Grande Distribuzione e futuro del lavoro. Il progetto FINIPER

Finalmente un’altra ottima iniziativa del Gruppo Finiper che affronta il tema del rapporto tra scuola e lavoro, tra giovani e mestieri della tradizione in un settore che rischia di trovarsi molto preso in affanno nella ricerca di personale sia direttivo che nelle sue professionalità fondamentali. In altri settori del commercio tradizionale, la formazione di base ai mestieri, è coperto dalle associazioni di categoria (Confcommercio e Confesercenti) o da enti regionali. Alcuni molto qualificati. Soprattutto dopo il tramonto delle scuole civiche di macelleria e altro, o legate ad un ruolo locale degli istituti tecnici legati  all’industria alimentare. Restano gli istituti alberghieri E poco più.

Le scuole di Confcommercio che conosco molto bene svolgono un ruolo fondamentale per le attività del commercio tradizionale e non solo. Mi meraviglio che Federdistribuzione, Conad e Coop (con Confcommercio) non abbiano mai pensato di mettersi insieme almeno sulle attività formative limitandosi a giocare ciascuno nel proprio campo da gioco anche laddove soffrono di problemi comuni difficilmente risolvibili ciascuno a casa propria. Eppure laddove serve fare massa critica (welfare sanitario e previdenziale) qualche sforzo comune è stato fatto. Confimprese stessa che sta provando un progetto simile a quello di LIDL ma fatica (credo) per la difficoltà a far condividere progetti che prevedono impegni economici condivisi alle imprese associate.

Bene ha fatto quindi LIDL, benissimo Finiper. Sarà un caso ma sono entrambe fuori dalle associazioni di categoria. E questo dovrebbe far riflettere chi lavora per ricomporre le fratture presenti. Il Gruppo Finiper è, tra  l’altro, in movimento su diversi versanti (innovazione grande superfici, rilancio Viaggiator Goloso e UNES, accordo con Cortilia, acquisizione Giannasi, ecc.). “Iper La grande i” (22 punti vendita in 4 regioni, nato nel 1974 ad opera dell’imprenditore Marco Brunelli) una delle più importanti realtà nel panorama nazionale della Grande Distribuzione Organizzata e parte del Gruppo Finiper Canova, presenta Mestieri in Crescita. Il progetto ha già visto l’avvio dei corsi di macelleria e pasticceria, partiti rispettivamente a giugno e ottobre 2024. A novembre, prenderà il via la 2° edizione del corso di macelleria e nei prossimi mesi l’offerta formativa si amplierà ulteriormente con l’apertura di nuovi percorsi dedicati ad altri reparti dei freschi tradizionali.

Parto dal cuore dello  scambio, molto importante, tra azienda e partecipante al corso: l’assunzione diretta con l’azienda sin dal primo giorno di formazione per offrire l’opportunità concreta di entrare nel mondo del lavoro e ricevere da subito una retribuzione (il programma garantisce un percorso concreto e retribuito a tutti i partecipanti, con l’assunzione diretta in azienda (Tempo Determinato) sin dal primo giorno e la possibilità di un consolidamento della posizione lavorativa al termine del progetto formativo (Tempo Indeterminato). In tempi di superficialità dei contratti nazionali applicati, di part time obbligatorio e di lavoro povero, è un’iniziativa da sottolineare a prescindere. Il mondo del lavoro (anche povero) nell’era della crisi demografica dovrà gestire flussi migratori lavorando anche con i Paesi di provenienza,  gestire il rapporto tra scuola e lavoro, imparare a fare i conti con una forte mobilità del lavoro e gestire una maggiore anzianità lavorativa, fornire risposte economiche innovative ed adeguate e trovare anche soluzioni abitative soprattutto in luoghi dove il costo degli affitti e della vita rischia di essere fuori portata per molti. Spero la GDO lo capisca per tempo e si muova sollecitando riflessioni collettive più che risposte tattiche nelle singole aziende. Leggi tutto “Grande Distribuzione e futuro del lavoro. Il progetto FINIPER”

Sostenibilità, proteine vegetali e Grande Distribuzione. Chi tira la volata in Europa

Da tempo, in Europa si discute sulla necessità di diminuire l’utilizzo delle proteine animali per incrementare quelle  vegetali. Sicuramente, la guerra in Ucraina e i rischi legati alla sicurezza alimentare hanno contribuito a rafforzare l’idea di una strategia da coniugare agli obiettivi del Green Deal. La sostenibilità ambientale in agricoltura si fa quindi sempre  più importante per ridurre le emissioni di gas serra nel medio e nel lungo periodo. Una transizione di massa è però ancora lontana.

