500 progetti, 56 casi approfonditi, un rapporto pubblicato da Italia Camp, Luiss e Ceriis per valutare come si stanno sviluppando i nuovi modelli di innovazione sociale nel nostro Paese e chi li promuove. Un tema di grande interesse alla luce delle opportunità offerte dalla nuova legge di stabilità, dalle opportunità offerte dal welfare contrattuale e dalle evoluzioni in atto in qualche regione.
L’industria del futuro da “la fabrique de l’industrie”
Depuis le lancement en septembre 2013 du 34ème plan « Usine du futur » par le ministre du Redressement productif Arnaud Montebourg – aujourd’hui réorganisé en « Industrie du futur » -, cette notion s’est largement diffusée auprès des acteurs publics et industriels, jusqu’à être perçue aujourd’hui comme une source majeure de gains de compétitivité et d’attractivité pour l’industrie.
Millenials nel mondo: valori, idee e priorità dei futuri leaders
cosa pensano, cosa vogliono e come vedono il lavoro i giovani destinati a guidare e vivere le imprese di domani….
Finanza etica: parliamone. Da Bene comune.it
E’ un’espressione che unisce due concetti diversi. L’etica, che si occupa del rapporto tra realtà e persona, nella sua dimensione sia individuale che sociale, e la finanza che si occupa di valori. Questi però non si concretizzano in norme morali ma in azioni orientate al reperimento di capitali e al loro investimento. Questi due concetti, se tenuti distanti, generano o un certo snobismo verso il denaro o un uso disinvolto delle risorse. Oggi invece i due termini sono accostati da autorevoli economisti e l’espressione è ormai adottata dalle maggiori istituzioni internazionali.
Ponti e non muri. La parola a Leonardo Boff
Dove stiamo andando? Nella civilissima Svezia e in tutto il nord Europa i migranti vengono presi a bastonate. Intorno a noi si sentono inequivocabili segnali di guerra e, dentro i nostri Paesi, cresce la paura e l’insicurezza. Leonardo Boff ci suggerisce, con una parabola, un’altra strada. È la stessa che ci propone Papa Francesco: costruire ponti. Tra di noi, tra le diverse nazioni, tra i popoli. Non lasciamo che siano gli altri a decidere per noi è per il nostro futuro. Il contributo di Leonardo Boff
Industry 4.0 e relazioni industriali.
- il bollettino ADAPT raccoglie un interessante contributo di Francesco Seghezzi accompagnato da altre importanti riflessioni sul tema Industry 4.0 lavoro e relazioni industriali. Un tema di grande attualità che cambia la prospettiva del lavoro e, di conseguenza, impone un salto di qualità a tutti coloro che se ne occupano. Se vuoi approfondire il tema, clicca qui.
Cosa significa il termine Jobs act?
Tutti ne parlano, spesso storpiando la pronuncia, il termine “Jobs act” è entrato di prepotenza nelle discussioni di chi si occupa di lavoro e relazioni sindacali. Perché Renzi lo ha utilizzato e perché il suo significato originale è diverso da quello che gli abbiamo dato noi lo vediamo in questo contributo.
Industry 4.0: un’occasione per discutere di nuove relazioni industriali.
