Welfare e corpi intermedi.

La recente presentazione del nuovo Fondo Sanitario di Confcommercio rilancia l’impegno e la presenza di una delle più importanti organizzazioni di rappresentanza in un segmento fondamentale del welfare nel nostro Paese. Nel mese di dicembre una iniziativa, altrettanto importante, promossa congiuntamente da Confindustria e Confcommercio ha presentato una proposta di costruzione di un secondo pilastro sanitario integrativo. Segnali chiari di un rinnovato impegno laddove le principali confederazioni datoriali sono già presenti, insieme alle organizzazioni sindacali di riferimento, nei fondi contrattuali per dirigenti e dipendenti. Oggi la spesa sanitaria pubblica rappresenta il 6,9% del PIL, l’obiettivo al 2019 è di abbassarla al 6,5%. Il grado di sostenibilità finanziaria del sistema sanitario va riducendosi per una serie di fattori (demografia, domanda sociale crescente, innovazione in ambito sanitario, farmaceutico e tecnologico, riduzione spesa pubblica) mentre cresce la spesa privata che oggi è di circa 30 miliardi di euro (senza dimenticare un sommerso che viene stimato in circa 15 miliardi) e, infine, i 9 miliardi a carico delle famiglie per l’assistenza alla non autosufficienza. Questi dati dimostrano in modo inequivocabile l’importanza di un secondo pilastro efficiente e integrativo con indubbi vantaggi sia per il cittadino che per lo Stato. I fondi sanitari, oggi, intermediano 4/5 miliardi di spesa e assistono circa sette milioni di italiani ma, ispirandosi agli stessi principi del sistema sanitario nazionale (equità e universalismo), ne costituiscono indubbiamente lo strumento più idoneo a completare il sistema. Al di là del fatto che la salute è un bene primario irrinunciabile e inestimabile e che tutti devono essere messi in condizione di potersi curare, un secondo pilastro forte consentirebbe indubbiamente un recupero di gettito sulla spesa sanitaria non tracciata, un sistema più efficiente, una maggiore educazione del cittadino alla spesa stessa e, ultimo ma non ultimo, vantaggi economici complessivi a saldo positivo. Lo strumento del fondo in autogestione consente di redistribuire le risorse integralmente agli assistiti senza dispersioni derivanti dalla remunerazione dell’azionista e della struttura commerciale e distributiva, voci che costano molto nell’ambito dei processi e dei prodotti assicurativi. Così come la possibilità per tutti di accedervi. Infatti, in queste proposte, non sono previsti vincoli né per l’età né per lo stato di salute degli iscritti. L’assunzione del rischio è “governata” basandosi su analisi statistico-attuariali in grado di evidenziare ex ante se lo schema che si gestisce è sostenibile o meno. Per questo motivo il controllo di organismi sul modello della Covip non solo è auspicabile ma potrebbe anche essere utile mettere, a disposizione del legislatore, l’esperienza maturata dai fondi già operativi sia sul tema della sostenibilità, del monitoraggio tecnico che della gestione degli investimenti. Sanità e previdenza integrativa rappresentano due priorità importanti nella costruzione del nuovo welfare. Così come è importante che a questo ripensamento partecipino, con un ruolo da protagonista, le organizzazioni di rappresentanza.

La contrattazione tra passato e futuro.

