Daniele Cazzani ha messo il dito nella piaga. La Grande Distribuzione non sembra in grado di prendere coscienza del proprio ruolo e del proprio peso nella gestione delle differenti fasi della pandemia. Giorgio Santambrogio nella sua qualità di VP di Federdistribuzione non poteva reagire diversamente. Ha così ribadito il ruolo a favore delle imprese della sua Associazione e l’impegno di chi vi aderisce nel portare avanti “politiche deflattive a favore di decine di milioni di clienti/cittadini italiani”. Ovviamente nessuno lo nega.
Federdistribuzione, Confcommercio, Confesercenti e Coop sanno benissimo che una delle chiavi del loro successo e della loro credibilità in questi momenti di disorientamento è nel cercare di far coincidere l’interesse delle imprese con quello dei consumatori. Da qui la resistenza alle richieste anche se per certi versi giustificate dei comparti a monte della distribuzione. E la proposta di affrontare il tema insieme magari sotto l’egida della stessa confederazione (vedi la scelta di adesione del Retail Institute a Confindustria intellect). Tutto questo però non è sufficiente se l’associazionismo di impresa vuole contare sul serio.
È però un errore pensare che questo attenga esclusivamente all’incapacità delle diverse associazioni di essere protagoniste in un contesto così complesso. Attiene innanzitutto alle imprese che danno loro mandato. E questo mandato è oggettivamente debole. In Italia le farmacie hanno capito da tempo la differenza tra strategia di lobby, ruolo sociale, unità del comparto e concorrenza. La GDO, no. Quindi l’esame di coscienza lo dovrebbero fare innanzitutto le imprese più che le numerose associazioni che le rappresentano.
Le insegne della GDO dall’inizio della pandemia si sono limitate a fare bene il loro lavoro. Hanno accettato limiti e chiusure di interi reparti a volte incomprensibili, hanno preteso dai loro collaboratori il massimo impegno, si sono fatti carico di costi, di frenate e accelerazioni del proprio business pur di restare aperti garantendo il servizio sia sul piano quantitativo che qualitativo. Salvo i primi momenti a cui nessuno era preparato, e non certo per responsabilità interne, le differenti insegne hanno reagito bene. Quindi cosa è mancato?
È mancata la capacità e quindi la volontà di capitalizzare questo ruolo positivo nei confronti delle istituzioni, della politica e del Paese. Non solo sul versante dei costi e dei prezzi dove ogni insegna (chi più chi meno) ha pensato bene di giocare per sé ma anche sul versante degli approvvigionamenti, dell’offerta di mascherine e la messa a disposizione degli hub vaccinali sono stati visti e interpretati come elementi di differenziazione e di competizione nel comparto. Non come elementi di una negoziazione a tutto campo con le istituzioni.
Ha prevalso il tatticismo dei rispettivi direttori commerciali, dell’ossessione della controcifra, del “predicare bene e razzolare male” tipico della mancanza di visione politica del comparto. Altrove non è andata così. In Francia la GDO ha dato un segnale forte di protagonismo e di capacità di gestione della fase. Non si è persa dietro panettoni o arance nevel sottocosto mentre infuriava il covid-19. Né facendo promesse vane sui prezzi nel lungo periodo.
Da noi la sensazione che ha prevalso è che, prima o poi, si ritornerà alla situazione precedente. Bisogna quindi limitarsi a gestire questa fase evitando le “buche più dure”. Pochi hanno colto che i cambiamenti indotti forzatamente dalla gestione dell’emergenza si trascineranno per anni modificando in profondità il DNA del nostro Paese. E quindi del comparto. È ormai iniziata una nuova fase che coinvolge in profondità anche gli orientamenti del consumatore che quindi vanno reinterpretati. E per questo servono unità, visione collettiva, lungimiranza e risorse economiche.
Il ciclo che ha preceduto la pandemia sta volgendo al termine. Il ruolo della rappresentanza sociale ed economica è destinato inevitabilmente ad assumere un peso e una responsabilità maggiori. Il PNRR è lo strumento operativo di questo cambiamento ma dietro ad esso c’è la dimensione del debito accumulato da gestire in rapporto alle esigenze delle prossime generazioni, la transizione ecologica con le sue conseguenze sul piano della tenuta sociale, l’impatto sui consumi, l’innovazione tecnologica.
C’è un senso di comunità da ricostruire. E, nella nuova comunità, non sarà “solo” l’intraprendenza delle singole imprese a fare la differenza come in passato. Le risorse necessarie a questo riorientamento complessivo della società sia economiche che umane necessitano di una visione e di uno sforzo che impongono un salto di qualità anche dei contesti associativi. Pensare di affrontare questa fase con quattro associazioni in concorrenza tra di loro è semplicemente ridicolo.
E il fatto che le due insegne maggiori non siano in Federdistribuzione ma il loro peso politico e strategico si interseca con altri comparti economici rappresentati da Confcommercio o presenti nel sistema cooperativo più in generale dovrebbe far riflettere. Il punto non è quindi la somma algebrica delle insegne che garantisce ascolto e rappresentatività reale ma l’essere o meno parte di una interlocuzione forte in grado di proporre e accettare mediazioni tra interessi differenti.
È chiaro che più che essere “costretti” a scegliere tra Confindustria e Confcommercio (o Confesercenti) il tema è se continuare a parlarsi addosso puntando su strapuntini occasionali lasciando alle insegne più grandi il campo libero dell’interlocuzione che conta o aprire un terreno di confronto nuovo avendo come obiettivo la riunificazione del comparto nei modi e nelle forme ancora tutte da identificare. La decisione spetta ovviamente alle imprese perché le rispettive rappresentanze sono, per loro natura, autoreferenziali.
Il ciclo che ha preceduto la pandemia e che ci sta accompagnando nella sua convulsa gestione segnala l’esigenza di un cambio di strategia associativa. Verrà colto o prevarrà la navigazione a vista a cui siamo purtroppo abituati?