Molti amici, manager e consulenti della GDO mi hanno sollecitato a insistere e tornare sulle ragioni che spingono le differenti insegne a non considerare l’unità e la convergenza del comparto come prioritarie in un contesto come quello che stiamo attraversando. Il punto di partenza è chiaro. C’è una disillusione diffusa sulla possibilità di realizzarla quasi fosse una maledizione ereditata dai “padri fondatori” che, condanna a trovare negli “altri” leader presenti nel settore la causa e la ragione della situazione.
La classica profezia negativa che si autoavvera per il solo fatto di essere continuamente ripetuta. La predizione genera l’evento e l’evento verifica la predizione. E così ciascuno predica l’unità ma addebita ad un male oscuro e sconosciuto la ragione dello stallo. Non ho personalmente incontrato nessun CEO che rifiuta l’idea in sé ma tutti, o quasi, rifiutano la responsabilità della situazione.
Non credo di svelare nulla di segreto ma nella stessa scelta che ha portato ad individuare l’attuale Presidente di Federdistribuzione la richiesta di lavorare per l’unità del comparto era uno degli impegni principali richiesti al candidato. Addirittura l’idea di individuarlo fuori dal perimetro della GDO aveva lo scopo di evitare pregiudizi e chiusure preconcette. Purtroppo si è dimostrato una scelta sbagliata per diverse ragioni tra le quali che la persona individuata non sembra averci nemmeno mai provato a rimuovere il contenzioso passato o si è scoraggiato al primi tentativi..
Lo scrittore Garrison Keillor negli anni ottanta del secolo scorso creò, per il programma radiofonico “A Prairie Home Companion” nel Minnesota, una città immaginaria chiamata “Lake Wobegon” dove “tutte le donne sono forti, tutti gli uomini sono belli e tutti i bambini sono sopra la media”. Questo racconto ha poi dato il nome a un pregiudizio cognitivo chiamato “effetto Wobegon”, che consiste nel sovrastimare il proprio peso, le proprie abilità e, di conseguenza, ignorare i propri limiti. È la tendenza umana a sopravvalutare i propri risultati e le proprie capacità in relazione agli altri. È il problema che affligge l’associazionismo della Grande Distribuzione italiana e non solo.
E questa sopravvalutazione di sé, delle proprie forze e delle proprie ragioni impedisce di convergere con gli altri alla ricerca di una crescita comune e di punto di condivisione degli interessi. Ripeto ciò che ho già scritto: “Quando si tende a fare solo le cose che fanno tutti gli altri si diventa come tutti gli altri” come ci ricorda Charles Bukowski. Difficile quindi non trovare un imprenditore sfiduciato che non si lamenti dell’unità impossibile e della mancanza di visione collettiva del comparto.
La gestione della pandemia, seppure costringendo ciascuno a casa propria, aveva mostrato un settore ben conscio del proprio ruolo ben al di là delle associazioni di rappresentanza. E non serve sottolineare che quasi tutte le insegne, chi più chi meno, nei rispettivi territori interagiscono quotidianamente con le diverse realtà che affrontano temi sociali sempre alla ricerca di partnership, credibili e impegnate, in grado di sostenerne gli sforzi. La GDO nelle sue diverse declinazioni e formati, su questi temi, ha sempre mostrato una sensibilità e una visione importante. L’aumento dei costi energetici e delle materie prime, oltre ad abbattersi sui consumatori finali e ad incidere sui margini già ridimensionati, ha contribuito ad accelerare la crisi di un illusorio modello di crescita continua che ha accompagnato la GDO fin dalla sua nascita e ha cambiato lo scenario di riferimento.
Da un lato la difficoltà a trovare nuovi spazi e nuove idee nel solco dei formati tradizionali e dall’altro la modificazione dei modelli di consumo, la crescita dei discount e della rete, la necessità di concentrarsi per crescere e competere. C’è stato e c’è, ovviamente, ancora spazio per tante insegne locali e pluriregionali vivaci ma il campo da gioco è cambiato. L’associazionismo di categoria è però rimasto sostanzialmente tale e quale. Ottimo su studi e ricerche, debole sul fronte delle strategie di comparto e di filiera e inesistente sul piano politico e sindacale. È come se la competizione si fosse alimentata solo verso il basso. Spingendo ciascuno a casa propria.
La crisi o il ridimensionamento delle multinazionali francesi, la scomparsa dei “grandi vecchi” e delle loro diatribe personali, il datato mal di pancia nei confronti del mondo cooperativo, il superamento del contrasto politico con la rappresentanze dei piccoli esercenti, l’affermazione dei giganti della rete e dei discount, che operano all’interno dello stesso perimetro, ha rimesso al centro la necessità di ritrovare un percorso associativo inclusivo e propositivo che rilanci il tema del commercio a 360° superando la logica delle dimensioni, dei formati, dei modelli organizzativi e che punti a definire nuove regole comuni e condivise sapendo che le regole andrebbero costruite insieme. Altrimenti le determinano i più forti o chi sta fuori dal perimetro.
Il contesto geopolitico, la scarsità di risorse economiche da dedicare alla filiera, le ricadute sui consumi e la necessità di governare una situazione economica e sociale complessa hanno aggiunto l’urgenza di cambiare marcia e superare così un modello associativo divisivo tipico della seconda metà del 900. Alla GDO serve unità. Altrimenti è destinata a finire come i piccoli “bottegai” che nel secolo scorso lamentavano l’espansionismo della Grande Distribuzione, raggruppati da Confcommercio più sulle loro paure che non su un progetto credibile di futuro. Abbiamo visto come è finita.
Un associazionismo forte e coeso serve se guida la “testa” delle insegne. Non se si accoda alla “pancia”. Quindi servono persone e idee per guardare lontano. Non per contemplarsi tristemente l’ombelico. In tempi di alta inflazione con i consumatori costretti a scegliere e con i costi in aumento, l’insegna concorrente vive gli stessi problemi e nel rapporto con le istituzioni non esistono spazi vuoti. Altri sono sempre pronti ad occuparli. Rischiare di non avere interlocuzioni politiche forti proprio quando queste sono indispensabili è un limite su cui ciascuna insegna dovrebbe riflettere.
E poi, a mio modesto parere, occorrerebbe partire da quello che già c’è e dove tutti vi si riconoscono come ADM ha dimostrato recentemente a Bologna grazie anche al lavoro di assemblaggio dei dati di The European-Ambrosetti, al contributo che parte dell’associazionismo ha dato indipendentemente dalla dimensione, dal formato dal modello organizzativo e dal contratto nazionale applicato dalle insegne. E ricordando a tutti che la filiera che sta a monte è ben più estesa di chi oggi si propone di rappresentarla. Quindi gli spazi di iniziativa sono enormi.