La contrattazione aziendale, è bene tenerlo presente, coinvolge una parte assolutamente minoritaria delle aziende italiane. Da oltre vent’anni, dove si realizza, è spesso “concessiva” da parte sindacale per le crisi grandi o piccole che si sono succedute nelle singole imprese o, addirittura, “restitutiva” nel senso che alcune cosiddette “conquiste” ottenute in momenti di forza dai sindacati sono state via via cancellate, congelate o limitate ai soli lavoratori più anziani. Quando comprende elementi economici legati ad obiettivi aziendali questi sono, nella quasi totalità dei casi, decisi dalle imprese. Nei casi concreti dove si può parlare di vera e propria “contrattazione” abbiamo, o una tradizione negoziale positiva in particolari imprese, o una situazione sindacale dove i rapporti di forza in campo sono ancora un elemento in grado di influire sul contesto. A fronte di questa realtà, mi sono domandato perché molti, e da versanti opposti, invocano il ritorno alla contrattazione aziendale come la “soluzione” senza porsi il problema di una necessaria evoluzione condivisa del contesto sociale e sindacale del nostro Paese. Il modello oggi in crisi, ha sempre fatto perno su un sistema “circolare” di natura sostanzialmente conflittuale. Il contratto nazionale di categoria ne ha costituito, per anni, l’elemento portante. La contrattazione aziendale integrava specificità e salario e innovava materie che poi avrebbero costituito elementi di proposta da estendere a tutti nella successiva contrattazione nazionale. Le crisi che si sono via via succedute hanno inevitabilmente modificato i rapporti di forza consentendo alle imprese, prima di depotenziare questo meccanismo, poi di volgerlo a proprio favore e, infine, di neutralizzarlo definitivamente. Nella proposta sindacale c’è un tentativo legittimo, ma di difficile accettazione, di ritorno a formule che, di fatto, sommano benefici tra i diversi livelli. E questo costituirà inevitabilmente un primo elemento di scontro. Perché va bene l’apprezzamento per lo sforzo unitario che sicuramente connota la proposta ma occorre considerare anche che, il conto di questo sforzo, non può essere semplicemente scaricato sulle imprese prima a livello nazionale e poi in azienda. Da questo punto di vista il negoziato sarà più importante, come sempre, delle intenzioni o dei desideri contenuti nella piattaforma. Così come lo scenario che un accordo vero su un tema così delicato può aprire in termini evolutivi del sistema. Alcuni osservatori sottolineano che è stata solo la forte preoccupazione di un intervento a gamba tesa del Governo a spingere i sindacati all’unità. Personalmente non ci credo. I segnali della necessità una ripresa del percorso unitario c’erano tutti. L’amico Massagli, un po’ malignamente, la definisce, però, una unità costruita “contro” e non “per”. Io penso, al contrario che, la ripresa del confronto, fosse comunque inevitabile. Così come la sua forte caratterizzazione difensiva e, in parte, tradizionale. Soprattutto dopo la “sortita” di Federmeccanica e la mancata chiusura di molti contratti nazionali. I risultati delle divisioni identitarie di questi anni sono sotto gli occhi di tutti e nessuna organizzazione, in termini complessivi ci ha guadagnato nulla. La ragione è che nessuno dei tre sindacati confederali è riuscito a proporre una strategia in grado di produrre benefici misurabili oltre i propri confini tradizionali. Il vecchio schema sindacale:”obiettivo-lotta-risultato” non funziona più e quindi il punto vero non è rappresentato da una piattaforma unitaria “contro” o “per” ma nella definizione di una strategia di lungo periodo. E questo comporta tempo che, sia chiaro, è una risorsa scarsa.
Se la riforma della contrattazione sarà, o meno, un primo snodo verso la costruzione di relazioni industriali innovative, collaborative e propositive allora il confronto avrà comunque avuto un senso importante. Se nessuno si fida di nessuno è difficile immaginare un sistema con oltre quattro milioni di imprese che, improvvisamente, si converte ad un “nuovo” modello a cui sono state storicamente estranee (o spesso contrarie) limitandosi a riconoscere quanto definito dal proprio CCNL di riferimento. Nelle imprese italiane vige un paradosso. Nelle piccole aziende (che sono la stragrande maggioranza) l’imprenditore generalmente non vuole avere a che fare con i sindacati preferendo un rapporto diretto con i suoi collaboratori. Semmai per la gestione di alcune problematiche tende ad affidarsi agli strumenti messi a disposizione dalla bilateralità. Nelle grandi imprese industriali i sindacalisti sono, al contrario, spesso presenti e coinvolti nelle strategie aziendali come o più degli stessi lavoratori dipendenti. Quindi esiste un problema di fondo che non è facilmente superabile. Nessuno, Governo compreso, può imporre nulla a nessuno. Il sistema attuale ha retto per oltre cinquant’anni perché i ruoli sono sempre stati chiari e condivisi sostanzialmente da tutti. Sfasciarlo è pericoloso perché aprirebbe ad una situazione di dumping tra imprese difficilmente governabile in un Paese come il nostro. Il mondo però è cambiato. La competizione, la tecnologia e la globalizzazione impongono a ciascun Paese organizzazioni e sistemi più coesi, moderni e aperti dove ciascuna parte in causa condivida rischi e opportunità. La partita sulla contrattazione è lo strumento ideale per cominciare a ridisegnare il sistema delle relazioni industriali dei prossimi anni. Per questo avere sul tavolo una proposta unitaria (condivisibile o meno) del sindacato è comunque importante. Certo non è risolutivo perché i problemi da affrontare restano ancora molti. Ma i negoziati servono proprio a questo. Ma questo, credo sia chiaro a tutti.