Un recente studio curato dalla Fondazione Symbola e CNA dimostra che l’Italia è il secondo Paese in Europa per numero di aziende dove, negli ultimi tre anni, sono state introdotte innovazioni di processo e di prodotto. Di queste, più dell’80% ha meno di 50 dipendenti. Se aggiungiamo che il 95% delle nostre imprese ha meno di 50 dipendenti e meno di dieci milioni di fatturato ci rendiamo conto che il cambio di paradigma imposto da industry 4.0 è decisamente alla portata di una platea ben più ampia della sola grande impresa manifatturiera. Nell’ultimo numero della rivista Sistemi e Impresa è stata pubblicata una survey molto interessante del laboratorio Research & innovation for Smart Enterprises (RISE) dell’Università di Brescia che indaga se e come nel nostro Paese è in corso la rivoluzione digitale in ambito manifatturiero. Settanta imprese, segmentate per dimensione, sono state valutate sotto diversi aspetti evidenziando risultati significativi. È da questa realtà in continua evoluzione che occorre partire per riflettere sull’importanza e sull’impatto di industry 4.0 sulle imprese, sulla loro organizzazione e sulla gestione delle risorse umane. Ma è anche una grande occasione di ridefinizione di una strategia sul lavoro che cambia che non può non coinvolgere anche il sistema stesso delle relazioni sindacali pena una loro definitiva marginalizzazione. Non cambia solo il luogo di lavoro, il modo stesso di lavorare o il contributo che viene richiesto al singolo lavoratore ma industry 4.0 rimette inevitabilmente in discussione tutto un complesso sistema di regole e relazioni consolidate che, avendo i suoi riferimenti passati nel fordismo, hanno sempre determinato l’estendibilità collettiva e quasi automatica di diritti, retribuzioni e inquadramenti e che, nei contratti nazionali, hanno sempre trovato, negli anni passati, una sintesi condivisa. Il vero cambiamento non sta esclusivamente nella produzione materiale: le nuove capacità messe a disposizione dall’evoluzione tecnologica si inseriscono in funzioni come le decisioni strategiche o la progettazione e in settori come il terziario, l’artigianato o il consumo finale che ne erano rimasti lontani. Sono dunque le organizzazioni che devono sempre più imparare a “pensare” in modo differente. E le organizzazioni sono composte da persone a cui viene richiesto di muoversi in modo diverso dal passato. L’agire e l’interagire tra imprenditori, manager e collaboratori diventerà sempre più strategico quanto la consapevolezza che, nella filiera, cambierà sempre di più il rapporto tra produttori, servizi, distributori e consumatori finali. Con il fordismo era, in fondo, tutto più semplice. Si trattava di fotografare e categorizzare gli “esecutori” e il contratto nazionale serviva bene allo scopo. Industry 4.0 impone, al contrario, capacità di auto-organizzazione e questo a tutti i livelli della gerarchia. Serve quindi sviluppare capacità che appartengono anche al lavoro autonomo e imprenditoriale. Saper prendere decisioni, assumersene i rischi relativi, superare vecchie logiche gerarchiche e funzionali significa investire in nuove competenze. Competenze e capacità da acquisire che abbisognano la “persona” al centro, la formazione necessaria, lo sviluppo professionale, il luogo, il tempo di lavoro e l’inevitabile coinvolgimento sui risultati e sull’andamento aziendale. Al contrario il nostro sistema contrattuale si è retto, per oltre cinquant’anni, su quattro pilastri fondamentali: l’estraneità assoluta del lavoratore dall’andamento aziendale, il lavoro dipendente a tempo indeterminato come modalità prevalente di accesso, l’inquadramento professionale inteso come scala percorribile solo in salita e un complesso di diritti e doveri (identificanti la totale subalternità del lavoratore) come sistema di valori alla base delle regole del gioco. Leggi e interpretazioni della Magistratura hanno, nel tempo, convalidato e irrigidito questo schema. Per contro la stessa cultura alla base delle principali organizzazioni aziendali nei settori industriali ma anche in molte aziende della grande distribuzione rispondevano a quella logica e quindi quei pilastri ne hanno accompagnato l’evoluzione incanalando il tutto in una liturgia sostanzialmente condivisa. La crisi e la globalizzazione hanno via via inceppato questo meccanismo restituendo, nel tempo, una “dignità” ai percorsi contrattuali che in altri comparti si erano nel frattempo sviluppati riportandoli in primo piano (vedi il terziario nelle ultime formulazioni) e promuovendo anche innovazioni legislative (vedi legge Biagi) con lo scopo sia di influenzare i diversi contratti nazionali che di mettere a disposizione delle imprese strumenti più efficaci. Infine lo strappo di Marchionne fino ad arrivare all’ultima proposta di Federmeccanica. Oggi siamo fermi qui. I pilastri (che andrebbero profondamente rivisitati) restano, tutto sommato, ancora inalterati e la discussione, anziché avvenire sui contenuti del lavoro, si limita a parlare dei livelli, dei luoghi dove il dialogo dovrebbe o potrebbe strutturarsi. Ma senza una profonda rivisitazione dei contenuti è difficile costruire nuove modalità di approccio anche se il confronto fosse portato a livello aziendale. Per questo occorrerebbe che le parti sociali si interroghino sulla “direzione di marcia”. È fondamentale che le imprese abbiano voglia e convenienza ad investire sui propri dipendenti e che questi abbiamo convenienza a investire sulla propria azienda ma anche su se stessi e sul proprio sviluppo professionale e personale. Ma se non c’è una prospettiva condivisa, se non si rimettono al centro del confronto produttività delle imprese e redditi da lavoro, formazione e politiche attive, collaborazione e condivisione dei risultati nell’impresa, non si va da nessuna parte. Poi, insieme, si vedrà cosa ha senso mantenere a livello nazionale e cosa deve essere decentrato. Un vecchio proverbio tunisino afferma:”la differenza tra un deserto e un giardino non è l’acqua ma l’uomo”. È dalla centralità della persona che occorre partire. Oggi più di ieri. Ed è questa la vera sfida se crediamo in un vero cambiamento.