Secondo uno studio di Madre Brava, mentre ciascuno dei 15 maggiori supermercati europei ha fissato degli obiettivi per ridurre le emissioni derivanti dalle vendite di prodotti alimentari, solo cinque si sono impegnati ad aumentare le vendite di proteine vegetali. Nella GDO sono Lidl e Ahold Delhaize in gara per diventare i primi rivenditori al mondo ad allineare le vendite di proteine agli obiettivi climatici. Albert Heijn, una sussidiaria di Ahold Delhaize, ha deciso di portare  al 60% di tutte le vendite di proteine vegetali entro il 2030, come parte di un impegno più ampio da parte dei rivenditori olandesi. Uno degli elementi a vantaggio di Lidl e Ahold Delhaize è il fatto che hanno sede in paesi da tempo  “in prima linea nella transizione proteica a livello globale”, afferma Nico Muzi Managing Director a Madre Brava.

C’è poi l’imperativo climatico. “Dato che carne e latticini sono le maggiori fonti di emissioni nelle attività di un supermercato, gli obiettivi per riequilibrare le vendite di proteine sono una mossa fondamentale anche per raggiungere gli obiettivi climatici net zero”, spiega. Anche Aldi Nord, che opera nella Germania settentrionale, orientale e occidentale e in altri sette paesi dell’UE, proprietaria  di Trader Joe’s negli Stati Uniti, si è impegnata a raggiungere un obiettivo di transizione proteica 60/40 entro il 2030, ma solo nei Paesi Bassi. Altrove, Carrefour e Tesco hanno fissato degli obiettivi per aumentare le vendite di prodotti vegetali, ma senza mirare necessariamente a una riduzione dei prodotti animali.

Sotto questo aspetto è necessaria una certa cautela per evitare che le coltivazioni e gli allevamenti vengano delocalizzati fuori il mercato unico europeo, dove gli standard ambientali e di salute e sicurezza sono meno stringenti – altrimenti si rischia  comunque di vanificare comunque gli obiettivi green. In effetti, i Paesi Bassi sono in prima linea in questo movimento, con 11 supermercati locali che si sono impegnati a raggiungere un obiettivo 60/40 entro il 2030. Oltre ad Albert Heijn e Lidl, tra questi figurano anche Aldi Nord, Jumbo e Plus, tra gli altri. L’aumento della domanda di alimenti di origine vegetale ha portato anche a una riduzione degli acquisti di prodotti di origine animale: le vendite di carne sono diminuite del 16,4% nei supermercati olandesi dal 2020 al 2023. Leggi tutto “Sostenibilità, proteine vegetali e Grande Distribuzione. Chi tira la volata in Europa”

Alla fine dei giochi, vincerà il low cost?

Mentre da noi la discussione prevalente ruota intorno alla futura quota destinata ad essere occupata dai discount, della lenta avanza dell’online, dalla crescita degli specializzati  e dalla capacità di risposta della grande distribuzione tradizionale, altrove si stanno ponendo problemi più sistemici. Il punto è capire dove stiamo andando. Certo l’Italia ha le sue specificità soprattutto se parliamo di consumi alimentari però ci sono segnali inequivocabili che il futuro del commercio in generale e della grande distribuzione in particolare saranno caratterizzati in buona parte dal low cost inteso a 360° (lavoro, gestione punto vendita, back office, prezzi, ecc.).

Invecchiamento e difficoltà  della popolazione locale, immigrazioni da Paesi poveri, concorrenza delle piattaforme cinesi spingono i grandi player internazionali a serrare le fila e a ripensare al loro futuro. Questo non significa che non esisterà spazio per nicchie di popolazione, più o meno grandi, dove resterà una capacità di spesa importante ma è bastato il campanello dell’inflazione e delle tensioni geopolitiche per far comprendere che la “ricreazione è finita” e che nulla tornerà come prima. Ma è chiaro che, soprattutto il commercio tradizionale generalista, dovrà farci i conti.