Ma è davvero solo colpa dei sindacati?

sindacati

È abbastanza ovvio ma anche singolare che la pubblicazione della proposta unitaria di Cgil, Cisl e Uil di riforma della contrattazione abbia suscitato reazioni essenzialmente negative. Pochi hanno colto la volontà di chiudere un’epoca di divisioni e l’intenzione comune di avviare una nuova stagione. È come se fossimo in presenza di un forte pregiudizio a prescindere su tutto ciò che proviene da quel mondo. Il paradosso è che molti tra coloro che chiedono, a parole, al sindacato di cambiare lo hanno già riposto in soffitta tra i ricordi del ‘900 e quindi non sono disposti a rimettere in discussione le proprie consolidate convinzioni. Io penso sia un errore grave perché il sindacato, pur ancora diviso, in crisi di strategia e di credibilità, provato da molte battaglie è in campo con i suoi milioni di iscritti, il suo radicamento nel mondo del lavoro e i suoi legami nei territori. Considerarlo sconfitto o marginale nella costruzione del futuro del nostro Paese in nome della disintermediazione non porterà a nulla di buono. Un altro aspetto curioso è che la stessa severità utilizzata da molti per giudicare la proposta sindacale non esiste sul fronte opposto. Non c’è alcuna proposta datoriale unitaria. Confcommercio ha la sua strategia confermata nella recente firma del CCNL del terziario che fa perno su flessibilità, derogabilità del CCNL a livello locale, rafforzamento della bilateralità e del welfare contrattuale. Non a caso il tanto citato accordo di Treviso ne è una dimostrazione evidente. Nello stesso settore Federdistribuzione si accontenterebbe, al contrario, di una semplice, quanto improbabile, “resa” dei sindacati. Nell’industria Federmeccanica ha una proposta compiuta, pur di difficile attuazione ma Federchimica ha un’altra impostazione vista la recente firma del CCNL di comparto. Potrei continuare con molti altri esempi. Confindustria sta per sedersi ad un tavolo dove, nella migliore delle ipotesi, si limiterà a mettere in discussione la proposta di Cgil,Cisl e UIL sperando che la minaccia di un possibile intervento governativo costringa a miti consigli i negoziatori sindacali. Direi un modo curioso di aprire una fase nuova. Ma questo è probabilmente dato dal fatto che tutti vorrebbero cambiare un sistema che ci ha accompagnato per oltre 50 anni ma nessuno vuole prendersi la responsabilità di indicare la vera direzione di marcia. Se il Paese ha bisogno di condivisione e coinvolgimento si sceglie una strada altrimenti se ne sceglie una opposta. Oggi tutto questo non c’è ancora. Di Vico ha ragione: non è più tempo di riti e liturgie. Occorre muoversi. Per le parti sociali è fondamentale il riconoscimento e il rispetto reciproco. Se qualcuno, nei sindacati o nelle organizzazioni datoriali, pensa che una parte possa decidere nell’interesse di tutti, sbaglia perché è interesse di tutti crescere, confrontarsi e trovare nuovi equilibri positivi. Le sfide che abbiamo di fronte si vincono con un sistema di relazioni industriali moderne ma soprattutto condivise. Questo è il compito che hanno di fronte i negoziatori. I giudizi lasciamoli alla fine.

