Era da tempo che mi ero ripromesso di documentarmi per scrivere su Bennet. Insieme a Iperal fa parte di quelle insegne della grande distribuzione lombarda che nei loro territori hanno costruito un legame particolare di fiducia con i propri clienti, resistono alla crisi delle grandi superfici e con le quali è difficilissimo competere.
Iperal è cresciuta con la generazione di milanesi in vacanza in Valtellina, Bennet ha le sue radici nel comasco. Terra di laghée, di confine dove il boom demografico ed economico degli anni sessanta, insieme al successivo fenomeno di espulsione delle industrie dall’area metropolitana milanese, ha determinato la crescita vertiginosa di piccole e medie attività produttive. Ed è su questa cultura locale, simile ad altri territori del nord che ha costruito la sua fortuna grazie alla leadership del suo fondatore, Enzo Ratti che insieme a suo fratello Sergio, partendo da un negozio di alimentari nel centro di Como si è sviluppata fino a diventare quello che è oggi. Una realtà con un miliardo e mezzo di fatturato, settemila collaboratori e con una settantina di grandi superfici distribuite nel nord italia entrata a far parte del Gruppo VéGé dal 2019.
L’idea di inserirsi con una proposta collegata a Bookcity (l’iniziativa voluta dal Comune di Milano con lo scopo di mettere al centro una serie di eventi diffusi sul territorio urbano il libro, la lettura e i lettori, come motori e protagonisti dell’identità della città e delle sue trasformazioni) non nasce a caso.
Dal 1998, quando ha assunto la guida dell’impresa, succedendo al fondatore, Michele Ratti ha impostato lo sviluppo dell’attività proprio puntando sull’integrazione fra ipermercati e gallerie commerciali creando strutture multifunzionali in cui insieme alle aree di vendita sono presenti spazi per il tempo libero e di incontro per il territorio in cui si insedia. È stata la chiave del successo di questa insegna. Centralità del cliente, sobrietà nella gestione, rispetto della tradizione ma forte capacità di innovazione.
L’obiettivo non è solo accontentare la famosa “casalinga di Voghera” peraltro ben servita dagli iper di SanMartino Siccomario e da Novi Ligure ma di offrire, oltre alla convenienza e alla qualità, qualcosa di più.
Da qui un forte intervento sulla formazione del personale rivolto alla crescita delle loro competenze ma anche al miglioramento continuo del servizio al cliente e il sostegno a numerose associazioni (Fondazione Umberto Veronesi, per la ricerca scientifica in oncologia pediatrica; Centro Dino Ferrari, per la promozione delle attività di ricerca scientifica e clinica nel campo delle malattie neuromuscolari (distrofie) e neurodegenerative; La Nostra Famiglia, per il sostegno alla realizzazione a Como di un nuovo Centro di Riabilitazione per bambini e ragazzi con disabilità, ecc.).
La sfida che attende la Grande Distribuzione non è solo quella di interpretare l’evoluzione dei modelli di consumo in un mercato sempre più saturo e competitivo. È anche quella di capire che il successo di un’insegna passa attraverso la valorizzazione di tutti coloro che transitano nel punto vendita siano essi collaboratori o clienti della loro volontà di sentirsi ingaggiati e, se clienti, di volerci ritornare.
«Oggi i consumatori chiedono che i brand si facciano portavoce di istanze più profonde, importanti e allargate rispetto alla soddisfazione di meri aspetti funzionali – spiega l’azienda -. Le marche non sono insomma più chiamate solo a vendere, ma ad entrare in relazione con le persone. E questo vale tanto più per una insegna della GDO come la nostra che ambisce a far parte della quotidianità».
“Oggi i brand non devono più essere solo una mera soddisfazione di aspetti funzionali ma entrare in relazione con le persone. Specie in un momento storico dove le istituzioni stanno perdendo la fiducia della gente. In questo vuoto i brand possono giocare un ruolo rilevante agendo su temi socialmente importanti” le parole di Carlotta Asti, planning director del Gruppo DDB Italia che ha ideato la campagna di sensibilizzazione “Hungry for Culture” di Bennet, che ha esposto i libri tra carne, pesce e verdura.
Una campagna di sensibilizzazione sui consumi culturali, specificamente di libri, che prende il via da un dato allarmante: quasi il 60% degli italiani non legge neanche un libro all’anno. Certo vedere la famosa balena Moby Dick in formato cartaceo e non tagliata a fette sul banco del pesce è una scelta spiazzante da verificare nei suoi risultati concreti e pur sapendo che qualche purista arriccerà sicuramente il naso.
Collegata a Book City credo amplifichi un’esigenza ed offra una opportunità. In fondo BookCity propone una serie di incontri, specialmente presentazioni di libri, e altre attività (come reading, incontri, mostre, seminari, laboratori, dialoghi e spettacoli) a sostegno della letteratura e della cultura in generale. “Con la cultura non si mangia” è la famosa frase attribuita a Giulio Tremonti che nega di averla mai pronunciata.
Bennet con questa iniziativa ci suggerisce che si può mangiare senza dimenticarci di leggere e di pensare. Ricordo una bellissima frase di Cesare Zavattini quando disse: “Pensare è più importante che mangiare perché se tutti pensassimo, nessuno morirebbe di fame”. Beh! Che tutto questo trovi spazio in un luogo destinato prevalentemente al consumo la trovo una scelta da apprezzare….
“Hungry for culture” mi piace moltissimo. Complimenti per la campagna di sensibilizzazione. E inoltre con la cultura SI mangia.
Condivido.
Ho letto con interesse l’articolo e la storia di Bennet , il supermercato così moderno e attento alle esigenze dei clienti. Mi piace l’idea di mettete Moby Dick in pescheria. D’accordo con Zavattini: una persona pensante non morirà mai di fame.