Gli USA, sotto questi aspetti,  sono ritornati ad essere una delle grandi aree di sperimentazione.  Vuoi perché lì i modelli di consumismo sono arrivati all’estremo possibile, vuoi perché resta un Paese di grandi differenze territoriali e culturali, quindi di contraddizioni sociali evidenti. Senza sottovalutare che, anche  nell’altro grande contendente, la Cina, destinato sempre più ad essere il principale competitor mondiale, nascono idee, sperimentazioni, innovazioni  tecnologiche applicate al commercio, alle piattaforme (TikTok, Temu, Alibaba per citare le più note) e strategie di esportazione che  contribuiscono a cambiare gli scenari nel lungo periodo.

I 30 maggiori produttori cinesi di videogiochi rappresentano il 18% delle vendite globali del settore al di fuori della Cina. Le app di e-commerce collegate alla Cina hanno avuto un successo simile. Si ritiene che Shein, che vende vestiti economici, principalmente agli americani, abbia venduto capi di abbigliamento per un valore di decine di miliardi di dollari l’anno scorso. Temu, che ha sede a Boston ma è di proprietà del gigante cinese  Pdd Holding (che controlla anche Pinduoduo, piattaforma cinese per la vendita online di prodotti a basso prezzo, che ha raggiunto un utile netto circa 4 miliardi di euro e il fatturato è salito a quasi 12 miliardi di euro).

La risposta di Amazon, non si è fatta attendere.  È così, dopo “Amazon Saver” sui prodotti alimentari essenziali a basso costo, è arrivato “Haul”. Per ora in beta test negli USA. Per i boomer come il sottoscritto, “Haul” nel gergo social significa, più o meno, fare bottino (a prezzi stracciati) di vestiti o altro in rete. Il gigante di Seattle  gli ha dedicato una sezione di shopping della sua app e del suo sito con una selezione di proposte al prezzo inferiore a 20 dollari, “con la maggior parte inferiore a 10 dollari” e alcuni a partire addirittura da 1 dollaro. Gli sconti maturano man mano che gli ordini crescono. Mentre l’assortimento di questi articoli a basso prezzo abbraccia categorie, tra cui moda, casa, stile di vita, elettronica e altro, per questi ordini Amazon si è dovuta allontanare per forza dal suo modello di consegna rapida, indicando, per “prodotti con prezzi ultra bassi” da una a due settimane.

L’esperimento è ovviamente una risposta a Temu e ad altri mercati cinesi in rapida crescita. Amazon più che la concorrenza nei negozi fisici deve stare attenta ai nuovi arrivi in rete e quindi  decide di correre il rischio di vedersi  cannibalizzare le altre sue vendite, ritenendolo comunque preferibile alla perdita di quote per l’incalzare di questi concorrenti. Ricerche recenti mostrano che i consumatori statunitensi confermano  di fidarsi di più di Amazon rispetto a Temu, ma che stanno comunque facendo sempre più acquisti su Temu. Circa il 17,5% degli intervistati globali a un sondaggio della società di software di marketing Omnisend ha dichiarato di pensare che il sito cinese potrebbe addirittura superare Amazon come piattaforma di e-commerce leader. Leggi tutto “Alla fine dei giochi, vincerà il low cost?”

Chiude a Venezia il Fondaco dei Tedeschi

Il giorno dell’inaugurazione del Fondaco dei Tedeschi, nel 2016 a Venezia,  c’ero. Il palazzo il cui nome deriva dal rapporto che  le popolazioni di lingua tedesca avevano con Venezia è affacciato sul Canal Grande vicinissimo al Ponte di Rialto visibile dalla spettacolare terrazza. Mi aveva invitato Roberto Meneghesso un ex collega e amico dei tempi di Rewe Italia AD di DFS Italia che lo aveva costruito pezzo per pezzo, scegliendo persona per persona, partendo da un progetto sulla carta. Ci aveva messo l’anima. Il 29 settembre non stava più nella pelle quando annunciava con le chiavi in mano: “È un privilegio e una grande responsabilità essere qui” con al suo fianco l’architetto Alberto Torsello e l’ingegnere Federico Zaggia. Roberto è sempre stato così. Dove è stato ha sempre trasmesso entusiasmo e determinazione a tutte le squadre che gli sono state affidate. Stanchissimo per le problematiche incontrate nel totale rispetto dei luoghi che hanno preso il sopravvento sulla parte commerciale. Felice per averle superate. Certo di poter rappresentare un volano per l’economia cittadina. Era la persona giusta al posto giusto.