Per un “capitalismo dei partecipanti”

Severino Salvemini sul Corriere ha rilanciato un dibattito importante. Il suo assunto di partenza è chiarissimo:” ..bisogna dare vita ad una nuova dinamica di governo aziendale dove i diversi portatori di interesse possano far sentire di più la propria voce”. E così il tema che fa riferimento alla partecipazione o, in altri termini, alla collaborazione, al coinvolgimento dei collaboratori, ritorna in primo piano. Il “campo da gioco” è l’impresa di domani. Il clima interno, i processi di condivisione del rischio e delle opportunità dell’impresa, i soggetti da coinvolgere, le modalità e i limiti del coinvolgimento segneranno la qualità del lavoro e del nuovo ruolo che le rappresentanze sindacali potranno avere dentro e fuori le aziende. Per questo occorre saper guardare avanti. Oggi più che mai. La proposta di Cgil, Cisl e Uil, la stessa proposta di Federmeccanica, pur muovendo da presupposti ben diversi, secondo me, potrebbero convergere in quella direzione. E questo sarebbe indubbiamente il vero fatto “nuovo”. Anche un’eventuale legge sulla rappresentanza dovrebbe puntare a favorire questa direzione di marcia. C’è un grande bisogno di condivisione nel nostro Paese. L’esperienza della crisi, che sembra non finire mai, ha fatto implodere i sistemi di relazione ereditati dal passato: in un capitalismo iper-frazionato come il nostro, tutto si è sfilacciato anche attraverso il (poco responsabile) gioco del cerino.
Se ciascuno cerca di passare agli altri il cerino acceso che ha in mano, sperando che a scottarsi siano loro, è facile capire come le relazioni tra committenti e fornitori, banche e imprese, lavoratori e imprenditori, territori e sistemi produttivi in essi insediati si siano logorate e non reggano ormai più alla pressione degli eventi.
Molti anelli della catena produttiva stanno saltando o sono sempre più paralizzati e privi di capacità di risposta. E questo mette in seria di difficoltà anche le strutture della rappresentanza in generale, a cui oggi si pone una opportunità fondamentale quella di contribuire ad arrestare la disgregazione delle filiere produttive, delle relazioni sociali e dei sistemi territoriali, usando la loro capacità di generare senso e legami per invertire l’andamento delle cose, proponendo una logica di collaborazione tra le parti, sia nell’affrontare la crisi giorno per giorno, ma anche nel costruire un futuro comune che possa riattivare il meccanismo dello sviluppo, oggi gravemente inceppato.
Inoltre, occorre considerare che gli strumenti da mettere in campo per affrontare la pressione competitiva dei mercati sono anche altri, e riguardano le parti sociali direttamente coinvolte: bisogna condividere i rischi, le perdite ma anche le opportunità, trovando un criterio ragionevole per ridimensionare certe attività distribuendo i sacrifici tra le molte parti co-interessate alla sopravvivenza di una certa impresa o di una certa fascia di attività.
E’ un processo difficile, in cui la contrattazione sociale può forse fornire la cornice normativa e logica: ma tocca alle singole persone, alle singole imprese, alle singole banche, ai singoli territori dire in che modo possono contribuire alla sopravvivenza ed eventualmente – in prospettiva – al rilancio di attività che non vogliono vedere chiudere o fuggire altrove. La contrattazione aziendale ha già in molti casi trovato formule ragionevoli di distribuzione dei sacrifici che le parti in causa sono disposte ad assumere, in uno spirito di collaborazione mutualistica, di reciprocità, in vista di un interesse comune per la sopravvivenza. Bisogna fare tesoro di queste esperienze anche se il loro contenuto è spesso una rinuncia, una riduzione delle aspettative e delle pretese contrattuali, un’accettazione di sacrifici che aiutano il sistema di cui si fa parte a non soccombere, di fronte alle gravi difficoltà. Ma certo, tutto questo non basta. La collaborazione solidale (redistribuzione politica e contrattuale del reddito, in nome dell’equità) e quella mutualistica (modificazione delle condizioni di lavoro e di reddito di ciascuno, in nome di un interesse comune alla sopravvivenza del sistema produttivo) servono solo ad evitare danni più gravi.
Questo nuovo modello di collaborazione necessaria da costruire insieme nasce dal fatto che, per mantenere i nostri livelli di occupazione e di reddito nel lungo termine, dobbiamo trovare il modo di aumentare di molto il valore co-prodotto dalle nostre imprese e dalle nostre filiere, in modo da compensare gli svantaggi di costo di cui soffriamo nei confronti dei concorrenti emergenti, e delle multinazionali che li utilizzano come parti delle loro filiere globali.
Questo aumento della produttività (valore prodotto per ora lavorata e per euro investito) richiede interventi correttivi importanti, rispetto alle tendenze spontanee del sistema produttivo esistente e dei modelli di business che esso ha espresso sin qui.
È necessario quindi sviluppare una vera collaborazione tra chi sviluppa progetti, investe risorse, assume rischi in vista di un traguardo comune, che riguarda – prima del singolo imprenditore-innovatore – l’impresa (con i suoi stakeholders, prima di tutto i suoi lavoratori), la filiera (con i suoi fornitori, committenti, distributori e consumatori), il territorio (con le istituzioni locali), l’economia della società nel suo insieme (espressa dalle differenti parti sociali). Ed è in questo contesto che l’accordo tra le parti sociali diventa un tassello auspicabile e fondamentale.

