Se fossimo in un Paese normale la discussione sull’introduzione del salario minimo avrebbe ben altri sbocchi. In tempi passati sarebbe stata circoscritta alle parti sociali che lo avrebbero affrontato, quantificato e definito direttamente nei contratti nazionali. In fondo l’Europa è interessata al merito più che alla forma.
Non è certo materia che si può imporre. Però l’invito ad affrontare il problema che sta alla base di questa proposta è presente come peraltro prevedono gli accordi politici che hanno determinato l’elezione di Ursula von der Leyen. Andrea Garnero espone un suo condivisibile punto di vista sul sole 24 ore (http://bit.ly/2SPGU2q) cercando di allargare il campo evitando così una discussione sterile e ridotta al “si o no” al salario minimo.
Come spiega correttamente Giuseppe Sabella (http://bit.ly/37ZQGU0) le parti sociali, da parte loro, restano contrarie ad una sua introduzione. Al massimo ne potrebbero tollerare una presenza marginale e limitata a ciò che non può essere compreso nei CCNL. Ovviamente estendendo al massimo possibile la copertura di questi ultimi oltre quel 90% che ne rappresenta il perimetro attuale.
La partita però è molto più complessa di quello che appare. Sul fronte politico il Ministro del lavoro ha, da parte sua, rotto gli indugi e presentato la sua proposta. La cifra di riferimento sembrerebbe attestarsi tra i 7 e gli 8 euro, in linea con i maggiori Paesi Ue (solo la Germania è sopra i 9 euro).
Il confronto nella maggioranza procede quindi con l’obiettivo di arrivare ad un accordo complessivo. I salari minimi nei paesi Ocse sono compresi tra il 40 e il 60 per cento del salario mediano: in Italia corrisponderebbe a una somma compresa tra 5 e 7 euro. C’è ottimismo nei 5s sul possibile accordo, meno tra gli alleati di Governo.
Come abbiamo premesso la discussione sul salario minimo, per come è impostata, non è nelle corde della rappresentanza né datoriale né sindacale. Ne potrebbe ridimensionare il ruolo e, senza ulteriori interventi correttivi, potrebbe mettere in crisi lo stesso welfare contrattuale, comprimere le tutele e spingere le imprese, soprattutto quelle piccole ad adottarlo in alternativa ai contratti nazionali.
Quindi per inseguire una significativa quanto modesta minoranza oggi non coperta dai CCNL, secondo i suoi detrattori, si rischierebbe di mettere in discussione l’impianto complessivo di tutele e welfare oggi sostenuto proprio dalla contrattazione nazionale. Senza dimenticare che, dietro ai contratti nazionali, ci sono interessi importanti sia in termini di tenuta e di sviluppo associativo ma anche per i ristorni economici diretti e indiretti che ne derivano.
Ammesso poi che le parti sociali, pur di non avere il salario minimo per legge, volessero provare a far evolvere il modello attuale si renderebbero indispensabili interventi tutt’altro che scontati. Innanzitutto la certificazione della rappresentanza. Facile a dirsi, difficile a farsi. Non è un caso che l’accordo tra Confindustria con CGIL, CISL e UIL non ha fatto grandi passi in avanti.
Le altre organizzazioni datoriali, a cominciare da Confcommercio, al momento non sembrano disponibili a sottoscrivere un’intesa analoga. E la confederazione di piazza Belli presidia il CCNL più importante in termini di copertura complessiva. Così le buone intenzioni del presidente del CNEL Tiziano Treu sono, per il momento, ferme al palo. Certo potrebbe intervenire la legge consolidando ciò che Confindustria insieme a CGIL, CISL e UIL hanno concordato. Ma questo oltre a rappresentare uno schiaffo per le organizzazioni contrarie ai contenuti sottoscritti da altri renderebbe indispensabile trovare un accordo in tal senso nella maggioranza in questo Parlamento. Cosa non semplice visto l’orientamento pro salario minimo dei 5s e di una parte del PD.
Quindi l’idea di rafforzare l’attuale sistema attraverso l’erga omnes rischia di restare confinata nelle buone intenzioni. Almeno per il momento. La certificazione sarebbe, tra l’altro, fondamentale perché consentire di chiudere la partita dei contratti pirata. E di ridefinire in chiave più attuale l’appartenenza ai vari settori.
Questa operazione, però, porterebbe in primo piano due problemi di non semplice soluzione. Il primo è il rapporto tra rappresentanza esercitata fino ad oggi e rappresentatività reale nei settori o nei sottosettori specifici. Il secondo è l’attuale libertà, per le imprese, di scegliere se applicare un contratto nazionale piuttosto che un altro con un conseguente impatto sui costi.
È difficile poi ipotizzare una divisione tradizionale operata sui settori del novecento. Primario, secondario e terziario. Oggi non può più essere così. I confini hanno perso di significato. Chi rappresenta, ad esempio, numeri alla mano, il terziario di mercato oggi interamente compreso nel perimetro rappresentato da Confcommercio? O i suoi singoli sottosettori? Chi la grande distribuzione con i suoi quattro contratti nazionali? Chi le aziende che contemporaneamente inglobano servizi, produzione, vendita e assistenza post vendita?
La scelta non potrebbe che essere demandata alle aziende che inevitabilmente si rivolgerebbero al contratto nazionale che presenta costi inferiori consentendo maggiore libertà di movimento. Con un’inevitabile gara al ribasso nei futuri rinnovi. Per non parlare della contrattazione decentrata che, nel caso di conferma del modello attuale, subirebbero complessivamente una ulteriore fase di stallo già in essere da alcuni anni per la sovrapposizione di fatto con parte dei costi del CCNL.
Temo quindi sia una materia molto più complessa di come la si vorrebbe raccontare. In buona parte della politica poi cresce la voglia di salario minimo. Non solo nei 5S. C’è ormai competizione sui temi del lavoro con la rappresentanza sindacale e datoriale. Aggiungo infine il fascino che potrebbe esercitare il salario minimo sulle piccole e piccolissime imprese e che influenzerebbe inevitabilmente al ribasso i contenuti della contrattazione nazionale e il rischio opposto, per alcuni grandi gruppi, di disegnarsi su misura, il proprio perimetro uscendo a loro volta dal contratto nazionale di riferimento.
Lo stallo dei principali rinnovi contrattuali in corso dovrebbe far riflettere sulle ragioni che stanno spingendo le imprese e le loro associazioni a prendere tempo e, non credo che aprire con i rinnovi in corso la partita sul salario minimo possa aiutare la loro conclusione positiva.
Questi e altri elementi fanno pensare che senza un ridisegno complessivo dell’intero sistema delle tutele, dei livelli della contrattazione e dei suoi contenuti è difficile pensare a cambiamenti significativi. Quindi, a mio parere, la soluzione ottimale, da condividere necessariamente con le parti sociali, è ancora ben lontana e le conseguenze delle differenti opzioni ancora poco valutate. Difficile quindi fare previsioni.