minimo ante litteram.
E questo a dimostrazione di quanto la rappresentatività reale e il diritto di rappresentarla contrattualmente possano viaggiare su binari differenti. Le recenti reticenze sul piano della certificazione della rappresentanza nascono sostanzialmente intorno a queste ragioni. E questo vale sia per i sindacati di categoria che per Confcommercio.
Da qui gli appetiti di Confindustria e di altre organizzazioni. La titolarità della firma di un contratto nazionale non è solo un problema di forma o di ruolo preteso. Nelle indagini promosse dalle grandi confederazioni risulta essere, per le singole imprese, uno dei motivi principali per scegliere di aderire ad una confederazione piuttosto che ad un’altra. Ed è anche fonte di finanziamento importante. Che in tempi di vacche magre per tutti non è da sottovalutare. Quindi essere titolare del più importante CCNL italiano non è cosa di poco conto. Soprattutto per la sua anomalia costitutiva.
Il contratto nazionale del terziario è un contratto confederale per la parte datoriale e presidiato da federazioni di categoria per il sindacato. Al contrario di Confindustria che si ritrova, per storia e tradizione, con specifiche differenze tra singole categorie industriali sulle quali non è semplice operare sintesi organizzative.
Detto tutto questo e pur comprendendo le buone ragioni di chi vorrebbe inserirsi e di chi resiste sul Piave non credo che il Paese abbia bisogno di un nuovo contratto nazionale. Ce ne sono già troppi. Semmai avrebbe bisogno di un’evoluzione dell’intero sistema contrattuale e delle organizzazioni di rappresentanza. Anche loro troppe e troppo legate al novecento.
La discussione sul futuro del terziario italiano, la stagione dei rinnovi contrattuali e, soprattutto, le elezioni dei nuovi vertici di Confindustria e Confcommercio ci dovrebbero far comprendere meglio gli scenari dei prossimi anni e come intendono collocarsi i corpi intermedi.
Abbiamo bisogno di unità, di visione condivisa e di innovazione sociale ed economica. Da entrambe le parti in campo. Sul versante delle imprese, per quanto mi riguarda, prediligo il modello francese che ha nel MEDEF una sola organizzazione datoriale con all’interno le sue specificità categoriali. Ma la voce delle imprese resta una e una sola.
Le difesa di modelli organizzativi messi in discussione da un mondo globalizzato e dalla necessità di concepire diversamente la difesa di specifici interessi in contesti che devono scegliere dove investire le poche risorse disponibili presuppone grandi cambiamenti e non chiusure conservatrici. Questa è la sfida vera sul fronte delle imprese più che la concorrenza su ciò che il passato ci ha lasciato pur come ricca dote.
Sarà la generosità, la visione e la lungimiranza a decretare i nuovi protagonisti, non la rigida difesa dell’esistente che garantisce il presente ma non guarda al futuro.
Perché quando la velocità di cambiamento del contesto è più marcata della velocità di cambiamento delle organizzazioni che vi interagiscono la fine di queste ultime è già iniziata. Che lo si capisca o meno. E questo vale per tutti.