Sindacati, Associazioni Imprenditoriali e Governo. Quale autunno ci aspetta?

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Mentre i partiti di opposizione incalzano il governo con la loro proposta di introduzione del  salario minimo Rita Querzé sul Corriere  pone un tema ineludibile. (https://bit.ly/3KGo88c): “Se non vorranno buttare la palla in tribuna le parti sociali dovranno inevitabilmente affrontare il problema delle retribuzioni mettendoci del proprio”. Se è vero com’è vero che i contratti coprono il 97% dei lavoratori del settore privato (14,5 milioni i lavoratori dipendenti esclusi agricoli e domestici) è lì che andrebbe concentrata l’iniziativa delle parti sociali.  Nel dettaglio, dall’elaborazione della Fondazione Di Vittorio dei dati Cnel-Inps relativa a 894 Ccnl, risulta che: 207 Ccnl firmati da Cgil, Cisl, Uil coprono 13.366.176 lavoratori dipendenti del settore privato; 687 Ccnl firmati dalle altre organizzazioni sindacali interessano 474.755 lavoratori. A questi dati bisogna aggiungere 689.355 lavoratori dipendenti per i quali il datore di lavoro non ha indicato chiaramente il Ccnl applicato. Quindi i contratti siglati dalle tre Confederazioni tutelano la stragrande maggioranza dei lavoratori dipendenti del settore privato.

“Sono due in particolare le leve nel cruscotto di sindacati e associazioni delle imprese: la definizione della rappresentanza (chi può contrattare che cosa) e la struttura della contrattazione” conclude Rita Querzé. Se il problema dei salari non fosse centrale per l’inflazione che si scarica sui redditi delle famiglie ma anche sui costi  a carico delle imprese, le parti sociali, temo, svicolerebbero ancora una volta dalle loro responsabilità limitandosi a chiedere al Governo un intervento con proposte  di difficile attuazione visto il contesto. Oggi però, è chiaro a tutti, che “buttare la palla in tribuna” non è più possibile.

D’altra parte l’ultima mossa (affidare al CNEL l’onere di individuare un percorso) segnala tutta la difficoltà del Governo di centro destra che intravede  il rischio, anche per l’iniziativa dell’opposizione sul salario minimo, di tensioni sociali difficili da mantenere sotto un livello di guardia accettabile. L’obiettivo, mentre passa la palla al CNEL, è quindi cercare di tenersi fuori. Almeno fino a quando sarà possibile. Sul tema, tra l’altro, il centro destra non ha molto da dire. Non ha tra le proprie file né le competenze né un’autonomia di pensiero sul lavoro dipendente in grado di proporre un patto autorevole sul modello Ciampi  e di riuscire a convincere le parti sociali a sottoscriverlo. Per ora sembra essersi accodato alle rappresentanze datoriali che, da parte loro,  non hanno una linea comune se non l’intenzione, questa si condivisa con i sindacati,  di scaricare i costi di qualsiasi intervento sulla collettività. Defiscalizzare gli aumenti salariali e intervenire sul cuneo fiscale questo significano.

Il 1993 è lontano e non sembra esserci aria di concertazione. Oggi, ad invocarla, è rimasta solo la CISL. Alla Presidenza del Consiglio non c’è Carlo Azeglio Ciampi e al Ministero del lavoro non c’è Gino Giugni. I sindacati allora potevano contare su Bruno Trentin, Sergio D’Antoni, Piero Larizza e Luigi Abete rappresentava Confindustria. Oggi Landini e Bombardieri vanno per la loro strada e la pur lodevole iniziativa di Sbarra sulla partecipazione a nome della CISL rischia di essere una predica nel deserto. Confindustria non ha alcuna delega negoziale da parte del resto dell’associazionismo datoriale che appare rissoso e inconcludente nel suo complesso. Quindi restano sul tavolo solo le richieste pressanti di riduzione del cuneo fiscale e di defiscalizzazione degli aumenti contrattuali a segnalare la difficoltà delle imprese e la scorciatoia imboccata da CGIL e UIL  sul salario minimo che segnala anch’essa la difficoltà di movimento del sindacato che non riesce a sbloccare unitariamente la situazione a proprio favore. 