Un “NO”, tutto sommato, scontato..
La scelta di presentare una proposta sindacale alla vigilia del “semestre bianco” di Confindustria e con la trattativa dei metalmeccanici che si stava aprendo su basi ben diverse, lasciava intendere che il significato politico e il valore dell’iniziativa unitaria fossero ritenuti, dagli stessi proponenti, più importante dei contenuti della proposta stessa. Il “no” di Confindustria ad accettare quei contenuti come base di discussione era tutto sommato scontato. Così come è prevedibile che a breve seguirà il “no” di Confcommercio che, da poco, ha rinnovato il più importante contratto nazionale del Paese nel quale sono state individuate soluzioni utili alle imprese e ai lavoratori con gli stessi sindacati che oggi sostengono una piattaforma la cui impostazione, di fatto, rischia di essere percepita, da parte datoriale, come un ritorno al passato. Dall’altro lato della “barricata” l’endorsement alla piattaforma della FIOM CGIL e le perplessità di Bentivogli della FIM CISL danno il segno di quanto è complesso il contesto è di come sarà difficile muoversi. Degli “attori” principali in campo mi sembra che solo Gigi Petteni, segretario confederale della Cisl, ha cercato di gettare il cuore oltre l’ostacolo individuando il confronto come un luogo dove innanzitutto condividere un “senso di marcia”, una strategia di riferimento prima di affrontare i contenuti. È chiaro a tutti che il contesto porta inevitabilmente a riflettere sui modelli di collaborazione e di condivisione tra capitale e lavoro e quindi tra manager, imprese e lavoratori. Il punto è se farlo “tra” parti sociali attraverso un nuovo modello di relazioni industriali condiviso o “nonostante” la presenza delle parti sociali. In altri termini la domanda di fondo è se prevarrà un sistema dove i corpi intermedi si impegnano a giocare un nuovo ruolo o, di fatto, accettino di essere condannati alla irrilevanza scavalcati da forme di “collaborazione costruttiva” definite direttamente nelle aziende. Io resto convinto che, fatto salvo il diritto delle imprese e delle loro rappresentanze di tenere la “barra dritta” sui contenuti, puntare alla marginalizzazione del sindacato in sé, sia un errore. Un errore destinato a coinvolgere, nel tempo, anche le stesse organizzazioni datoriali. In gioco, credo ci sia, un modello di società intesa come una comunità in cammino dove dovrebbero esistere pesi e contrappesi, interessi deboli e forti che si ricompongano nel confronto e le contraddizioni del contesto nazionale e internazionale vengano ammortizzate da una rinnovata coesione sociale e politica. Spingere i sindacati confederali su una posizione esclusivamente difensiva e inconcludente è relativamente facile. Sfidarli su un altro terreno lo sarebbe molto meno. Il mancato rinnovo di molti contratti è lì a dimostrare l’assoluta debolezza dei sindacati nel rapporto con i lavoratori e l’incapacità delle loro rispettive controparti di trovare soluzioni condivise. Non credo però sia una buona strategia attendere soluzioni da terzi o proposte che non arriveranno certo da sole….
Il poco auspicabile “pessimismo della ragione”.