C’ero anche il giorno che ha lasciato. Fosse dipeso da lui non l’avrebbe mai fatto. I progetti del Gruppo prevedevano accelerazioni impossibili in quel contesto. Lì ho capito subito che il management del Gruppo francese Louis Vuitton Moët Hennessy (LVMH) del miliardario Bernard Arnault e di  DFS la loro società di gestione non avevano compreso la complessità della sfida che loro stessi avevano lanciato, i tempi necessari per il successo dell’iniziativa per dove era collocata, gli uomini necessari per realizzarli. E questo al di là delle vicissitudini di contesto che l’hanno accompagnato in tutti questi anni.

Sono passati diversi anni da quel giorno e oggi leggo che il Fondaco dei Tedeschi, in gestione ad un gruppo francese con sede a Hong Kong, chiude. “Dopo un’attenta valutazione, il Gruppo Dfs ha deciso di chiudere le attività commerciali presso il Fondaco dei Tedeschi a Venezia e di non rinnovare il contratto di locazione, che scadrà a settembre 2025”, queste le parole del Gruppo Dfs nella nota emanata alla stampa che giustifica la difficile decisione imputando la colpa “alla situazione e alle prospettive economiche molto critiche che Dfs e il settore del travel retail stanno affrontando a livello globale e, in particolare, dai risultati negativi del negozio di Venezia”.

Il Comune ha comunicato “di non aver ricevuto alcun tipo di preavviso, altrimenti come amministrazione comunale ci saremmo adoperati per individuare, insieme a tutti i soggetti coinvolti, possibili percorsi alternativi e diversi da una così drastica soluzione. Stiamo parlando di lavoratori, di famiglie e non di numeri”. L’assessore regionale al lavoro, Valeria Mantovan, ha confermato: “Abbiamo ricevuto la comunicazione di apertura di una procedura di licenziamento collettivo”. Leggi tutto “Chiude a Venezia il Fondaco dei Tedeschi”

Lo sciopero generale del 29 novembre. Le conseguenze inevitabili sul sindacalismo confederale

C’è qualcosa  di profondamente diverso e preoccupante nella stagione sindacale  che arriva. La divisione del sindacalismo di matrice confederale porta inevitabilmente con sé due effetti.  Da un lato rischia di spingere  CGIL e UIL nel campo presidiato dai sindacati di base, tutt’altro che marginali in alcuni settori e, dall’altro ripropone la necessità di certificare la rappresentatività delle organizzazioni sindacali che rischia di coinvolgere anche le singole categorie e quindi le dinamiche dei futuri rinnovi dei CCNL. 

Maurizio Landini ha evocato addirittura la necessità di una  “rivolta sociale”. Rivolte che, come la Francia a volte ci mostra, nascono generalmente dal basso, dalle contraddizioni sociali  senza essere annunciate, evocate o previste dall’alto come in questo caso. Il 29 novembre ci sarà una verifica non tanto del malessere presente nel mondo del lavoro che è evidente ma della capacità di interpretarlo da chi ha proposto la mobilitazione a partire  dalla partecipazione dei diretti interessati, i lavoratori dipendenti,  allo sciopero generale di otto ore indetto da CGIL e UIL (la CISL non ha aderito).

Contemporaneamente si è messa in movimento anche la galassia del sindacalismo di base, Cub, Sgb, AdL Cobas, Confederazione Cobas, Clap, Sial Cobas, presenti nei servizi, nel pubblico impiego, nei trasporti  e nella logistica, che ha anch’essa  indetto lo sciopero generale per l’intera giornata del 29 novembre contro la manovra e la politica socio-economica del Governo. Ovviamente quest’area prova ad alzare la posta puntando a  far emergere le contraddizioni presenti nel sindacalismo confederale non volendo delegare loro la protesta sociale e la decisione sulla prosecuzione delle iniziative dopo lo sciopero.

