In molte situazioni sono una prova di democrazia e partecipazione. Prevederli e codificarne l’iter formale è un atto doveroso. Soprattutto per supportare e validare gli strumenti negoziali tradizionali.
Le votazioni assembleari hanno fatto il loro tempo e quindi consolidare un potente strumento di partecipazione come il referendum è certamente una scelta decisiva.
Si trasforma, però, in un boomerang quando non consente una scelta vera e, soprattutto, quando gli esiti e gli effetti chiamano pesantemente in causa altri a cui nessuno ha chiesto nulla.
Aver affidato ai soli lavoratori dell’Alitalia la decisione di salvare o meno l’azienda nella quale lavorano sono stati, secondo me, un azzardo e un errore. Alitalia non è mai stata un’azienda normale.
E la sua specificità ha sempre comportato un conto da pagare per i cittadini italiani che non hanno mai avuto, sul tema, voce in capitolo nonostante ci si dimentichi spesso che “non esistono soldi pubblici, ma solo soldi dei contribuenti”.
A votare, però, sono stati chiamati solo i suoi dipendenti. Si è sempre fatto così, è vero. Però in un caso come questo resto convinto che non sia corretto. Innanzitutto perché, indipendentemente dall’esito del referendum, gli effetti di quella votazione verranno comunque pagati da tutti.
In altri termini è come se in una grande azienda, soggetta ad una crisi profonda, venissero chiamati a votare solo coloro che sono stati inseriti in una procedura di licenziamento collettivo e non l’insieme dei lavoratori. Oppure se, sulle banche venete o su MPS fossero stati chiamati solo i dipendenti a decidere. L’esito sarebbe scontato. Così come rischia di esserlo in questo referendum.
In secondo luogo perché non esistono alternative al piano. Governo, azionisti, banche e parti sociali si sono confrontati, hanno definito i contenuti e verificato che non esistono ulteriori margini. Inoltre il Presidente del Consiglio, i ministri incaricati e i massimi rappresentanti del sindacato confederale italiano hanno annunciato che non ci sono alternative né piani B a disposizione.
Perché quindi chiedere ai lavoratori coinvolti un giudizio assolutamente inutile? Soprattutto in mancanza di un poco scontato plebiscito a favore. E con il rischio di gravi strumentalizzazioni da parte di chi vuole far fallire comunque l’azienda o di chi vorrebbe prococatoriamete proporne il ritorno allo Stato.
Un rito, in questo caso, pericoloso, fuori dal tempo e quindi un errore grave. Un’altra cosa avrebbe potuto essere un confronto tra i sindacati e i rispettivi iscritti con lo scopo di spiegare i contenuti dell’intesa e la sua irrevocabilità.
Che fare in questi casi?
Credo che chi sottoscrive un’intesa senza alternative se ne dovrebbe assumere la totale responsabilità. Nei confronti del Paese e dei lavoratori. Il compromesso raggiunto al tavolo negoziale, pur “difensivo”, può presentare sicuramente luci e ombre ma anche la convinzione dei sottoscrittori che è il massimo possibile in condizioni date.
Al sindacato, alle associazioni datoriali, alla politica è chiesta, in questi casi, una assunzione di responsabilità profonda quando di mezzo ci sono il posto di lavoro, la vita delle persone, il loro reddito e la continuità di una attività economica importante. Non la semplice firma su di un pezzo di carta.
Il referendum ha senso quando in votazione va un atto preciso e dettagliato. Circoscritto al contesto. Sul voto non dovrebbero mai pesare una storia di insuccessi, purtroppo, infinita, un declino vissuto come inarrestabile, la credibilità di chi, senza mai rimetterci nulla né pagare alcunché, ha proposto piani industriali inconsistenti, ristrutturazioni continue e socialmente dolorose.
Ma neanche chi propone, come i sindacati autonomi, scorciatoie spericolate facendosi scudo della rabbia e del disorientamento dei lavoratori. Tra pochi giorni avremo l’esito di questa decisione azzardata e dovremo consapevolmente gestirne le conseguenze.
Speriamo che chi è stato chiamato ad assumersi le proprie responsabilità individuali con il voto lo faccia, almeno questa volta anche per tutti noi.