Ha ragione Rita Querzè quando scrive sul Corriere della necessità di coinvolgere i cosiddetti “piccoli” (https://bit.ly/3u99kVX) sulla proposta, lanciata da Draghi all’assemblea di Confindustria, di condividere con politica e parti sociali una idea di sviluppo che guardi alle prossime generazioni.
L’associazione degli industriali e il sindacalismo confederale sono parti importanti ma non sufficienti come interlocutori. Occorre che lo spirito e i contenuti di questa “prospettiva condivisa” che ipotizza un coinvolgimento importante di tutti raggiungano anche le parti sociali spingendole anch’esse a guardare agli interessi del Paese e al futuro più che ai loro perimetro associativi.
Non è facile per l’eterogeneità degli interessi che ciascuno è chiamato a tutelare e soprattutto perché l’essersi attardati difendere ciascuno le proprie prerogative e convinzioni rappresenta uno degli elementi che più hanno ostacolato innovazioni e cambiamenti nel nostro Paese.
D’altra parte se non abbiamo dovuto fare i conti con gilet gialli, forconi e tensioni sociali lo si deve alla capacità dei corpi intermedi di canalizzarne le problematiche impedendone l’esplosione. E questo non va mai dimenticato.
L’associazionismo di impresa svolge un ruolo molto importante, anche e soprattutto a livello locale. Intermedia problematiche di settore con le istituzioni, trasforma proteste in proposte, gestisce servizi, sussidia spesso compiti dello Stato e dà voce a categorie altrimenti inascoltate. Il loro apporto e una visione unitaria che le sappia coinvolgere in un progetto Paese è fondamentale.
Ma cosa sta succedendo fuori dall’ innegabile protagonismo di Confindustria? I cosiddetti “piccoli”, con il superamento di Rete Imprese Italia, hanno deciso di muoversi in ordine sparso. Non riuscendo a fare un passo in avanti hanno preferito farne uno indietro. Soli però contano meno.
Rete è stata l’ultima grande intuizione politica di Carlo Sangalli e quindi della Confcommercio. Forse la sola che si ricorderà della sua lunga presidenza. Le altre associazioni, chi più chi meno, hanno abbozzato non credendoci mai fino in fondo. Ma anche per Confcommercio la competizione nei suoi territori tra i “piccoli” ne ha impedito il decollo oltre a singoli momenti di protesta unitari.
Gli stessi intellettuali che vi hanno lavorato a cominciare da Giuseppe De Rita hanno dovuto gettare la spugna. Il ritorno a casa delle associazioni non ha innescato alcun cambiamento, anzi. Ne ha favorito la restaurazione. Le burocrazie etnocentriche hanno ripreso il sopravvento, le iniziative, in mancanza di una strategia organizzativa innovativa, hanno premiato lo status quo. La pandemia ha fatto il resto.
Colpiti duramente nei rispettivi core business, ciascuno costretto a casa propria, le associazioni dei piccoli sono rapidamente scomparse dai radar della politica che conta. La proposta di Draghi può riaprire la partita. Sul fronte datoriale la leadership è saldamente ritornata nelle mani di Confindustria.
È un interlocutore ruvido per i sindacati ma non può essere accusato di mancanza di chiarezza, ha un’idea di futuro ma ha pure le carte in regole perché ha rinnovato sostanzialmente tutti i suoi contratti nazionali. Cosa che non ha fatto Confcommercio pur gestendo il principale contratto nazionale del Paese.
Scaduto nel 2019 e in regime di proroga copre circa tre milioni di addetti. Fermo perché Confcommercio, anziché gestirne il peso politico e guardare avanti, continua a limitarsi a chiedere una sorta di risarcimento al sindacato per la firma in dumping di quest’ultimo con Federdistribuzione alla sigla del suo primo contratto nazionale.
E così mentre decine di aziende, soprattutto al sud o nel franchising, lasciano questi CCNL per passare a formule più convenienti comunque permesse dalla legge le due organizzazioni datoriali sono in surplace aspettando “furbescamente” la mossa dell’altra. Senza parlare degli altri due contratti (Confesercenti e Coop) che attendono in coda. Confcommercio così rinuncia però al suo peso e alla sua autorevolezza. Un’altra dimostrazione di fragilità politica complessiva se mai ce ne fosse bisogno.
Confcommercio poi sembra poco interessata ad una certificazione della rappresentanza che la costringerebbe ad una maggiore trasparenza sulle entrate e sugli iscritti. Non è nelle sue corde seguire Confindustria sulla possibile aperture di confronto sui fondi interprofessionali e sulle risorse rivenienti dalla bilateralità per contribuire alle politiche attive. Chiusure che, se non superate, rappresentano nodi difficili da sciogliere.
Ma, come sottolinea giustamente Querzè, da sola Confindustria non va da nessuna parte. Vedremo se, su questo punto, ci saranno novità significative nella prossima assemblea nazionale di Confcommercio o la scelta di restare in panchina con un ruolo da follower confermerà la mancanza di iniziativa che sembra ormai caratterizzare la Confederazione di piazza Belli.