Il termine “apprendista” fino a qualche decennio fa aveva una accezione positiva. Un lungo apprendistato era l’epilogo di una formazione scolastica seria e il prologo ad un mestiere spendibile sul mercato del lavoro.
Esistevano istituti scolastici il cui scopo era preparare i giovani al lavoro. Non ad un lavoro generico ma quello di una attività commerciale, di una fabbrica specifica, di un territorio, di un distretto produttivo localizzato e visibile.
Un mestiere, comunque venisse considerato, aveva bisogno di una sana cultura generale, di saper leggere e scrivere decorosamente, di basi tecnico professionali specifiche e di condivisione di un’etica del lavoro comune fatta di serietà, dedizione, impegno, collaborazione.
La famiglia, la scuola e l’azienda ruotavano intorno a questi principi educativi prima che professionali. Il Preside e i professori lavoravano (spesso) fianco a fianco con gli imprenditori e i loro manager raccordandosi con le famiglie per aiutare, sostenere, correggere i ragazzi nel loro esclusivo interesse.
Il sistema aveva il suo punto di forza nella collaborazione di tutte le sue componenti. Ha cominciato ad andare in crisi quando è cambiato il mondo (economico e sociale) e ciascuno delle sue componenti ha pensato (o si è convinta) di poterlo affrontare da sola.
Molte scuole professionali sono state chiuse, i contratti nazionali hanno delegato il problema ad una formazione all’entrata pressoché formale con passaggi automatici temporali, l’anzianità aziendale è diventata il metro di misura della professionalità e del merito.
L’industria ha spostato il suo interesse quasi esclusivamente sulla formazione universitaria con l’obiettivo di avere a disposizione manager competenti sul modello anglosassone disinteressandosi, di fatto, della formazione di base.
Ovviamente tutto questo ha retto fino alle soglie della globalizzazione e alla crisi del fordismo. Così mentre altri Paesi hanno cercato di accompagnare l’evoluzione dei modelli organizzativi e scolastici aprendo e chiudendo nuove sperimentazioni noi ci siamo rassegnati ad accettare la contrapposizione e la separazione sempre più netta tra il mondo della scuola e quello del lavoro. (Sempre con le dovute lodevoli eccezioni).
Oggi siamo qui. Da un lato, lamentiamo la distanza tra i due mondi, certifichiamo l’evidente mismatch tra offerta e domanda cercando di colmarlo con i convegni o con iniziative estemporanee mentre dall’altro cerchiamo attraverso incentivi e agevolazioni di spingere le aziende ad assumere giovani comunque.
Laddove la qualità non è perseguibile ci si accontenta della quantità senza accorgersi che, così facendo, si continua a spingere le aziende ad assumere giovani perché “costano meno” e non a fare un serio investimento sul futuro.
Non c’è niente da fare. Se le diverse componenti economiche e sociali non si parleranno i risultati non potranno che essere parziali o insufficienti. Bisogna ripartire dal valore del lavoro e della formazione scolastica di ogni ordine e grado ridando dignità a tutta la formazione e a tutti i lavori, riconoscendone l’utilità sociale e rispettando i soggetti che scelgono quella che sarà la loro strada.
Su tutto questo l’apprendistato può giocare un ruolo importante tra i due mondi. Più degli sgravi o delle agevolazioni la risposta va ritrovata nel senso del lavoro, nei contratti nazionali, nella contrattazione aziendale e nella formazione permanente.
L’allarme sortito nell’ultimo contratto nazionale dei metalmeccanici, l’idea stessa che ci sia un diritto soggettivo alla formazione è un dato importante. Soprattutto perché condiviso.
Occorre però andare oltre e in fretta se vogliamo individuare soluzioni durature. Il riconoscimento della qualità e del valore dell’insegnamento scolastico, qualunque esso sia, Il merito e l’impegno individuale, il contributo che ciascuno porta al risultato complessivo, la formazione necessaria a crescere in azienda e a muoversi nel mercato del lavoro oggi richiedono uno sforzo convergente comune di tutti i soggetti che hanno a cuore il futuro del Paese e del lavoro.
Se vogliamo essere credibili su cosa ha senso fare per i giovani è da qui che dobbiamo partire.