Un negoziato difficile ma non impossibile

Le carte sono finalmente sul tavolo. Il negoziato sul nuovo modello contrattuale parte in salita, come è ovvio, ma può iniziare. Ai commentatori, in questi giorni, non resta che riportare la naturale esibizione muscolare dei contendenti. Qualsiasi negoziato comincia così. Entrambe le parti in causa ribadiscono le proprie posizioni di partenza. Sarebbe persino ridicolo il contrario. La predisposizione delle cosiddette “piattaforme” rende necessario un grande lavorio di mediazione. Non solo per quelle sindacali. In questo caso, tra l’altro, non c’è nemmeno sul tavolo una proposta precisa di Confindustria. I chimici hanno firmato il loro contratto nazionale e gli alimentaristi stanno trattando su quelle basi. E non credo si offenda nessuno che quei rinnovi vengano considerati nel solco della tradizione con qualche modesta innovazione qualitativa. Federmeccanica, sulla spinta di FCA e delle esigenze di rinnovamento di un settore dominato dalla conservazione in tema di relazioni sindacali, ha sparigliato le carte con una sua proposta. Quindi non c’è una visione comune nelle categorie industriali sul versante imprenditoriale. Non c’è nemmeno una posizione comune tra Confindustria e gli altri settori che vantano, a buon diritto, la loro autonomia sul tema. Il Governo osserverà, da una giusta distanza, l’evolversi del negoziato. Ed è meglio così. Nessuno vuole lasciare le cose come sono oggi. E questo è già un ottimo punto di partenza. I confederali hanno faticato a trovare un punto di incontro condiviso e quindi è impensabile che lo abbandonino prima ancora di aprire il negoziato. Quindi dobbiamo aspettarci un periodo abbastanza lungo fatto di scambi di accuse, di trincee scavate, da una parte e dall’altra e prese di posizioni ufficiali sui media con conseguente banalizzazione degli argomenti altrui. Qualche politico ha già cominciato definendo “ferro vecchio” la proposta sindacale ed esaltando la proposta di Federmeccanica. Credo che, nelle prossime ore, ci dovremo aspettare analoghi comportamenti da qualche esperto di provocazioni della sinistra politica e sindacale. Niente di nuovo. Anche questo fa parte dei riti e delle liturgie dei negoziati importanti. In entrambi i campi ci sono però esperti negoziatori che sanno dare un giusto peso a queste sortite. Le posizioni sono distanti ma non incolmabili. C’è un tema legato alla quantità di risorse da mettere sul tavolo, con quali tempi e come ripartirle se i tavoli dovessero aumentare. Un altro legato alle modalità di erogazione da utilizzare per consentire al lavoratore di guadagnare il massimo possibile e all’azienda di spendere il minimo possibile. Il tutto condito da forme di partecipazione, più o meno convinta e convincente e di sostegno al welfare aziendale. Il rischio che la montagna partorisca il classico topolino è molto alto. Il 2016 è un anno a “difficoltà progressive” per il Governo. Aprire un altro fronte con la sinistra politica e sociale non serve a nessuno, soprattutto al premier. Quindi fare un accordo serve a tutti. Al sindacato che potrebbe uscire dall’angolo nel quale è finito dove i contratti nazionali o aziendali rischiano di non rinnovarsi mai. Alle imprese perché avere certezze sui costi e una migliore gestione del clima interno possono accompagnare meglio la ripresa. E, infine al Governo, che non si troverebbe a dover pagare il conto come è avvenuto molte volte in passato. Tutto bene, quindi? No. Siamo solo al via. Purtroppo nel nostro Paese non sempre ciò che sarebbe giusto e utile si realizza facilmente. Occorre pazienza e impegno. E questo non credo manchi ai negoziatori.

