Associazioni di categoria. Gli associati si contano o si pesano?

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Se si dovessero contare gli associati effettivi che ciascuna confederazione o associazione vanta senza essere costretta a certificarne la corrispondenza effettiva in molti casi   scopriremmo “magheggi” interessanti. Forse è anche per questo che una legge sulla rappresentanza è lontana dall’essere approvata. Bilanci e numero degli associati non dappertutto sono trasparenti.   Ha ragione Renato Brunetta che, al Meeting di Rimini, ha sostenuto: “Una delle imprese difficili è far tornare in vita i corpi intermedi”. La crisi della rappresentanza sociale ed economica è evidente. Il peso dei sindacati tradizionali sulle questioni di fondo è relativo. La loro capacità di mobilitazione nelle singole imprese è  localizzato in alcuni settori a macchia di leopardo.

La rappresenta datoriale è, di fatto, su un binario morto. La recente elezione di Emanuele Orsini in Confindustria è passata quasi inosservata. In Confcommercio rischia di fare più notizia la  polemica sull’età del suo Presidente o la sua volontà di ottenere un altro mandato che le proposte  sui temi del terziario e dell’economia. Altre organizzazioni datoriali fanno da tappezzeria. Qualche modesto pezzo sui media  in occasione di avvenimenti di settore o interviste dei loro presidenti rivolte più alle dinamiche associative  dei rispettivi mondi che tese ad affrontare i nodi veri del Paese che sembra ricambiare, sempre più disinteressato al loro agire. Alla politica che conta in fondo va bene così.

L’unica confederazione che ha anticipato la fase che vede in campo il Governo di centro destra muovendosi quasi in simbiosi, può piacere o meno,  è stata Coldiretti. Si è mossa però in modo grossolano decidendo di  ingaggiare a testa bassa  uno scontro duro con Confagricoltura (e Confindustria/Unionfood)  ed è anch’essa ormai accompagnata dalle critiche di chi ne sottolinea più la volontà di salvaguardare le sue prerogative e il suo potere che l’effettiva volontà di affrontare i problemi del comparto. Un associazionismo per alcuni, complessivamente  in panchina, per altri, in grande ritardo.

Se poi passiamo alla Grande Distribuzione l’offerta associativa è decisamente sovrabbondante. Abbiamo ben quattro organizzazioni  che ne rivendicano, in tutto o in parte, la rappresentanza o la leadership autonoma sul merito delle questioni di fondo. Tutte firmatarie di contratti nazionali. Due, pur con pesi diversi, sono di rango confederale: Confcommercio e Confesercenti. A livello associativo abbiamo Federdistribuzione e ANCC-Coop. Ci sarebbe anche ANCD-Conad ma, essendo quest’ultima anche in Confcommercio la considero parte del sistema di piazza Belli. Non conto Confimprese ma qualche realtà del comparto c’è anche lì. Amazon, per citare il convitato di pietra del comparto,  sta, in Italia, in  Conftrasporto mentre in Europa sta in Eurocommerce dove c’è tutta la GDO europea, compreso Federdistribuzione e Confcommercio. Nonostante questo la sua attività di lobby la gestisce in prima persona. 

Una fotografia che la dice lunga sulle divisioni del comparto e sull’incapacità politica di superarle. Se poi applicassimo l’interessante tabella proposta qualche tempo fa da Mario Gasbarrino per un’altro scopo ci renderemmo conto che tra le prime cinque insegne per fatturato (sfiorano il 50% della quota di mercato dell’intera GDO 2023) solo una è iscritta a Federdistribuzione (Esselunga). Coop sta per i fatti suoi, Conad è in Confcommercio. Eurospin non è iscritta a nessuna associazione così come LIDL. Queste ultime due, pur non essendo iscritte  applicano però il CCNL di Confcommercio.

Questo in estrema sintesi significa che se anziché contare i rispettivi associati in termini numerici ne considerassimo il loro effettivo peso sul mercato e la loro capacità di investimento, innovazione e iniziativa avremmo il 26,8 che applica il CCNL di Confcommercio nelle prime cinque e il 7,5 quello di Federdistribuzione. Ovviamente in Federdistribuzione convergono  anche altre realtà e le centrali di acquisto con i loro manager che raccolgono e rappresentano decine di piccole insegne però è significativa la sostanziale mancanza di tensione unitaria e il modesto impegno a favore dell’associazionismo  tra chi  ha più capacità di innovazione, investimento e iniziativa e chi (le realtà regionali o multi regionali) per risorse a disposizione deve muoversi con un passo diverso.

Se parliamo di imprenditori negli organismi dirigenti di Confesercenti non compare nessuno della Grande Distribuzione. In Confcommercio non c’è un’associazione dedicata alla GDO ma un vicepresidente è di Conad (Mauro Lusetti). Importante ma ininfluente sulle strategie confederali. In Federdistribuzione, delle prime cinque, c’è solo Esselunga (Gabriele Villa) nel comitato esecutivo. Nelle prime dieci vanno aggiunti Carrefour (Paola Accornero) e Despar (Filippo Fabbri). Quasi tutti i leader delle rispettive  insegne scelgono di delegare altri nei luoghi di decisione.  Altro elemento di debolezza. Il dato che emerge in tutta evidenza, è che le aziende che determinano le strategie vere della GDO (food) sono distribuite in diverse associazioni e l’incidenza e l’autorevolezza di queste ultime sui temi della GDO, intesa come comparto, è  così relativa.

Un esempio semplice che dimostra la difficoltà a fare sentire la propria voce unitaria ai livelli che pesano. Il recente documento sul futuro della competitività europea presentato dall’ex presidente della Bce Mario Draghi (https://search.app/M8GrfmXD3kc5YCHz9) è stato predisposto anche grazie al contributo dei più importanti  stakeholder europei e nazionali. Sono stati coinvolti 230 interlocutori individuali e associazioni. Confcommercio c’è (https://bit.ly/3MOjDZB). Non c’è né Federdistribuzione né, purtroppo, a livello europeo,  Eurocommerce che si è limitata a rilanciarlo a posteriori La voce della GDO internazionale è in parte veicolata da Business Europe (Confindustria). Quella della GDO italiana da nessuno. Questo è un dato su cui riflettere e da cui ripartire.

Le pur ottime iniziative che hanno visto una convergenza unitaria di tutte le organizzazioni di rappresentanza sul tema dell’inflazione, la minore conflittualità reciproca sui rinnovi dei CCNL e la mancanza di differenze significative tra i diversi testi, le problematiche che attraversano il settore e le ricadute sui differenti formati distributivi, i sostegni all’innovazione  anche e soprattutto per le medie e le piccole insegne dovrebbero consentire il superamento di ambizioni personali  e culture organizzative che non hanno più ragione di esistere. Per questo, a mio parere,  “marciare divisi per colpire uniti” non basta più. 

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