Durante la pandemia i riflettori sono finiti giustamente sulle cassiere e su chi doveva tenere i lineari colmi di merce. C’era un’emergenza da gestire e le code fuori dai negozi. Ansia e paura del contagio interferivano con le dinamiche organizzative quotidiane. Ma la qualità del lavoro di un responsabile di punto vendita e della sua squadra è tanto più importante ed evidente quanto meno visibile. Il cliente apprezza certamente la convenienza del negozio ma percepisce il clima interno, la qualità del servizio, la presenza di ciò che cerca. E ciò che non funziona lo disturba. Il lavoro dell’intera regia del punto vendita, pur sembrando cosa facile, sta tutto qui. Se il cliente è soddisfatto, ritorna, fatturati e margini tengono e chi sta sopra, dal capo area nelle sue varie denominazioni in su, è contento.
L’organizzazione del punto vendita dipende da loro. Dal dimensionamento dell’organico alla gestione dei collaboratori e dei loro problemi, dal flusso delle merci dal magazzino ai lineari, dalla gestione dei reparti fino alle emergenze e a tutto ciò che caratterizza la vita quotidiana di un negozio. La qualità del loro lavoro si misura proprio nell’essere sempre presenti e nel rendere fluido e facile ciò che, sulla carta, sembra maledettamente complicato. Fondamentali quindi per il punto vendita ma non necessariamente attori riconosciuti dai clienti. Pronti ad intervenire ma capaci di far girare una macchina complessa dall’apertura alla chiusura della saracinesca.
Tutto questo e altro ancora è il lavoro quotidiano dei diversi responsabili che vivono nel negozio. Ispettori, direttori, capi settori e di reparto nelle diverse terminologie e declinazioni utilizzate nella GDO. Il punto vendita, ciò che sta a monte, l’intera organizzazione e tutto ciò che arriva al cliente e alla sua soddisfazione passa da loro stretti tra le strategie e le pressioni aziendali e la realtà quotidiana. Intorno a loro si sviluppa il successo o il declino di ciò che è sotto la loro responsabilità.
Alcuni sono riconosciuti e con un inquadramento adeguato. Altri, perennemente in attesa, si devono accontentare delle denominazioni di rito tipo “facente funzione” messa lì con furbizia spesso per ritardarne il riconoscimento e spingere sui risultati. Quasi centomila i professionisti censiti e presenti non solo nella GDO ma in tutti gli ambiti di contatto con il pubblico in questo particolare spicchio di terziario di mercato nel nostro Paese. Una via di mezzo, per compiti, ruolo e responsabilità, sotto la figura del Dirigente, oggi anch’essa in crisi di identità, con altre figure tipiche dei tradizionali inquadramenti contrattuali. Una categoria trasversale in crescita, relativamente giovane e in cerca, forse, di un riconoscimento definitivo.
Pur aspirando ad esserlo, pochi di loro sono quadri. Anzi. Una certa ambiguità di profilo che consente di “dare senza dare” è insita nel termine inglese “manager” accompagnato da “qualcosa d’altro” che ne completa o ne contorna il significato concreto. Nella GDO, oltre al responsabile del punto vendita, quest’area professionale in senso lato comprende anche i capi settore e i capi reparto. In genere crescono dal basso. È uno dei punti di forza del settore. Le retribuzioni non sono particolarmente significative ma impegno e buona volontà consentono carriere altrove impensabili. Si cresce per merito e non per titoli. Semmai il problema è che non ci sono meticciamenti significativi con altri settori. Si cresce troppo spesso in verticale e meno in orizzontale.
Il problema è che non sempre queste figure professionali nei passaggi di carriera assimilano quel ventaglio di competenze comportamentali e gestionali fondamentali oltre a quelle tipiche del reparto di provenienza. Su queste non tutte le insegne, soprattutto quelle medio piccole, sono in grado di fornirne strumenti e stimoli ai propri collaboratori.
Il tempo dedicato alla formazione nel settore, purtroppo, per quanto possa sembrare una contraddizione, diminuisce addirittura con il crescere della carriera. Ottimi professionisti rischiano di perdersi di fronte all’offerta di percorsi di crescita proprio perché mancano di competenze nella gestione dei collaboratori, della loro dinamiche relazionali o, più banalmente, del governo dei conto economico dei reparti. Oggi essere degli ottimi specialisti non basta e, purtroppo, la formazione offerta per come è costruita o peggio standardizzata non sempre tiene conto della provenienza di queste persone, della loro difficoltà a mettersi in discussione per cambiare comportamenti costruiti negli anni e quindi, più che un’opportunità, la formazione viene spesso vissuta come una sostanziale perdita di tempo.
Dall’altra parte, all’azienda costa distogliere il collaboratore dal reparto o dal suo lavoro e il rischio che si crei una convergenza di interesse negativa è nei fatti. Lo dicono i numeri. Molta formazione on the job o sulla sicurezza, non abbastanza, sul servizio e sulla crescita professionale. Ovviamente ci sono tanti esempi virtuosi ma la sostanza non cambia.
Se prevale un approccio sensibile al costo della formazione e meno all’investimento sul collaboratore si crea un circolo vizioso che, prima o poi, si paga in termini di risultati, clima interno, turn over accentuato, tensioni sindacali e di frustrazione degli stessi quadri intermedi. Senza dimenticare che la formazione e la crescita professionale costituiscono l’unica strada per continuare ad essere competitivi sul mercato esterno.
Da qui l’esigenza di percorsi di formazione e sviluppo continui ed efficaci. La crisi sempre più evidente del “taylorismo” culturale e contrattuale legate anche al declino delle grandi superfici di vendita forse ne rilancerà il ruolo fondamentale e gli restituirà un perimetro di responsabilità e un ruolo maggiormente definiti.
I temi di loro interesse vanno da un maggiore riconoscimento del contributo al successo dell’azienda alla creazione di un’area professionale e contrattuale meglio definita e diversificata. Infine resta forte la richiesta di un welfare più importante, aziendale o contrattuale, che tenga conto delle nuove esigenze di una popolazione che spesso “vive” in azienda e per l’azienda.
Le giovani generazioni, le nuove tecnologie e un contesto più globalizzato e interdipendente costringeranno i contratti di lavoro a fare un deciso passo in avanti. E questo, anche se sembra ad oggi difficile, è certamente auspicabile.