Ma ci può essere uno spazio percorribile che eviti di trasformare la querelle sul salario minimo “si o no” in uno scontro politico permanente che lascerebbe  inevitabilmente  la discussione sulle retribuzioni, sulla contrattazione, e la sua necessaria  riforma, al palo?  Premetto che sono favorevole alla introduzione di un salario minimo legale che tuteli chi è fuori dal circuito contrattuale ma, contemporaneamente, ne percepisco i rischi sul sistema  e i limiti  delle proposte oggi sul tavolo, ben paventati dal prof. Michele Tiraboschi e da Francesco Lombardo in un articolo  sul Bollettino ADAPT (https://bit.ly/3qDlJ7f) soprattutto in un  Paese come il nostro caratterizzato da settori e imprese di dimensioni modeste.  Gli stessi  “livelli contrattuali” che hanno caratterizzato le dinamiche della contrattazione per buona parte della seconda metà del novecento oggi si riducono sostanzialmente ad una presenza  a macchia di leopardo della contrattazione aziendale o territoriale e ad una presenza della contrattazione nazionale che mostra evidenti crepe sia nei tempi di rinnovo, nei contenuti, nei costi complessivi  e nella consapevolezza della importanza dello strumento e del sistema che da esso prende corpo al di là dei minimi contrattuali.

Eppure attualizzare  il perimetro della contrattazione, valorizzandone i livelli,  i contenuti e la portata, costituirebbe una sfida non da poco per la rappresentanza sindacale e datoriale. E circoscriverebbe il tema del salario minimo legale laddove è veramente necessario. Donatella Prampolini vice presidente Confcommercio con delega sul lavoro spiega bene le due ragioni che spingono la sua Confederazione ad essere decisamente contraria all’introduzione del salario minimo  (https://bit.ly/458wZrb). Innanzitutto la consapevolezza che, nel comparto del commercio, dove esiste un contratto nazionale confederale (che, a differenza di Confindustria, copre numerosi settori del commercio e del terziario di mercato indipendentemente dal peso specifico dei firmatari nei singoli sotto comparti economici) il salario minimo “cannibalizzerebbe” la contrattazione nazionale. La seconda, collegata alla prima, che minerebbe alla base l’intero welfare contrattuale (previdenza complementare e sanità). Sul primo tema, di fatto, c’è la conferma che alle piccole imprese (e non solo) il CCNL, così com’è oggi, non va bene e costa troppo. Non tanto per i minimi tabellari che, rappresentano, essi stessi, una sorta di salario minimo ante litteram quanto per i costi diretti e indiretti che trascina e i vincoli che determina. Ed è vero che se fosse introdotto un salario minimo generalizzato assisteremmo ad una fuga ben maggiore da quella che oggi c’è verso i cosiddetti “contatti pirata”.

Difendere il sistema attuale così com’è senza porsi il problema di rinnovarlo alla radice sulle priorità delle imprese e dei lavoratori di oggi  è però  un errore perché la sua “crisi” rischia di mettere in discussione il secondo tema: il costo complessivo dei CCNL, della bilateralità  e del welfare contrattuale che, oggi non è per nulla valorizzato né dalle imprese né dai lavoratori. E su questo si gioca la differenza tra l’impostazione di Confindustria e quella di Confcommercio e di altre associazioni. Personalmente credo sia una buona cosa la sua valorizzazione soprattutto pensando al probabile futuro del welfare pubblico. Ma non c’è dubbio che vada ripensato. 

 

Aggiungo le riflessioni di  Luigi Oliveri su Phastidio (https://bit.ly/45eNZfC) che in parte condivido e che comprendono  una richiesta al Governo per un potenziamento dei servizi ispettivi del lavoro e alle associazioni datoriali, un ripensamento delle forme flessibili di lavoro, una valorizzazione dell’apprendistato come unica forma di inserimento al lavoro e una disponibilità al superamento di tutta quella fascia di lavoro pseudo autonomo. Ovviamente accompagnato da una valorizzazione del lavoro a tempo determinato. Credo poi  che le scadenze concordate nei  contratti debbano essere rispettate. Non è ammissibile, in tempi di inflazione soprattutto, ritardi di tre o quattro anni dopo la scadenza. Su questo trovo interessante la proposta di inserire un minimo legale parificato al tasso di inflazione medio annuo del minimo nel periodo di vacanza contrattuale.

Infine i criteri per definire la rappresentanza datoriale. Donatella Prampolini rilancia una proposta interessante: “A fare da base di partenza dovrebbero essere i criteri che usiamo già per le elezioni nelle Camere di commercio. Lì sono condivisi da tutti. E’ l’unico modo per fare una seria lotta ai contratti in dumping”. È un passo in avanti da cogliere. Se si supera la rigidità che ha manifestato fino a poco tempo fa Confcommercio siamo di fronte ad una novità importante.  La palla oggi è al CNEL. Credo sia  interesse di tutti lasciarlo lavorare.

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