Le relazioni industriali in epoca di PNRR. Dialogo costruttivo o ritorno al passato?

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“Un giorno Alice arrivò ad un bivio sulla strada e vide lo Stregatto sull’albero. – “Che strada devo prendere?” chiese. La risposta fu una domanda: – “Dove vuoi andare?” – “Non lo so”, rispose Alice. – “Allora, – disse lo Stregatto – non ha importanza”. Personalmente non trovo altro modo per descrivere lo stato dell’arte delle relazioni industriali.

I casi recenti da Whirpool a Gianetti passando per GFK e Timken  solo per citare i più noti sono lì a dimostrare che un bivio non si può imboccare. Bisogna scegliere la direzione  in base ad una strategia. E soprattutto non fare confusione in mancanza di questa.

Raramente un’impresa, ancora di più se multinazionale, può essere condizionata a valle di una decisione formalmente già assunta. L’apertura di una procedura che prevede la chiusura o un ridimensionamento di un sito produttivo e i suoi inevitabili  effetti mediatici e reputazionali sono generalmente soppesati con grande attenzione. Ma difficilmente influiscono in modo determinante sulla decisione finale. E il sindacato lo sa benissimo.

Sono decisioni difficili, mai prese con leggerezza, incomprensibili per chi le subisce, determinate dai gruppi dirigenti di quelle imprese che ne rispondono in prima persona alla proprietà sia essa composta  da azionisti o fondi. Pensare che possano cambiare per intervento della politica, delle istituzioni  o per gli echi mediatici provocati appartiene ad una retorica anti impresa che, nel secolo scorso, ha prodotto danni sia sul piano industriale che culturale.

Così come pensare che spingendo i lavoratori esclusivamente in quella direzione si possano creare le condizioni di un ripensamento e non come invece accade sempre un semplice ricorso massiccio agli ammortizzatori sociali, alle dimissioni incentivate e quindi ad intese che lasciano i singoli lavoratori soli con il loro problema.

Il punto centrale sta qui.

Un’azienda che chiude o che si ristruttura non sta mettendo in atto una “provocazione” da respingere a prescindere. A legislazione attuale è scandita da una procedura precisa, consente all’interlocutore sindacale tempi di negoziazione sufficienti e spinge l’azienda all’accordo sulla gestione delle conseguenze.

Qualità ed efficacia delle contropartite in termini di ricollocabilità dei lavoratori coinvolti  e quantità degli incentivi individuali all’uscita previsti dell’accordo finale fanno però  la differenza. Fino ad oggi, tutto questo è lasciato alle disponibilità dell’azienda fatto salvo ciò che la legge stabilisce.

La storia di quell’impresa, la sua volontà o meno di farsi carico delle conseguenze provocate ai propri collaboratori, la qualità delle relazioni industriali, i rischi di impatto reputazionale, l’iniziativa dei sindacati e dei lavoratori coinvolti, la pressione messa in campo dal contesto politico e sociale possono fare la differenza sui risultati finali che, in effetti, divergono da azienda a azienda.

Questo sistema, che pure ha retto fino ad oggi,  ha un limite sostanziale. Non ha come obiettivo il ricollocamento, pur altrove, delle persone coinvolte ma solo quello di stabilire un “costo” accettabile  del licenziamento, concordato il quale, cessano gli obblighi per l’impresa e le proteste dei lavoratori e del sindacato.

Il lavoratore, a quel punto, in modo spontaneo o “spintaneo” si assume la responsabilità della decisione consentendo al sindacato la scappatoia formale di non accettare alcun licenziamento e all’impresa di risolvere il problema sociale aperto con la procedura.

Non è così in altri Paesi. E non è così per le imprese più attente alle conseguenze sociali delle loro decisioni. E nemmeno per i sindacati che si fanno carico delle conseguenze e della gestione di veri e propri piani sociali con l’obiettivo di ricollocare al meglio possibile le persone coinvolte.

Roberto Benaglia, segretario generale della Fim Cisl, partendo dalla vicenda legata alla decarbonizzazione e delle sue probabili conseguenze se non gestite affronta il tema dal suo punto di vista (https://bit.ly/36XaeKl).  Condivido in parte le sue riflessioni e vorrei provare ad approfondirle dal mio punto di vista ma concordo che,  non fare nulla, sarebbe comunque la scelta peggiore.

