La classe dirigente tra realtà vissuta e sua rappresentazione

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Il rischio che la classe dirigente interpreti sulle proprie sensazioni e valutazioni la realtà circostante e quindi imposti le proprie convinzioni e le proprie strategie sociali, economiche e comunicative su questo è una costante che dovrebbe far riflettere.

Per questo fa bene Dario di Vico a rilanciarlo con un editoriale da leggere  sul Corriere  (https://bit.ly/3j8sTHC). Manca, è inutile nasconderlo,  la volontà, la disponibilità o la capacità di stabilire una connessione con il resto della società. Di comprenderne i disagi, le ansie e le preoccupazioni per la loro vita concreta e per il loro futuro.

Milano è l’epicentro plastico di questa realtà. Ma è così un po’ dappertutto. Proporre ragionamenti seri non funziona se i linguaggi sono contraddittori, i buoni esempi fragili, i problemi sono sempre altri.

Se prendiamo due argomenti semplici di questi giorni possiamo rendercene conto facilmente. Lo stipendio del  presidente dell’INPS Pasquale Tridico passa da 62.000 euro a 150.000. Il dibattito politico si scatena immediatamente sul nulla. moralisti e realisti si concentrano su temi fuorvianti. L’entità dell’emolumento e la coerenza dei grillini. E quindi del governo.

La destra ha buon gioco a scompigliare la discussione. Inopportuno, ingiustificato, socialmente inaccettabile. Parole chiare che arrivano ad una platea- paese che è alle prese con i rischi di disoccupazione, la CIG che non arriva, il lavoro che non c’è,  una ripresa da reinventare.

Nessuno (grillini in testa) ha mai pensato di proporre e costruire quell’aumento, assolutamente giustificabile, intorno ad obiettivi specifici, renderli pubblici, financo popolari stabilendo così, contemporaneamente, uno stipendio adeguato alla carica ma raggiungibile a determinate condizioni.

Un esempio carico di novità positive a fronte di una retribuzione inadeguata magari da riproporre in tutto il settore pubblico a certi livelli. Un segnale di “autotutela” della casta si sarebbe così trasformato in un potente segnale di cambiamento. Ma così non sarà.

Lo stesso vale per “quota100”. Il suo mancato rinnovo è giustificato sul piano economico e per la tenuta del sistema pensionistico ma non comprensibile fuori dai “centri storici”.

La disoccupazione aumenta, le aziende, finita la farsa del blocco dei licenziamenti si muoveranno con determinazione. L’abolizione di “quota 100” avrà  tre effetti  semplici. Uno pratico, perché creerà uno scalone al quale dovrà poi essere messa mano con interventi che ai più appariranno come contraddittori.

Uno concreto per aziende e lavoratori coinvolti che si troveranno con  un ammortizzatore di gestione in meno e uno psicologico perché aggiungerà incertezza e preoccupazione fuori dalla cerchia dei cosiddetti garantiti. E anche su questo le strumentalizzazioni non mancheranno.

Sono solo due esempi a cui se ne potrebbero aggiungere molti altri che sono lì a dimostrare la necessità di ricomporre la distanza tra la realtà è la sua rappresentazione.

Un banco di prova sarà il recovery fund.

Progetti, risorse economiche impegnate  e visione del futuro non possono essere scollegate dalla realtà e quindi la strategia dovrà essere necessariamente condivisa, non di parte, comunicata facendo attenzione al collegamento che ci deve essere tra risultati attesi, tempi, trasparenza  e benefici per il Paese visto nel suo insieme.

Il recovery fund ha avuto il pregio di presentare il volto vero di una Europa non matrigna ma forte e attenta all’intero continente spuntando così le armi ai nazionalismi in agguato. Il suo deployement nazionale dovrà seguire lo stesso principio.

Può essere un grande passo in avanti per il nostro Paese in termini di credibilità, impegno e ricucitura del tessuto sociale se la classe dirigente dimostrerà di essere tale. Altrimenti sarà la conferma di un declino già in corso difficile da rimediare. Fortunatamente la scelta è nelle nostre mani.

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