Mi sembra che pochi osservatori abbiano colto il significato profondo dell’interruzione del trattative per il rinnovo del contratto nazionale dell’industria alimentare. Insieme al comparto chimico sono settori da sempre caratterizzati da una cultura improntata alla collaborazione tra i sindacati dei lavoratori e le associazioni imprenditoriali.
Collaborazione che non è mi venuta meno e che ha consentito in larga parte la gestione delle riorganizzazioni e i processi di cambiamento nelle imprese e nei gruppi del comparto stesso. Abbandonare il confronto dopo sei mesi di negoziato e tre mesi dalla scadenza del CCNL è un segnale forte che potrebbe indicare l’accentuarsi di un cambiamento significativo già presente altrove.
Secondo il sindacato degli alimentaristi il contrasto è di sostanza. Sul diritto soggettivo alla formazione, sugli appalti e sull’inquadramento professionale le imprese del settore sembrano intenzionate a continuare a fare da sole. E nessuna delle due parti è interessata, più di tanto, a formulazioni generiche quanto inutili sui temi controversi ma ritenuti qualificanti, come in passato.
Tutto questo sembra confermare ciò che ho già evidenziato in altri post. La volontà di una parte importante delle imprese di relegare le rappresentanze dei lavoratori ad un ruolo ancillare confermando di aver ormai assunto in prima persona il rapporto diretto con i propri collaboratori e quindi di non essere più disponibili a condividerne il ruolo con le organizzazioni sindacali. Ma anche di imporre mandati rigidi alle proprie rappresentanze quasi comprendendo anche a loro nella crisi di fiducia nell’intero sistema delle relazioni industriali. E tutto questo nella stagione dei rinnovi dei vertici delle principali organizzazioni datoriali del Paese non è un buon segno.
Eppure sembrerebbe emergere dal confronto fino ad ora la volontà che questi rinnovi contrattuali costituiscano un segnale forte di chiusura di un ciclo di contenuti e di relazioni sindacali cominciato negli anni 60 del secolo scorso che comprendeva al suo interno, tre direttrici fondamentali, oltre alla difesa del salario. Soprattutto per i sindacati ma non solo.
Innanzitutto la crescita o perlomeno il consolidamento dei diritti, delle tutele e dei modelli organizzativi in senso lato di un mondo del lavoro e delle imprese che ha iniziato da tempo a smarcarsi dal fordismo. In secondo luogo di segnare un ruolo da protagonista nei cambiamenti e nelle innovazioni delle imprese anche attraverso la contrattazione decentrata e, infine, il welfare contrattuale, per accompagnare il declino e la necessaria integrazione del welfare pubblico costruendo contemporaneamente un sistema bilaterale efficace e partecipato.
Indubbiamente, a parte quest’ultimo punto dove la necessità di fare massa critica ha spinto le aziende ad assecondare questo filone di richieste soprattutto sulla previdenza e sulla sanità sugli altri due il mondo delle imprese è stato molto più reticente.
La competizione internazionale, le crisi che si sono via via succedute e quindi la necessità di riorientare investimenti rischiosi e lavoro con una rapidità diversa dal passato, l’importanza di una gestione attenta dei cambiamenti organizzativi e della crescita delle proprie risorse umane strategiche e la sostanziale ritrosia del sindacato, unitariamente inteso, di ritenere l’azienda un luogo dove bisogna innanzitutto creare ricchezza e valore prima di porsi il problema della sua distribuzione ha creato una situazione di crescente incomunicabilità che ha via via spinto ad una estromissione di fatto de sindacati dalle decisioni aziendali relegandoli ad un ruolo assolutamente marginale.
E, questi ultimi, indubbiamente indeboliti nel loro ruolo negoziale tradizionale non sono stati in grado di affidarsi ai rapporti di forza per spingere le controparti datoriali a concessioni significative su problematiche ritenute ormai dalle imprese di loro esclusiva competenza e con significative aree del lavoro convinte che questo sia coincidente con i propri interessi professionali. Le stesse associazioni datoriali non sono riuscite più di tanto ad esercitare un ruolo di mediazione se non dando luogo a formulazioni lasche di testi contrattuali che ormai rischiano di non soddisfare più nessuno.
Questo segnale, proveniente dal negoziato degli alimentaristi, non è il solo. Lo stallo nei metalmeccanici, il blocco nel commercio e negli altri comparti sottolineano una evidente difficoltà a ritrovare le regioni di un cammino comune condiviso. Personalmente credo sia un errore affidarsi alla “politica del pendolo”. Sfruttare a proprio vantaggio i rapporti di forza non è stato positivo quando erano a favore del sindacato non lo è adesso solo perché hanno cambiato segno.
Certo per buona parte del sindacato esiste un problema di formazione e crescita dei dirigenti soprattutto nelle problematiche dell’impresa e questo riguarda complessivamente l’intero sindacalismo confederale ma tutto questo non è sufficiente per rassegnarsi ad un declino delle relazioni sindacali.
I contratti nazionali restano un buon punto di contatto per rivitalizzare il sistema. Il recente documento che ha visto protagonisti l’insieme dei corpi intermedi principali che chiede alla politica di avere più coraggio e di rimettere in moto il Paese dopo l’emergenza da coronavirus segnala una carenza evidente del nostro sistema economico, sociale e politico. Il rischio di declino viene da lì. E non si esce senza una nuova stagione di collaborazione che sappia rimettere al centro priorità e problemi veri.
La nostra è una società complessa. Non si gestisce questa complessità se ciascuno si chiude nel proprio perimetro e delegittima chi, pur rappresentando interessi diversi, è disponibile a compiere tratti di strada comuni. Questa stagione di rinnovi contrattuali per questo non è paragonabile a quelle passate. È evidente che non saranno i rapporti di forza a sbloccarli ma solo la lucidità dei protagonisti nel saper individuare ciò che serve veramente al futuro del lavoro, delle imprese e del Paese.