Come tutto ciò che è riproducibile facilmente da chiunque e a basso costo ad un certo punto le abbiamo lasciate ai cinesi. Il loro costo non ne giustificava la produzione nazionale e non certo per il materiale di cui sono fatte. Nessuno ha pensato che un presidio sanitario così insignificante sarebbe potuto diventare fondamentale, prima o poi, non solo per noi ma per il mondo intero e che la globalizzazione, ogni tanto, presenta i suoi conti.
Improvvisamente sono diventate indispensabili. E nessuno ne aveva in misura sufficiente, salvo i cinesi. Parliamo delle mascherine. La Protezione Civile italiana stima che, finito il lockdown, si passerà dall’attuale fabbisogno di 90 milioni al mese a uno di 2-300 milioni di pezzi perché accompagneranno ancora per lungo tempo la nostra quotidianità. L’ultima volta che la loro apparizione aveva destato un certo interesse dell’opinione pubblica è stato nel 2019 quando sono diventate uno dei simboli delle proteste anti-cinesi che hanno scosso le strade Hong Kong. Poi più nulla.
Molti giovani asiatici spesso le usano normalmente come social firewall in maniera tale da poter creare una comunicazione indiretta, intermediata dalla maschera. Non sono prodotte da sottoscalisti sconosciuti. Tra i produttori c’è Dettol, che fa capo alla multinazionale Reckitt Benckiser. Medline, che distribuisce prodotti sanitari fino all’italianissima PIC Solution, nota ai più per la produzione della siringa monouso.
Ovviamente sono prodotte anche da numerose società cinesi. Pur costrette a ritmi di lavoro impressionanti per i nostri parametri non riescono, comunque, a coprire la produzione per soddisfare la crescente domanda. Prima del Covid-19 la Cina produceva circa 20 milioni di mascherine al giorno. Metà della produzione mondiale. Oggi la Cina produce 120 milioni di mascherine al giorno.
Una necessità vitale per ogni Paese disporne delle forniture e delle quantità necessarie ma anche un business imponente. Cosa significa quindi, per un Paese come il nostro, riprenderne il controllo? E, soprattutto, a quali condizioni e a quali costi.
Bruno Vespa non si è certo fatta mancare l’occasione per cavalcare l’onda del consenso immediato. Le mascherine, secondo lui, dovrebbero essere prodotte in Italia e agli stessi costi pre Covid-19. Temiamo però che questa convinzione, pur popolare in questi momenti, sia la classica risposta semplice ad un problema complesso.
Perché la produzione di mascherine se n’è andata dal nostro Paese? Perché è stata smantellata l’intera filiera produttiva e trasferita in Cina? Probabilmente perché il prezzo proposto dalle aziende cinesi, grazie soprattutto al loro costo del lavoro, è nettamente inferiore a quello praticabile da noi. Certo si potrebbe puntare sulla necessità di “comprare italiano”.
Qualità, conformità, materiale utilizzato potrebbero giustificare un prezzo maggiore. L’opinione pubblica potrebbe addirittura apprezzarlo e sostenerlo. L’esperienza però ci dice che le scelte emotive derivate da contesti eccezionali hanno sempre una scadenza derivata dal rientro nella quotidianità. Vale per le mascherine ma vale anche per tutto il resto.
Il rischio di finire in un vicolo cieco in poco tempo è molto alto. Le riflessioni del responsabile della protezione civile Arcuri sono certamente da condividere: “Un grande Paese non può dipendere per sempre dalle importazioni e dalle guerre commerciali. Noi siamo un Paese del G7, la seconda manifattura d’Europa è mai come in questo periodo abbiamo dimostrato di essere un Paese straordinario”.
Secondo il Sole 24 ore già “25 aziende del comparto moda producono 200mila mascherine al giorno, che dalla prossima settimana saranno 500mila al giorno e dalla successiva 700mila. E il comparto per l’igiene personale ne produce 200mila al giorno, che saliranno a 400mila la prossima settimana e a 750mila la successiva”.
Coop e Conad si sono impegnate a rifornire le proprie parafarmacie per la vendita di questo prodotto a 80 centesimi per ogni mascherina chirurgica dando probabilmente il via a comportamenti analoghi in tutta la GDO.
Ma, a nostro parere, non è questo il punto. Un grande sforzo concentrato nel tempo per tradursi in un’attività economica durevole ha bisogno di un contesto che la favorisca e la consolidi. La differenza tra mascherine cinesi e nostrane sarà sempre determinata dal costo del lavoro. Difficilmente dalla qualità del prodotto.
Senza dazi oggi improponibili a livello nazionale o europeo, senza rigidi capitolati nelle gare d’appalto pubbliche, senza distorsioni della concorrenza è difficile pensare che il “comprare italiano” sia una garanzia sufficiente per le pur lodevoli scelte imprenditoriali di queste settimane.
Così come un rigido controllo sul prezzo di vendita non può non avere ripercussioni sulle filiere a monte non appena passata l’onda emotiva di questo periodo.
Le mascherine sono solo la punta dell’iceberg. L’italianità di alcune produzioni o prodotti ritenuti strategici è certamente da perseguire. Ma questo ha delle conseguenze che non vanno sottovalutate. Altrimenti ci si accontenta di boutade propagandistiche che non ci portano da nessuna parte.
Certo che l’IVA al 22% sulle mascherine, dato che è sono obbligatorie e a tutti gli effetti un presidio salvavita, fa inorridire…
Analisi e riflessioni competenti, le condivido.
Al dire tanto per dire, boutade ? Preferisco un pensiero strategico per domani, per dare un futuro concreto ai nipoti !
L’immagine che ho davanti oggi, sono il ponte ,i ponti liguri crollati, e i ponti romani ancora usufruibili, ripensiamo il futuro rendendolo testimonianza incrollabile
Grazie per quanto state seminando!
Credo che bisogna avere dei prezzi alla vendita omogenei, controllando la filiera dalla produzione alla vendita.
Daccordo il prodotto cinese costa di meno alla produzione, ma tra trasporto e dogana, la differenza finale dovrebbe essere minima e abbordabile commercialmente.
Il consumatore, a parità di qualita’ sceglie sempre quello che costa meno, sia che sia Cinese…o..Italiano.
È vero che l’ECCESSO di globalizzazione crea il pericolo reale dello spostamento di produzioni di prodotti basici, come dpi sanitari (e non solo sanitari), fuori dal Paese. Però mi auguro che l’esperienza tragica che stiamo vivendo sia di insegnamento.
Si rende necessario individuare, per quanto possibile, una lista di questi prodotti e correre ai ripari, prendere provvedimenti adeguati alle necessità e alle emergenze di un Paese come il nostro, che conta più di 60milioni di abitanti.
Ecco, la speranza è che, passata l’emergenza, non passi tutto nel dimenticatoio.
necessario produrre in Italia