Come ho già scritto, più che la roboante dichiarazione in sé, preoccupa la deriva imboccata dalle due sigle del sindacalismo confederale. Che ci stiamo dirigendo più o meno consapevolmente verso il rischio di una pericolosa lacerazione del tessuto sociale mi sembra evidente. Aumento dell’area della  povertà, preoccupazioni per il futuro che lambiscono anche il ceto medio, crisi del welfare state, sono sotto gli occhi di tutti. Mi lascia però perplesso la convinzione di Landini che sia necessario evocare la rivolta sociale e che  lui e Bombardieri possano presentarsi come i possibili interpreti.

Affermare ad esempio che i salari sono fermi da qualche decennio e la precarietà nel mondo del lavoro è una costante, risponde al vero ma è difficile addebitarla a questo Governo e non ad una serie di ragioni e responsabilità che risalgono nel tempo. O che esistano scorciatoie per risolverla e soluzioni semplici a portata di mano. E queste responsabilità non esonerano né i governi precedenti né gli stessi Sindacati confederali che in questi decenni non erano su Marte. Difficile quindi chiamarsi fuori.
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Il turn over (elevato) in GDO come indice di insoddisfazione…

Come giustamente ricorda Francesco Seghezzi: “In Italia c’è una crisi dell’offerta di lavoro, che peggiorerà nei prossimi anni a causa delle trasformazioni demografiche. Ma allo stesso tempo è il secondo paese in Europa per numero di persone che potrebbero lavorare e non lo fanno perché disoccupati o inattivi. In particolare abbiamo la quota più alta di inattivi che si dichiarano “disponibili a lavorare ma che non cercano attivamente lavoro”. Una categoria particolare, che potrebbe sembrare paradossale, ma che dice molto del nostro mercato del lavoro, tra lavoro nero, frammentazione, scoraggiamento” .

Se poi passiamo dal mercato del lavoro alle aziende, c’è un indicatore che spiega, più di molti altri, il clima  ben al di là dei dei premi ufficiali che difficilmente scavano nelle viscere di un’impresa e delle indagini interne spesso costruite sui desideri dei top manager. È il turn over dei dipendenti. Lasciare un’azienda spesso è sintomo di una sconfitta reciproca. Per il collaboratore che cerca altrove ciò che non è riuscito a trovare dopo aver investito tempo e impegno ma anche per l’azienda perché perdere risorse umane  sulle quali si è investito, non solo i cosiddetti “talenti”, ha un costo enorme per le imprese. 

Trattenere e coinvolgere I propri collaboratori e i lavoratori in genere è quindi sempre più importante. Soprattutto in tempi di difficoltà nel reperimento di  risorse.  L’Italia, pur in cambiamento, è oggi il Paese in testa alla classifica per il tempo medio più lungo trascorso presso lo stesso datore di lavoro con 12,2 anni. Difficile però che questo dato si confermi con l’avvento delle  nuove generazioni. Seguono Francia, Germania, Spagna, Danimarca, Regno Unito) secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE). La media del turn over cresce dall’8,2% del 2021 al 13,3% del 2022.  Colpisce il dato recente del 35% il turnover di Esselunga, ma riguarda soprattutto dipendenti giovani maschi con meno di 30 anni.

Poche insegne forniscono i dati. Nella distribuzione moderna italiana è sempre più difficile attrarre risorse per i modelli organizzativi proposti e l’impegno temporale richiesto. Si rischia che, i più giovani, considerino questo lavoro di passaggio  verso altre realtà. Un dato su cui riflettere. In Europa Tesco tre anni fa era vicino al 30% di turn over. Ora  è appena al di sotto della media del settore, intorno al 35%. Carrefour a livello mondo dichiara il 25%. Il tasso di turn over del lavoro a livello complessivo, in Germania, oscilla tra il 25 e il 30% Nel Gruppo Rewe dal 19 al 25% (2022). Mercadona in Spagna fa eccezione: si attesterebbe intorno al 2%. Un altro dato su cui riflettere.

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Amazon USA. Nel food deve uscire dall’angolo…

La maggior parte delle operazioni di M&A si incagliano quasi sempre sulla necessità di allineare le diverse culture presenti in chi acquisisce e in chi è acquisito. Nel caso di Amazon e Whole Foods già nel 2017 era chiaro che le difficoltà sarebbero state molto forti . Entrambe le aziende erano dotate di una forte personalità organizzativa con un punto in comune: l’”ossessione” per il cliente visto però da due prospettive molto diverse tra di loro. La prima punta a raggiungerlo e soddisfarlo attraverso la tecnologia e il servizio. La seconda blandendolo con un’esasperata ricerca della qualità del prodotto offerto nel negozio fisico.  In altre parole l’obiettivo dell’acquisizione era mettere insieme il meglio di entrambi i campi. Facile da teorizzare, difficile da mettere a terra.

