Per i 28.000 consulenti del lavoro la nomina di Marina Calderone a Ministro del lavoro rappresenta certamente un grande risultato. Con lei viene riconosciuta non solo la “competenza tecnica” di un’intera categoria. Assume un protagonismo pubblico (e politico) una libera professione che si è guadagnata il riconoscimento sul campo. Spesso sottovalutata dai protagonisti tradizionali del mondo del lavoro, gelosi interpreti di liturgie consolidate di un perimetro che, partendo dall’amministrazione del personale si è arricchito nel tempo di attività con al centro la selezione, la gestione e lo sviluppo delle risorse umane.
La sua nomina non poteva non sollevare interrogativi e riflessioni ben sintetizzate dall’amico prof. Michele Tiraboschi (https://bit.ly/3VSUMqV) che condivido.
Va detto in premessa che il ministero del lavoro ha perso buona parte della sua centralità conquistata nel secolo scorso assorbita in parte dal MISE e, in parte a causa di un declino che parte da lontano a cui hanno certamente contribuito i diversi tentativi di disintermediazione. D’altra parte il ruolo e l’azione del ministero del lavoro vivono la stessa crisi del sistema delle relazioni industriali nel Paese e della sua traduzione organizzativa nelle imprese dove ha, via via, perso di interesse e di peso specifico da molti anni soprattutto in alcune categorie. Si è consolidato e prospera in diverse realtà, soprattutto medio grandi, dove entrambe le parti scommettono sulla sua importanza ma il declino del modello, costruito sostanzialmente nella seconda metà del secolo scorso, è altrettanto evidente.
La stessa affermazione della professione dei consulenti del lavoro ne è una conferma indiretta. La figura aziendale del responsabile delle relazioni industriali ha perso peso un po’ ovunque. Ridimensionato nell’inquadramento professionale, nella retribuzione e nel numero degli addetti dedicati, spesso ceduti a terzi. In diversi settori, i ritardi ormai strutturali che accompagnano le scadenze contrattuali, il coinvolgimento dei rappresentanti dei lavoratori solo in ciò che la legge prevede, il fastidio dei top manager quando si vedono “costretti” a incontrare i sindacalisti interni o esterni, al di là della forma, conferma che l’intero sistema stenta a individuare una prospettiva.
Non se la passano meglio le associazioni di categoria. La perdita di ruolo e di professionalità specifica della figura spesso produce una serie di incomprensioni in azienda. Le “guerre per errore”, purtroppo, sono all’ordine del giorno. La mancanza di ascolto dei segnali deboli, la comunicazione sempre più unidirezionale, l’alterazione del clima segnalato anche dall’accentuarsi delle dimissioni e dalle difficoltà a reperire figure professionali su cui investire. In molte realtà la funzione HR è ripiegata da strategica a tattica. Costretta a intervenire al manifestarsi dei problemi piuttosto che nel prevenirli.
E se, in tempi di crescita continua, il cosiddetto “totalismo aziendale” rafforza cultura interna e confini, in tempi di crisi il cerchio dell’auspicata autosufficienza non si chiude. E senza “fieno in cascina” nelle stagioni buone si rischia la carestia e il conflitto.
Il sindacato in molte situazioni fatica ad inserirsi e misurarsi positivamente in contesti così strutturati e spesso lascia il campo per concentrare la propria iniziativa laddove strumenti e linguaggi rientrano nelle proprie liturgie accentuando ancora di più un meccanismo perverso che rischia di penalizzare proprio le imprese più disponibili al dialogo.
Ovviamente le parti tendono a negare l’esistenza di una crisi così profonda del sistema. In questa “bolla” dove associazionismo di impresa, sindacati, politica e istituzioni cercano di determinare equilibri compatibili con il contesto economico e sociale le tattiche prevalgono sulle strategie e l’innovazione resta al palo. Gli strumenti restano quelli che sono e ciascuno è spinto a difendere l’esistente.
I consulenti del lavoro si sono inseriti in questa crisi di qualità nei rapporti tra le parti portando una professionalità specifica, reinterpretando testi contrattuali ormai obsoleti, fornendo alle imprese scorciatoie e soluzioni pratiche, suggerendo aggiramenti pur consentiti dalla legge, proponendo migrazioni verso CCNL più snelli, sistemi formativi modellabili sulle esigenze delle imprese ed evitando alle stesse tutta quella parte del sistema collegato alla forma più che alla sostanza che ha prodotto burocrazia, vincoli e costi che il cambio di contesto, pur mantenendoli, ha reso obsoleti. A volte, però, buttando il bambino con l’acqua sporca. Anche perché la complessità normativa lamentata dai consulenti e dalle imprese spesso rappresenta solo il faticoso punto di compromesso tra interessi diversi.
Marina Elvira Calderone arriva in questo contesto. Credo sia bene sottolinearlo. Consulente del lavoro dal novembre 1994. Dal novembre 2005, è Presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro e dal 2015 è componente del Comitato economico e sociale europeo (Cese). Sostenitrice del dialogo sociale come strumento necessario per prevenire conflittualità nel lavoro dal 2014 al 2020 è stata inoltre componente del Consiglio di Amministrazione di Finmeccanica S.p.A., oggi Leonardo S.p.A. Come professionista ha seguito aziende private e partecipate pubbliche.
Da adesso il suo importante CV e il suo essere favorevole al dialogo sociale la potranno aiutare a muoversi ma non alleggeriranno la sua agenda, come giustamente sottolinea Il prof. Tiraboschi stretta “tra i vincoli dovuti all’attuazione del PNRR, alle politiche attive del lavoro, al programma GOL, al robusto investimento sui centri per l’impiego e la situazione economica e sociale (costo energia, emergenza occupazionale, reddito di cittadinanza)”. E questi vincoli necessitano di confronto e di coinvolgimento delle parti sociali.
Dalle dichiarazioni del neo ministro (https://bit.ly/3D3od15) sembra abbia molto chiara la direzione da seguire. Soprattutto la necessità di trovare “soluzioni condivise a beneficio del mondo delle imprese, dei lavoratori dipendenti e autonomi e più in generale di un mondo del lavoro sempre più inclusivo, contrastando forme di disuguaglianza e povertà”. Una dichiarazione politica precisa.
Sarà un Governo di destra a provare a ridare centralità al lavoro, alla sua necessaria innovazione e al suo riconoscimento. E a ridare ruolo al Ministero del Lavoro? E le parti sociali complessivamente intese cercheranno di rientrare in gioco o confermeranno, non tanto la loro scontata equidistanza dal colore dei governi, quanto la loro difficoltà a rapportarsi con la politica in un contesto economico e sociale particolarmente complesso?