La foto proposta ieri sul Corriere si commenta da sola. Una delegazione “monstre” nel solco della tradizione militante dei metalmeccanici seduta e in attesa di un improbabile epilogo. Il rito è in pieno svolgimento. La vera novità è che, purtroppo, ci sono tre piattaforme (due sindacali e una datoriale) sul tavolo. E questo non fa presagire nulla di buono sulle modalità, sui tempi di quel negoziato e sulla possibilità che si concluda unitariamente. E questo mentre gli alimentaristi sono al palo e numerosi contratti bloccati. Le reazioni alla piattaforma di Cgil, Cisl e UIL sono state, tutto sommato, comprensibili. La proposta unitaria è probabilmente destinata a non fare molta strada così com’è. Definendola “di vecchia impostazione” o “irricevibile” sia Confcommercio che Confindustria hanno segnalato una disponibilità al confronto ma una indisponibilità di merito che complica ulteriormente il quadro di riferimento. Sull’altro versante, il Governo, sembra solo voler “scaldare i muscoli” a bordo campo minacciando di entrare in gioco. Evitare l’intervento del Governo sembrerebbe essere l’unico punto su cui le parti sociali convergono, almeno per ora. E tutto questo sembrerebbe comporre un quadro non esaltante e destinato addirittura a rendere improduttivo il confronto, quindi sostanzialmente inutile. La stessa pretesa del sindacato confederale di proporre un modello di difficile accettazione dal mondo delle imprese sembrerebbe confermarne il destino. È questa dunque la fotografia della situazione? Il pessimismo della ragione spinge molti a queste valutazioni. Sembra che nessuno senta, in realtà, il bisogno di costruire un nuovo sistema di relazioni industriali. E chi lo sente, non è in grado di imporre il passo necessario per realizzare quella parte di contenuti innovativi che, in parte, sono comunque presenti nella piattaforma sindacale. Senza una intesa, però, non si va da nessuna parte. Questo deve essere chiaro a tutti. Personalmente non immagino un accordo confederale dettagliato che valga per tutti. Penso, però, che un accordo quadro condiviso tra la parti sociali, sulla qualità della direzione di marcia, sia utile per il Paese. Lasciare le cose come stanno, cioè ai semplici rapporti di forza espressi dai rispettivi soggetti sociali in campo o alla buona volontà dei singoli, è un errore. Così come lo è stato in questi decenni. Questa impostazione ha lasciato interi settori scoperti e privi di diritti e di regole, ha consentito soprusi, ha favorito situazioni di dumping tra imprese, ha creato vincoli esagerati e situazioni dannose per molte imprese. I sistemi di “relazioni industriali”, costruiti intorno alla contrattazione, non hanno mai compreso fino in fondo la necessità e la difficoltà che comporta gestire “persone” in un contesto che cambia. Non ne hanno mai assecondato le aspirazioni, le attitudini, i desideri. Hanno pensato sufficiente circoscrivere il perimetro di riferimento tra “diritti e doveri”. Nel taylorismo o con il lavoro vincolato di massa questo poteva avere un senso. Oggi non più. In questo modo si è faticato a comprendere e a seguire l’evoluzione delle politiche di gestione e sviluppo delle risorse umane delle imprese restando spesso ancorati ad una cultura della difesa di interessi esclusivamente economici e normativi che, una volta neutralizzati, hanno, di fatto, marginalizzato il sindacato nella stragrande maggioranza delle aziende grandi e piccole. Lo hanno reso estraneo e incomprensibile, non solo ai giovani ma anche a tutti coloro che nel lavoro, nella crescita professionale e nella condivisione delle strategie del management della propria impresa ci hanno investito e si sono impegnati. Ma hanno marginalizzato anche chi di relazioni industriali si occupa nelle imprese e per le imprese, costretti a muoversi tra “diritti acquisiti”, norme e ricorsi alla magistratura in perfetta estraneità e lontananza dalle nuove culture aziendali. Quello che abbiamo di fronte è un contesto interconnesso e molto più complicato rispetto al passato che inserisce le singole aziende in filiere globali. Solo una rinnovata collaborazione tra imprenditori, manager e lavoratori può consentire di costruire un nuovo sistema di relazioni moderno, efficace e di reciproco interesse. E questo interesse lega la qualità, la quantità del lavoro, il suo riconoscimento, lo scambio realizzabile in termini di condivisione di rischi e di opportunità, crescita personale, welfare e integrazione della singola impresa nel territorio che la ospita. Alle organizzazioni di rappresentanza la scelta di assecondare questa evoluzione o di rallentarla. Che lo si voglia o no, nessuno la potrà impedire. Di Vico ha ragione quando sostiene che: “…non è la rappresentanza in sé ad essere freno al cambiamento ma la sua burocratizzazione, il prevalere degli interessi dei suoi dirigenti sulle rispettive basi sociali”. Da qui il mio “ottimismo della volontà” perché il futuro dei corpi intermedi si gioca proprio su questo.