Se fossimo ancora nel novecento e se l’avversario della grande distribuzione fossero i piccoli esercizi commerciali tradizionali ci si potrebbe accontentare dell’obiettivo di una semplificazione della rappresentanza nella Grande Distribuzione. La “guerra” è finita e un’associazionismo disperso in più sigle in competizione tra di loro non è certo una buona cosa.
Nel tramonto del secolo che abbiamo alle spalle i margini di protagonismo consentivano un pluralismo che di fronte alle nuove sfide si sta trasformando in un lusso inutile e difficile da manutenere. La firma di uno specifico contratto nazionale era, di fatto, l’obiettivo di ciascuna federazione. E così, intorno al “contratto madre” quello firmato da Confcommercio, ne sono nati nel tempo altri tre in dumping tra di loro, soprattutto sui costi, ma con un’occhio alle esigenze di competizione associativa. Tutto questo ha poi generato, più o meno inconsapevolmente, un’infinità di pseudo contratti creati ad hoc a livello locale che, a lungo andare, intaccheranno il sistema.
Impegnati a raggiungere i propri obiettivi nessuna organizzazione si è però attrezzata per navigare in un mondo che stava cambiando. E, il nuovo mondo è rappresentato dalla fine della crescita di un certo modello di consumi e dei formati tradizionali, dalla fragilità di interlocuzione con la politica che si interfaccia con interessi e problematiche molto più complessi dentro e fuori dai nostri confini, dagli investimenti necessari alle imprese per cambiare, dalle dinamiche di filiera e dalla competizione con i giganti della rete.
La pandemia ha solo mostrato, accelerandoli, i processi in corso e le probabili traiettorie future del comparto ma ne ha anche reso evidente la fragilità nell’affrontarli. Tutto questo richiederebbe una visione comune che sappia andare ben oltre la convergenza su documenti unitari che nascondono le contraddizioni sotto il tappeto.
La GDO in tutti questi anni ha potuto crescere per l’abnegazione di singoli imprenditori e manager visionari. Le insegne hanno così creato occupazione locale e corrisposto lauti oneri di urbanizzazione ingolosendo le istituzioni e la politica illudendosi così di essere riconosciuti. Questa crescita delle singole realtà e i rapporti che ciascuna di esse è riuscita a costruire nel tempo ha spinto a sottovalutare il peso di un efficace ruolo associativo proprio mentre primario e secondario giocavano le loro carte in italia e oggi in Europa.
La rottura di Federdistribuzione con Confcommercio è stata la classica vittoria di Pirro fuori tempo massimo. All’uscita dalla confederazione di piazza Belli sono seguiti l’avanzata dei discount, la fine della crescita infinita, la crisi dei formati e l’affermarsi del web. Per non parlare della pandemia. Il comparto è rimasto in perfetta solitudine e le aziende hanno dovuto sostanzialmente cavarsela da sole. Tutto questo in presenza di un atteggiamento non certo positivo di parte della politica e dell’opinione pubblica nei confronti della GDO.
È emerso, com’era prevedibile, un evidente problema di qualità associativa e di capacità di lobby che, ad oggi, non è stato affrontato. Ma, a mio parere, questo sforzo, pur indispensabile, rischia di non essere più sufficiente. Almeno per le realtà nazionali.
Oggi, per difendere i propri interessi in un contesto che è cambiato occorrerebbe guardare oltre il perimetro tradizionale della GDO. Il peso di Coldiretti, Confindustria e la stessa Confcommercio è ben altra cosa rispetto al peso che possono mettere in campo le federazioni presenti nel settore. Per questo almeno un’intesa minima andrebbe trovata. Ma questo, per le realtà nazionali, dovrebbe rappresentare solo un primo passo. L’obiettivo non può che essere quello di acquisire un diverso peso specifico nelle dinamiche di filiera. Soprattutto per le imprese nazionali.
Francesco Pugliese non credo ce l’abbia con Carrefour quando se la prende con la presenza della multinazionale francese in “Filiera Italia”. Ce l’ha probabilmente con la mancanza di visione che ancora una volta sembra prendere forma. Sa benissimo il ruolo che quest’ultima come molte altre possono giocare sui mercati internazionali e il contributo che possono dare nel mondo al Made in Italy ma questo non c’entra nulla con l’idea di convivere sotto lo stesso tetto.
Basterebbe provare ad immaginare la reazione dell’omologa francese di Coldiretti e della politica d’oltralpe se un’insegna tedesca, americana o italiana chiedesse di far parte di un progetto importante per l’agroalimentare nazionale. La posizione di Ettore Prandini è comprensibilmente opportunistica ma debole. Quando Pugliese sottolinea che: “La valorizzazione della filiera italiana deve avvenire nel Bel Paese e deve coinvolgere le piccole aziende nazionali” credo punti a definire un perimetro dove al centro c’è l’interesse nazionale. Non solo di Conad o di una parte della filiera.
È la differenza tra tattica e strategia.
La prima, pur importante resta di corto respiro, se esaurisce l’impegno in una sorta di club aperto a tutti. La seconda mette i piedi nel piatto e propone un ruolo propositivo per chi vi aderisce ed è capace di confrontarsi ad armi pari con le multinazionali della GDO proprio per promuovere la presenza del Made in Italy nel mondo.
D’altra parte è comprensibile anche il “movimentismo” di Carrefour e del suo CEO Cristophe Rabatel che si infilano con destrezza dove possono nei singoli Paesi perché stanno giocando la loro partita di rilancio a tutto campo. Glielo chiede la casa madre, visti i magri risultati raccolti in Italia in tutti questi anni. Glielo chiedono i sindacati che ne incalzano le scelte, lo pretendono giustamente le migliaia di lavoratori che sperano che questa sia la volta buona.
Ma un conto è interpretare e condividere una filosofia nel Paese attraverso un rapporto franco, un’altra è interpretare due parti in commedia, una a casa propria a tutela dei propri interessi nazionali, una nelle realtà di insediamento. Per questo stupisce che si ritenga degno di nota la reazione stizzita dell’AD di Conad piuttosto che sottolineare il rischio che un’ottima idea venga di fatto sterilizzata aprendola a chiunque.
Il futuro dell’associazionismo datoriale nel nostro Paese non è quello di difendere strenuamente un perimetro che la realtà insidia e modifica continuamente ma passa dalla capacità di rispondere unitariamente a monte e a valle della filiera, comprendendone le esigenze e gli interessi presenti e, partendo da questi, saper elaborare strategie comuni da protagonisti con pari dignità e non da semplici comparse.