È vero come sostiene la presidente della commissione lavoro di Confcommercio, che la sua organizzazione sottoscrive il più grande, il più applicato e (aggiungo io) il più copiato contratto nazionale su piazza. In Italia si contano oltre 800 contratti. Nel solo settore del commercio arrivano a più di 200 e la stragrande maggioranza rientra nei cosiddetti “contratti pirata”.
Si tratta di contratti sottoscritti da sindacati minori e associazioni imprenditoriali di vario tipo che, oltre a prevedere tutele, diritti e/o salario inferiori per il lavoratore rispetto ai CCNL maggiori, generano una concorrenza sleale all’interno dello stesso settore. Solo nel comparto dei servizi alle imprese, il salario medio dei contratti firmati da organizzazioni minori può arrivare ad essere inferiore del 20% rispetto a quelli stipulati dalle parti sociali maggiormente rappresentative.
Nel solo commercio la forbice arriva a 8 punti percentuali, ma è proprio in questo settore che si registra la maggiore presenza di contratti pirata che ormai raggiungono quasi il 10% del totale.
La presenza quindi di un contratto confederale leader come quello gestito da Confcommercio con Filcams Cgil, uiltucs UIL e Fisascat Cisl, riconosciuto e applicato dalla maggioranza relativa delle imprese del terziario, rappresenta un elemento importante di equilibrio del sistema. Per questo non ho dubbi che questo modello vada difeso e confermato.
I suoi contenuti, i costi e la duttilità applicativa lo rendono diverso e, per queste ragioni, il più adottato rispetto a tutti gli altri principali contratti gestiti da altre confederazioni o associazioni datoriali e dai rispettivi sindacati di categoria. Per i suoi contenuti, interessanti per le imprese, ha travalicato l’ambito originario di partenza: il comparto del commercio.
Turismo, ristorazione e piccoli esercizi non sono però compresi. Hanno i loro contratti nazionali e ambiscono a restare fuori da quel perimetro. Così come la Grande Distribuzione che, non riuscendo a presidiare con determinazione i suoi reali confini con una visione unitaria, unica opzione per garantirsi una concreta autorevolezza, si rassegna a restare un po’ dentro e un po’ fuori tra cooperative, discount, distribuzione organizzata, franchising, esigenze di ristrutturazione delle grandi superfici e nuovi concorrenti della rete che operano con altre regole del gioco sia contrattuali che fiscali.
L’espansione del terziario di mercato, la sua sottovalutazione da parte dell’industria, l’innovazione tecnologica e organizzativa hanno consentito, negli anni, di calamitare dentro questo contratto settori e attività prima dispersi altrove. Quindi se togliamo turismo, ristorazione e tutto ciò che trova risposte in altri CCNL, l’area applicativa ormai va ben oltre i confini delle rispettive rappresentanze tradizionali.
Per questo, Confcommercio, proprio per la posizione acquisita negli anni si trova di fronte ad un bivio decisivo: confermare o meno questa leadership indicando una via da seguire per l’intero terziario di mercato. Innanzitutto nella fase della ripresa economica post lockdown ma anche per una necessaria quanto non più rinviabile riforma della contrattazione collettiva ribadendo con forza il modello confederale e la propria specifica peculiarità.
In alternativa rischia di doversi rassegnarsi allo sfarinamento in atto restando in panchina e lasciando di fatto il campo anche all’entrata di nuovi soggetti che reclamano (più o meno esplicitamente) la loro rappresentatività. Senza dimenticare che l’avanzare del salario minimo mina alla base l’esistenza stessa di questa tipologia di CCNL (che, per molte imprese, è di fatto una sorta di salario minimo ante litteram) con il rischio che venga messo così in un angolo l’importante welfare contrattuale costruito negli anni soprattutto a vantaggio dei lavoratori e delle imprese più piccole.
Per queste ragioni la scelta di Confcommercio di rinviare a tempi migliori il confronto di merito sui temi chiave la trovo assolutamente incomprensibile. È corretto dichiarare come ha fatto Donatella Prampolini “che in questo momento non sembra opportuno gravare ulteriormente sui costi delle imprese, che stanno faticosamente tentando di tornare ad una normalità nonostante le numerose incognite legate all’andamento prossimo della pandemia, ma anche a tutte le conseguenze di una economia interna fortemente depressa” ma questo non è sufficiente da parte di una grande organizzazione.
È ovvio che tutti i tavoli aperti sul versante dei rinnovi contrattuali stanno aspettando che il Governo intervenga con adeguati sgravi fiscali e contributivi ma i titolari del più grande contratto nazionale hanno il dovere di indicare la via su cui intendono incamminarsi che non può essere né seguire supinamente il modello proposto dal “patto di fabbrica” di Confindustria, né il rilancio della contrattazione aziendale che nel terziario di mercato è ormai a livello di prefisso telefonico, né predisporsi tatticamente ad una gara al ribasso con le associazioni minori, quasi fosse quello il problema.
Sulla misurazione della rappresentanza nel terziario di mercato, sul salario minimo, sull’evoluzione del welfare contrattuale, sulla contrattazione decentrata e su nuovi modelli organizzativi e salariali che indichino, ciascuno per la sua parte, una scelta di percorso, Confcommercio dovrebbe segnalare la volontà o meno di essere concretamente in partita. E tutto questo è propedeutico al percorso contrattuale, ne segna le possibili traiettorie e ne individua le priorità. Che non sono più quelle del passato.
È vero, oggi prevale la necessità di rimettere in moto l’economia e di riportare l’intero Paese dentro i binari di una “nuova” normalità. I consumi devono riprendere, le aziende devono essere messe in condizioni di poter lavorare senza costi che ne aggraverebbero la ripartenza. Ma è proprio questo il punto.
Decidere (o meno) insieme alle organizzazioni sindacali confederali se il contratto nazionale deve essere considerato un semplice costo da esigere o da comprimere e quindi da rimandare il più a lungo possibile o un’opportunità per costruire e accompagnare le condizioni della ripartenza. E stabilirne, di conseguenza, obiettivi, priorità e contenuti.
Essere titolari del contratto nazionale più importante comporta la responsabilità di dotarsi di una strategia credibile.
Confcommercio ha saputo interpretare negli anni e meglio di altri, sul terreno contrattuale, l’esigenza delle imprese del terziario che cercavano un approdo fuori dal perimetro dei rispettivi recinti settoriali, più flessibile e performante. Questo vantaggio però non è né un diritto acquisito, né dato per sempre.