La struttura del mercato del lavoro italiano, la presenza di un terziario in crescita e di piccole imprese  ha consentito negli anni il travaso di competenze, professionalità e risorse umane tra comparti e imprese molto differenti tra di loro. Il timore, che condivido, è che questo meccanismo “fai da te” per effetto delle modificazioni strutturali del mercato del lavoro tenderà inevitabilmente ad incepparsi.

La fase e le sfide che il nostro Sistema economico politico e sociale ha di fronte necessitano  di una maggiore responsabilità sociale delle imprese sulle conseguenze delle loro decisioni, di un ruolo del sindacato più orientato alla fluidità del mercato del lavoro, alla formazione  e quindi al ricollocamento delle persone lasciando  alla protesta fine a sé stessa, pur legittima e fisiologica, un ruolo residuale.  Ma occorre anche puntare sulla disponibilità della persona coinvolta alla sua formazione nel tempo, alla volontà di rimettersi in gioco per ritrovare un lavoro più che a rassegnarsi a resistere più che può o a fare conto sulla dimensione dell’incentivo.

Questo cambio di approccio determina dei costi inevitabili che però potrebbero essere contenuti se tutte le risorse economiche che oggi vengono messe in circolo sotto vari capitoli di spesa partendo ovviamente dai fondi messi a disposizione dal PNRR per le politiche attive (ruolo dei fondi interprofessionali per la formazione o derivati della bilateralità laddove è presente, ecc.)  venissero messi a sistema.

E, ovviamente,  si dovrà pure affrontare il tema delle aliquote contributive sulla NASPI e i costi CIG da riparametrare sull’utilizzo reale oggi diversi tra settori. Differenze sostanziali che prima della pandemia avevano una loro logica per lo scarso utilizzo di alcuni comparti e che oggi devono essere materia di confronto tra Governo e parti sociali.

La definizione di veri e propri piani sociali che devono accompagnare le procedure, le soluzioni possibili tarate sui singoli lavoratori attraverso forme di OTP individuale e collettivi, l’assunzione quindi di un’obbligazione di mezzo da parte delle aziende che si ristrutturano ha bisogno di un ruolo dell’Anpal orientato  su queste esigenze e sulla messa in competizione vera tra centri per l’impiego pubblici e agenzie per i lavoro private nell’offerta delle politiche attive.

L’impresa quindi deve farsi carico del problema che inevitabilmente crea alle proprie risorse umane, non deve lasciarle sole ma l’intero sistema si deve strutturarsi per accompagnare e risolvere il problema non solo per scaricarne le conseguenze sui più deboli.

Il caso della Bayer di Filago è un prodotto di questa impostazione  che ha radici profonde nella cultura e nella responsabilità sociale di quel gruppo multinazionale tedesco. Non è l’unico però testimonia che un’altra strada è possibile.

Comprende il diritto per l’impresa di ristrutturarsi, chiudere un sito o trasferire attività in un contesto riconosciuto e sancito da un accordo formale ma anche il dovere di farsi carico delle conseguenze arrecate alle persone, al contesto economico e sociale nel quale è insediata, di non avere inutili danni reputazionali e di contribuire a far crescere una cultura che assegna  valore al lavoro, a come lo si trova, lo di crea e lo si mantiene. Anche attraverso la formazione continua.

Comunque la si giri si arriva sempre al punto da cui sono partito.

È la qualità delle relazioni  industriali, la responsabilità, il rispetto reciproco la convinzione che solo una forte intesa tra le parti sociali rende il sistema concreto, legittimato e rispettato. soprattutto in costanza di un PNRR che definirà, lo si accetti o meno,  il futuro del sistema delle relazioni industriali  del nostro Paese..

Alla politica, soprattutto al Ministro del Lavoro  Orlando, più che allinearsi alla già radicata cultura anti impresa, si richiede una capacità di visione complessiva e di  equilibrio che sappiano guardare avanti. Soprattutto la determinazione a favorire un’intesa lavorando sulle proposte già oggi sul tavolo evitando scorciatoie e soluzioni demagogiche che, in questa fase,  riporterebbero la questione all’asimmetria dei rapporti di forza e quindi alla paralisi, ogni possibile soluzione.

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