Andy Jassy, subentrato da poco a Jeff Besoz e proveniente da AWS, il cuore del sistema Amazon, ci ha messo poco a capire che, le due culture altrettanto forti e vincenti nei loro campi d’azione, non avrebbero legato facilmente. Inoltre Jassy doveva anche venire a capo di Amazon Fresh lanciato nel 2007 a Seattle senza grande successo, rilanciato nel 2019, uscito alla grande  dalla pandemia,  ma ancora alla ricerca di una sua vera identità nell’eco sistema  Amazon. Whole Foods, da parte sua, aveva un imprinting troppo forte. Un portato della cultura e del profilo del suo fondatore Jack Makey un personaggio particolare con un grande fiuto per gli affari che ha compreso tra i primi che il biologico avrebbe potuto  diventare un business importante negli USA. L’azienda è cresciuta  lentamente e con fatica fino ai primi anni 90 quando il biologico è esploso. Whole Food si è allargata  così a ovest, in California, e poi è sbarcata a New York. I negozi Whool Foods sono diventati dei templi del bio, pieni di cibi organic, local, vegani, alimenti ispirati dalle diete ‘paleo’, amatissime dalle celebrità Usa, e basate su prodotti freschi, antiossidanti e antinfiammatori. Ma il rovescio della medaglia è che i prezzi sono sempre stati alti. “La qualità richiede che le cose costino, anche tanto”, ripeteva  spesso lo stesso Mackey.

Acquisita l’azienda, messo alla porta Mackey, per evitare traumi organizzavi viene nominato CEO Jason Buechel che in quella cultura è cresciuto ma che non conosce le dinamiche competitive della  grande distribuzione. Whole Foods non compete con Walmart e compagnia. Anzi, per certi versi ne condivide i i clienti che, dopo gli acquisti bio vanno altrove a cercare coca cola e hamburger per i figli..  Jassy allora tenta la mossa del cavallo. L’obiettivo di Amazon  era ed è quello di costruire un’esperienza di acquisto  best-in-class, diventando la prima scelta per selezione, valore e convenienza. Insieme a Doug Herrington CEO World Wide Amazon Stores decidono di chiamare  Tony Hoggett da Tesco. Uno dei migliori su piazza con un percorso professionale adatto alla sfida. Hoggett arriva portando con sé Claire Peters da Woolworths supermarket (prima in Tesco) e il direttore della vendita al dettaglio di Boots e anch’esso veterano di Tesco, Peter Bowery.

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Conad e Selex. Il derby d’Italia

Se togliamo le multinazionali e i discount, che per ora, fanno gara a sé, e ci concentriamo sui  top manager veri protagonisti della competizione, non stiamo solo parlando d un testa a testa tra fatturati, volumi e margini di due realtà pur differenti  che si misurano tra di loro. Stiamo anche parlando di due tra i migliori top  manager, non dipendenti da un singolo imprenditore. D’altra parte i manager non sono tutti uguali. Ognuno può dire la sua nel range dimensionale nel quale è abituato ad operare. Le alte quote sono per pochi. Anche in GDO. Ciascuno dei nostri due protagonisti potrebbe essere tranquillamente seduto al posto dell’altro. E, come sappiamo qualcuno, tempo fa,  ci ha pure pensato.  E questo è un dato che li differenzia da tutti gli altri.

Sarà un caso ma uno è interista e l’altro è juventino. Conoscono a fondo le realtà in cui operano. Entrambi vantano  anche esperienze professionali fuori dal settore. E questo è un bene. Maniele Tasca (Gruppo Bolton, Boston Consulting Group e Bain & Company, Gruppo Alpitour) dal 2009 General Manager SELEX Gruppo Commerciale S.p.A. Francesco Avanzini (Aia, Barilla, Arena, Unichips e Gruppo Fini). Dal 2009 prima Direttore Commerciale in Conad poi Direttore Generale Operativo, e, da poco,  Direttore Generale, guidando tutte le attività di business del Consorzio Nazionale. Sanno che la classifica che li vede protagonisti e che sottolineano o minimizzano, a seconda delle circostanze, è un modo come un altro per dimostrare  innanzitutto il loro lavoro e ciò che hanno saputo costruire o difendere.

