Accordo Confindustria Sindacati. Un risultato comunque importante.

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Sarebbe interessante poter leggere i primi testi proposti sia da Confindustria che dai sindacati confederali. I testi dove entrambe le parti avevano espresso il proprio punto di partenza, le proprie filosofie e i propri obiettivi.

Quelli che definivano le vere aspirazioni e le vere traiettorie. Il testo finale, come sempre, tende ad accontentare tutti e quindi non spiega, fino in fondo, le legittime differenti strategie in campo.

Né spiega le difficoltà a tenere insieme Categorie sindacali, Federazioni imprenditoriali soprattutto quando Categorie e Federazioni hanno già ottenuto, in parte, quello che volevano nei loro contratti, gelosi della propria autonomia. Confindustria non ottiene molto ma contemporaneamente non concede molto.

Certo un accordo confederale è comunque un passo importante. Dimostra rispetto tra le parti, volontà di convergere unitariamente, riconoscimento reciproco. Di questi tempi non è merce da sottovalutare.

L’entusiasmo di Annamaria Furlan espresso in un tweet: “Accordo Confindustria sindacati vero piano di sviluppo per sistema – Paese: nuovo modello di relazioni industriali partecipative e stabili per alzare produttività. Più salari, più formazione, più competenze per i lavoratori. Parti sociali indicano strada condivisa per favorire crescita” è più un desiderio che una valutazione.

È il desiderio di chi ha indubbiamente capito che quella sarebbe stata la strada da percorrere. Ma così non è stato. Così come credo abbia ragione Giuseppe Sabella quando afferma che l’assenza di novità è controbilanciata da una convergenza che da comunque certezze sulla rappresentanza e sui contratti.

Confindustria come prima Confcommercio e le altre organizzazioni datoriali non hanno cercato di dividere gli interlocutori sindacali ma, al contrario, ne hanno rispettato le posizioni pur differenti.

Lo stesso vale per le tre Confederazioni che hanno giocato insieme e fino in fondo questa partita rafforzando la conclusione dei recenti contratti nazionali.

Il “Patto di fabbrica” però non c’è. O meglio questo accordo non aggiunge nulla a quello che le categorie avevano già, in parte, realizzato. Eppure quella era la chiave di volta del nuovo sistema.

Definire un nuovo ruolo delle parti sociali in un sistema collaborativo che mettesse al centro l’impresa e il lavoro. Questo, credo, avrebbe dovuto essere l’obiettivo.

È indubbio che il post fordismo sta trasferendo sempre più quote di rischio dalle imprese alle persone. C’è chi vorrebbe tornare indietro riproponendo modelli novecenteschi e chi, come i metalmeccanici (con ad esempio il diritto soggettivo alla formazione) sta cercando di guardare avanti alla ricerca di strumenti che riducano il rischio spingendo ad un ruolo più intraprendente e meno dipendente il lavoratore. Certo siamo solo all’inizio.

Così come fabbrica e ufficio, attraverso le nuove tecnologie, tendono a spostare il controllo di tempo e spazio di lavoro dall’imprenditore al lavoratore.

Tutto questo mette prepotentemente al centro il rapporto tra la persona e l’impresa, il suo contributo al risultato, la sua crescita professionale, le nuove modalità retributive, il welfare e una diversa gestione del tempo quindi i modelli collaborativi (o partecipativi) ma crea, a sua volta, sacche sempre più importanti di lavoro precario e di esclusione che devono essere affrontati in modo nuovo proprio dalle parti sociali a cominciare dai contratti di lavoro.

La decisione infine di confermare due livelli contrattuali senza prevederne l’esigibilità o l’alternatività conferma che gli spazi di manovra per entrambe le parti erano oggettivamente scarsi.

Comunque nel tweet di Furlan c’è un auspicio che va ripreso e rilanciato:” le parti sociali indicano una strada condivisa per la crescita”.

È un importante segnale di vitalità e di convergenza che non può essere sottovalutato in un Paese dove siamo ormai al “tutti contro tutti”. Speriamo sia da esempio alla Politica a partire dal 5 di marzo.

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