La crisi dei partiti e la necessità di una loro affermazione su basi nuove pone sullo sfondo l’identica crisi che attraversa il ruolo della rappresentanza sociale ed economica del Paese. Alcune molto più di altre stanno marciando decise verso l’irrilevanza. Nel commercio e nei servizi la situazione è sotto gli occhi di tutti. La gestione della pandemia ha però solo sottolineato una tendenza già in essere.
È così in Europa e nei luoghi che contano dove sono le lobby vere che giocano un ruolo decisivo sia direttamente che trasversalmente lasciando alla rappresentanza tradizionale solo la consumazione di vecchi riti e liturgie che poco incidono sulla vita reale dei rispettivi associati. In crisi, oltre per l’evanescenza dei risultati conseguiti, sempre più dettati dalla politica e sempre meno dall’iniziativa associativa, è anche il rapporto tra centro e periferie. Queste ultime sempre più in affanno con i rispettivi associati alle prese con problemi quotidiani di sopravvivenza quindi lontani da un modo di porsi inefficace.
Nel commercio e nei servizi più che altrove l’incapacità di cambiare vecchie traiettorie organizzative, ormai datate e di mettere così in discussione i propri tradizionali confini associativi erosi da un contesto socioeconomico profondamente cambiato ben prima della pandemia, ci si è limitati a sciorinare ovvietà e ad invocare “tavoli e confronti” più per rassicurare le rispettive basi che per interpretare una nuova visione del ruolo.
Quasi nessuna ha capito per tempo che un’epoca si è chiusa. E che l’inadeguatezza nel “capire il nuovo e guidare il cambiamento” è esiziale. Ovviamente non tutte reagiscono allo stesso modo. Dove gli imprenditori partecipano e contano nelle decisioni interne la reazione in parte c’è stata. La protesta ha portato a qualche risultato e a correggere la rotta. Sempre poco, ovviamente, perché l’impatto della pandemia sta contribuendo a ridisegnare attività, priorità, organizzazioni aziendali e prospettive del business. Dove però sono le burocrazie autoreferenziali, come in Confcommercio, a guidarne l’azione non si è andati al di là della richiesta dei ristori, della guerra contro lo smart working o la difesa dello status quo vedi i balneari e le farmacie. Battaglie di retroguardia tese a ricompattare vecchi equilibri animati dalla speranza che, passata la nottata, si sarebbe potuto ritornare alla situazione precedente.
La pandemia ha, al contrario, rappresentato quello che la safety car rappresenta nelle gare di automobilismo. Azzera pesi e interlocuzioni precedenti e mette tutti sullo stesso piano. Mostra i limiti più che il potenziale. Emerge solo chi ha qualcosa da dare o da dire. E se questo riguarda trasversalmente più o meno tutte le organizzazioni, si sono notate però delle differenze. Tra le confederazioni più efficaci nel guardare oltre il perimetro assegnato metterei sicuramente Confimprese seguita da Confesercenti. La prima grazie al suo storico Presidente Mario Resca e al suo attivismo concreto alterna con serietà protesta e proposte.
La seconda ha trovato impulso con la nomina della presidente Patrizia de Luise entrata nel Consiglio di indirizzo istituito a Palazzo Chigi voluto direttamente da Mario Draghi per “orientare, potenziare e rendere efficiente l’attività programmatica in materia di coordinamento della politica economica”. Tutto questo a dimostrazione che, in questa fase, più che il peso sulla carta valgono idee e proposte.
A livello di singole federazioni è da sottolineare il ruolo di AIRES, l’associazione italiana retailer elettrodomestici specializzati aderente a Confcommercio, che non manca di far sentire la propria voce a difesa della categoria in modo puntuale ed efficace al pari di Fipe, Federalberghi e Conftrasporto. A segnalare che, all’inefficacia blablatica del vertice di Confcommercio ormai sparito dai radar, diverse federazioni e altrettante associazioni locali ne hanno supplito concretamente il ruolo.
Nella distribuzione moderna Federdistribuzione avrebbe potuto avere un’autostrada a disposizione. Purtroppo l’elezione di Alberto Frausin alla Presidenza, con la sua provenienza da fuori comparto, sta determinando la necessità di un suo apprendistato in categoria molto più lungo di quello che ci sarebbe potuto attendere. L’ultimo esempio è sui tamponi e sulle mascherine nella GDO. Non solo tutti in ordine sparso e sotto scopa dalle farmacie. Adesso c’è pure il rischio di essere surclassati dalle edicole.
Comincio a pensare che l’eterna competizione tra le singole insegne abbia partorito scientemente una soluzione debole sul piano associativo. Altrimenti non si spiegherebbe l’impasse su tutte le partite aperte che contano. A livello mediatico è ormai scontato ascoltare che “il Governo ha ricevuto Confindustria e le altre associazioni” relegando Confcommercio, che dichiara di essere la più grande confederazione in Europa, al ruolo ancillare nel dibattito politico e nella gestione non tanto della pandemia quanto del dopo.
E così mentre Amazon, dimostrando visione e strategia, si promette in sposa a tutte le associazioni su piazza le altre imprese grandi e piccole e parte della stampa di settore, si interrogano sulle ragioni recondite che avrebbero spinto Conad a scegliere Confcommercio scartando Federdistribuzione e non a come rimettere in moto strategie comuni che rappresenta la vera sfida dell’intero commercio nazionale e il suo rapporto con le rispettive filiere.
Conad, a mio parere, ha scelto solo di provare a “far da sé”. Perché come recita un antico proverbio è l’unico modo di “far per tre”. O almeno è quello che spera il CEO di Conad ben conscio che i tempi sono una variabile determinante. E per lui che è una persona per bene e che stimo suggerisco la lezione di Pietro Nenni che fu un grande politico onesto e capace della prima repubblica il quale riteneva fondamentale arrivare nella stanza dei bottoni per realizzare la sua strategia.
Nenni ci mise sei anni a capire che nella “stanza dei bottoni” i bottoni non c’erano. E non c’era nemmeno la stanza. Quel luogo, anche in Confcommercio, è ancora tutto da costruire. Ma questa è un’altra storia.