Avanzini, classe 1963, è poi un vero interista. Conosce le sue capacità ma sa anche che, deve fare i conti con le bizze della sua squadra (di calcio). Campioni che a volte sottovalutano la forza dell’unità.  Anche Conad rischia di essere un po’  così. Grande capacità di movimento nelle singole cooperative ma difficoltà a concentrarsi e spendersi insieme nel gioco di squadra.  Avanzini è una persona per bene. È come Inzaghi dopo Conte. Per lui non basta garantire  i risultati. Ad ogni passo l’ombra del paragone con il predecessore lo accompagna. E sarà così ancora per lungo tempo. Per Avanzini però parla il CV. Dove è stato ha sempre fatto bene.  Forse sbaglia nei convegni a terrorizzare  i  suoi buyer bolognesi spaventandoli con l’imminente arrivo al loro posto dell’intelligenza artificiale o quando  insiste a presentarsi con  un profilo manageriale prescrittivo.  Ha un compito difficile. Come Inzaghi appunto. Ad Avanzini basterebbe imporre il suo originale stile di leadership per guidare sereno il Consorzio. Ha tutti i fondamentali per riuscirci. È il migliore  della compagnia. Deve solo crederci fino in fondo. Sotto di lui, tra l’altro,  stanno crescendo giovani leoni. Conad può contare a Bologna e nelle cooperative su profili manageriali interessanti per il suo futuro come Massimo  Lucentini, Francesco Cicognola, Alessandra Corsi, Nicola Webber, Matteo Capelli, Valentino Colantuono. Solo per citare quelli  a me più noti. Tutti in grado di garantire al consorzio un futuro di successi. Una grande realtà si misura anche su questo. Sono le performance della squadra che segnalano il vantaggio. Giocano insieme da una vita. Il primo, Avanzini, anche per il livello complessivo della sua squadra,  può dichiarare di competere in  Champion mentre il secondo dovrà, per ora, accontentarsi del campionato.

Sull’altra sponda Maniele Tasca, classe 1968, juventino. Niente di più diverso dal primo. Molto preparato, deciso, lungimirante. Bravo a coinvolgere l’interlocutore e a trascinare  una squadra di imprenditori da cui è stimato.  Ne deve gestire molti più del primo. A giudizio di molti è il migliore top manager del comparto. Anzi alcuni  si interrogano su cosa lo trattenga in Selex. Mi piace immaginare che,  nella sua testa, coltivi un sogno. Trasformare Selex in qualcosa di più di una centrale. Forse un punto di arrivo per l’intera compagine.  Sarebbe una svolta. Un punto di riferimento per l’intero settore. La trasformazione di quello che già oggi è già un “signor” bruco in farfalla. La stessa pubblicità, in fondo,  insiste sul ruolo protagonista dell’insegna  Selex. Tasca, più che Motta,  mi ricorda  l’ex juventino Conte.  Sa però che non può fare la Champion. Tutte le centrali, così come sono oggi, mostrano un limite strutturale. Ma se c’è un top manager che può portare Selex un passo alla volta nel futuro del retail questo è Tasca. È però pronto per nuove sfide. Da DHR lo vedrei bene in Esselunga quando Giuliana Albera e Marina  Caprotti decideranno quale dovrà essere  il futuro della loro azienda.
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Tempo di primi bilanci al “REWE fully plant-based” di Berlino

Il primo novembre si è festeggiato la Giornata Mondiale del Veganismo e Rewe ha colto l’occasione per tracciare un primo bilancio dell’apertura, a marzo 2024, a Berlino, del suo primo e nuovo supermercato vegano . Sono passati più o meno sei mesi ed è tempo per  una prima verifica. Già prima del passaggio a Rewe era comunque un supermercato vegano gestito da Veganz. “È ancora presto per decidere l’espansione in altre realtà del modello” ha affermato Peter Maly, membro del consiglio di amministrazione del gruppo REWE. Sei mesi dopo l’apertura, però Peter Maly si dimostra soddisfatto per i risultati  del negozio. “Lanciare un negozio puramente vegetale nel mercato di oggi è stata una decisione coraggiosa, ma eravamo fiduciosi nella nostra competenza e nell’esperienza dei prodotti vegani dalla gestione di oltre 3.800 negozi in tutta la Germania”.

