Il noto giornalista Gianni Cerqueti seppur involontariamente, ha riaperto una ferita che sembrava chiusa da tempo. Il cliente blandito con sconti, offerte e promozioni, studiato sulle sue frequenze di acquisto e di scelta, invitato a preferire un’insegna piuttosto che un’altra e a scegliere un luogo fisico anziché la fredda rete globale entra in un punto vendita di un discount sotto casa per acquistare un prodotto e non lo trova. Non certo un prodotto particolare, in promozione o di difficile reperimento. Una semplice confezione di uova.
La dura reazione del giornalista nei confronti di chi gli ha fatto perdere tempo e pazienza finisce sui social e divide. Da una parte chi si schiera contro il giornalista ritenuto arrogante e presuntuoso. In realtà colpevole solo di pretendere la presenza di un prodotto di uso comune che non può mancare in un supermercato.
Chi si schiera contro ne stigmatizza la durezza del comportamento, la mancanza di sensibilità nei confronti dei lavoratori e dei responsabili coinvolti. Dall’altra parte chi si mette nei panni del giornalista-cliente e ne comprende la reazione. Ma come dovrebbe esprimere il proprio disappunto un cliente insoddisfatto se deve semplicemente limitarsi a subire un disservizio o andare altrove? Cosa che peraltro succede nella maggioranza dei casi.
I clienti si perdono così. C’è una regola non scritta che recita: “Di un solo cliente dobbiamo preoccuparci veramente. Di quello che non parla”. Uno degli errori più comuni è quello di pensare che chi non si lamenta sia soddisfatto. Il problema è che per ogni cliente deluso che si prende la briga di farlo presente, ce ne sono almeno altri dieci che invece spariscono in silenzio, senza che si conoscano i motivi dell’insoddisfazione. Il 96% dei consumatori insoddisfatti non si lamenta, ma il 91% di essi semplicemente se ne va e non torna mai più secondo una recente ricerca. Inoltre un consumatore insoddisfatto racconterà la propria esperienza negativa o utilizzando i social o ad amici e parenti.
Va detto che la stessa Eurospin è intervenuta immediatamente scusandosi per l’accaduto ammettendo l’errore. Ed è così. Lo scaffale vuoto o l’assenza di un prodotto di uso comune non in sottocosto o promozione non è una mancanza da poco. Ed è altrettanto vero che in altre situazioni il responsabile di quel punto vendita ne avrebbe dovuto rispondere anche sul piano disciplinare. Prodotti in scadenza o scaduti sui lineari, mancanza di merce, gestione del personale alle casse non sono materia da sottovalutare. Quindi il cliente ha sempre ragione? In questo caso certamente si. Lo dico per quei colleghi della GDO che pensano giusto mettere la polvere sotto il tappeto.
Il fatto però consente di ritornare sull’argomento già trattato in passato da un altro punto di vista. Quello del collaboratore. Che per lungo tempo non ha coinciso necessariamente con quello dell’azienda. E questo è una delle ragioni (non l’unica) delle difficoltà di oggi. Atteggiamento, disponibilità, ascolto del cliente sono parte importante della qualità del servizio che caratterizza l’insegna. E su questo resta ancora molto da fare.
Gli studi più interessanti visti “dalla parte delle radici” sul tema sono quelli del sociologo Renato Curcio noto per altre vicende ma attento studioso di queste dinamiche. Risalgono agli anni 90 del secolo scorso quando la Grande Distribuzione raggiunse il suo massimo livello di organizzazione fordista nei grandi formati e i maggiori livelli di sindacalizzazione del personale di vendita. Curcio riteneva, certamente sbagliando, che, le grandi superfici commerciali con le loro contraddizioni avrebbero forgiato il nuovo soggetto rivoluzionario. Il proletario del nuovo secolo.
Studiò minuziosamente e pubblicò libri e interviste che coinvolsero centinaia di lavoratori e situazioni, soprattutto multinazionali del settore dai quali emergeva un livello di banalizzazione e pressione nel lavoro che accumunava datore di lavoro e clienti. Il cliente, tutti noi in altre parole, che nel luogo di vendita ci trasformiamo passando da dottor Jekyll a mister Hyde. Dai nervosismi mentre si fa la fila alle casse di un punto vendita all’impazienza per il livello di servizio o per la cassiera svogliata. La diagnosi di Curcio pur non condivisibile era chiara. Consumatori e lavoratori del settore sono destinati a detestarsi.
Il sindacato e le grandi imprese della distribuzione moderna ci hanno poi messo del loro, dagli anni 70 in poi, trasformando un negozio, piccolo o grande, poco importa, in una sorta di reparto industriale intriso di cultura fordista con al centro il lavoro e il modello organizzativo, la resa al metro quadro. Non il consumatore. Per quest’ultimo sarebbero dovuti bastare il marketing e le promozioni.
L’efficienza esasperata della gestione del punto vendita era il mantra. Il personale valutato quindi per il numero di pezzi passati alla cassa, per la sua rapidità, flessibilità lavorativa e disponibilità al comando dei suoi responsabili. Non certo per la relazione con il cliente. Provvedimenti disciplinari a getto continuo, pause indipendenti dall’afflusso di consumatori, rivendicazioni sul tempo tuta, passaggi di livello automatici, mansionari e declaratorie studiati più per irrigidire il sistema e promuovere cause legali che per favorire la crescita professionale.
Un mondo autoreferenziale dove il cliente ha assunto, via via, un ruolo accessorio. La difficoltà di cambiare con cui molte insegne si confrontano ancora oggi è un sottoprodotto di quel periodo e di quella cultura. La strada percorsa è indubbiamente già molta. Non è però ancora sufficiente.
Oltre alla tecnologia, alla consegna a domicilio, all’efficienza dei sistemi logistici e di gestione dei lineari adesso è arrivato il tempo in cui occorrerebbe intervenire anche sui modelli contrattuali per riportare definitivamente al centro la qualità del servizio e del contributo che ciascun lavoratore può dare al successo della propria azienda offrendo al consumatore ambienti e opportunità di acquisto veramente innovativi.
La costruzione di un perimetro contrattuale distintivo della Grande Distribuzione passa da qui. L’obiettivo non può essere quello di pagare il meno possibile il lavoratore. L’obiettivo dovrebbe essere quello di introdurre nel sistema la cultura della responsabilità, del coinvolgimento sull’andamento del business, dell’ascolto del consumatore. Un negozio non è un reparto industriale.
In un punto vendita, grande o piccolo, la domanda che ciascun operatore, indipendentemente dal livello contrattuale, dovrebbe sempre farsi è una sola: “mi comporterei allo stesso modo se l’azienda fosse mia?”. È su questo che la Grande Distribuzione dovrebbe distinguersi se vuole andare oltre vecchie logiche contrattuali che hanno fatto il loro tempo. Altrimenti la centralità del cliente resta una affermazione vuota che non porta da nessuna parte.