I dati  confermano che l’idea di un retailer a base vegetale con una gamma completa può funzionare se collocato nella giusta posizione. “Va inoltre  considerato che  le nostre sedi REWE a livello nazionale beneficiano così di prodotti testati per la prima volta nel “REWE voll pflanzlich” (completamente vegetale) prima di essere aggiunti alla più ampia gamma di prodotti REWE”. I dati sono comunque interessanti Con oltre 2.700 prodotti vegani in uno spazio di 212 metri quadrati, il negozio offre verdure fresche, prodotti da forno, articoli refrigerati, dolci e cura della persona ed è frequentato da 5500 clienti alla settimana che possono contare su orari  prolungati fino alle 23.

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Amazon USA. Un altro top manager lascia Seattle…

Non esistono top manager adatti a tutte le stagioni. Così come non esistono persone indispensabili. Certi “addii” sono più pesanti di altri  ma la vita continua. Non esistono però, CEO fotocopia. Se un top manager lascia o viene sostituito l’azienda deve mettere in conto che ne risentiranno strategie e traiettorie del business.  Amazon è una realtà importante e in grado di reagire con tempestività all’uscita di due top manager di primo livello. Beth Galetti, SVP, People eXperience and Technology di Amazon insieme al CEO Andy Jassy saranno già al lavoro perché non solo Tony Hoggett SVP Worldwide Grocery Stores ha lasciato. Anche Matt Wood, vicepresidente di Amazon Web Services e storico promotore delle iniziative di apprendimento automatico e intelligenza artificiale del gigante del cloud, ha lasciato l’azienda dopo 15 anni. Wood ha annunciato la sua uscita da Amazon in un post su LinkedIn mercoledì mattina. Un portavoce di Amazon ha confermato la sua partenza a GeekWire.

Non si sa ancora nulla sul successore di Wood. Così come non si sa ancora nulla sul successore di Hoggett. Due casi diversi tra di loro e probabilmente nemmeno collegati ma entrambi i top manager alla testa di due settori nevralgici per il gigante di Seattle. Pur sotto lo stesso tetto sono realtà agli  antipodi. AWS è una “macchina” da soldi . Grande punto di forza di Amazon. Il retail fisico, al contrario,  è il suo punto di debolezza; una “macchina” che deve trovare il suo equilibrio. Sia Hoggett che Wood sono già al lavoro altrove. 

Partiamo da Wood che è US & Global Commercial Technology and Innovation Officer at PwC. Wood in Amazon AWS è stato coinvolto nelle iniziative di machine learning e business intelligence di Amazon per molti anni, molto prima dell’ascesa dell’intelligenza artificiale generativa. È diventato VP of AI di AWS a settembre 2022, appena prima che ChatGPT di OpenAI mostrasse il potenziale dell’intelligenza artificiale generativa, spingendo AWS e altri a darsi da fare per recuperare terreno. Più di recente, Wood è stato coinvolto nel lancio di Amazon Q, l’assistente AI generativo dell’azienda per la business intelligence e lo sviluppo di software. “Dopo 15 anni incredibili, è tempo per me di dire addio ad Amazon”, ha detto Wood nel post su LinkedIn mercoledì mattina, che ha generato centinaia di commenti.

Dall’altra  parte se dovessi scrivere un romanzo sulla vita di un top manager della grande distribuzione mondiale sceglierei proprio Tony Hoggett. Da noi forse solo  Maura Latini AD di  Coop Italia può vantare un percorso simile seppure circoscritto al nostro Paese. Tony ha iniziato come “trolley boy” in un parcheggio Tesco a Bridlington, ha fatto  30 anni in Tesco ed era uno dei suoi migliori manager. Quando Hoggett è entrato in Amazon ha detto:  “Amazon mi ha offerto una sfida. Il punto di incontro tra qualcosa che amo e mi piace davvero, qualcosa in cui penso che sarò bravo e qualcosa di cui il mondo del retail ha bisogno”. Leggi tutto “Amazon USA. Un altro top manager lascia Seattle…”