La proposta unitaria sulla contrattazione: un passo avanti.

Misurare la distanza tra la proposta sulla contrattazione di Cgil-Cisl-Uil che verrà ufficialmente presentata giovedì  e quella di Federmeccanica serve a poco così come pensare che, in un Paese dove la contrattazione aziendale è un fenomeno assolutamente marginale, il Sindacato potesse abbandonare con eccessiva superficialità le sponde sicure dei contratti nazionali o di vecchi o nuovi automatismi più o meno efficaci. Tre elementi importanti di sfondo caratterizzano la proposta e, per questo, sarebbe utile, oggi, concentrarsi su di essi. Il primo. Un documento unitario sulla stessa ragion d’essere di un sindacato, la contrattazione, non è cosa da poco. Chiude, di fatto, una parentesi durata più di un ventennio. La stagione degli accordi separati, dei contratti non firmati da questa o quella sigla di categoria non hanno pagato. Ed oggi questo è chiaro a tutti. Le divisioni hanno contribuito a indebolire la capacità di iniziativa di tutto il sindacato confederale. E che la CGIL scelga decisamente la strada di un accordo con CISL e UIL in aperto contrasto con la FIOM dimostra la forza e la credibilità nelle sue articolazioni sul territorio e nelle categorie dell’attuale gruppo dirigente confederale. In secondo luogo la conferma decisa sul tema della partecipazione dei lavoratori allo sviluppo delle imprese attraverso un sistema duale. Una sorta di modello partecipativo tedesco adattato alla specificità italiana. In terzo luogo l’esigibilità erga omnes dei contratti nazionali. Il resto è materia di un negoziato che si annuncia complesso, lungo e difficile ma quello che importa è la direzione di marcia. Federmeccanica ha, dal canto suo, presentato una ipotesi stimolante. Difficilmente digeribile dal sindacato dei metalmeccanici ma, non per questo, etichettabile in modo tradizionale o liquidabile con qualche slogan. La cautela nelle dichiarazioni ufficiali espresse fino ad oggi ne rappresenta la conferma. Le carte sono sul tavolo. Le posizioni sono molto distanti ma non inconciliabili. Adesso tocca ai negoziatori. Confindustria dovrà decidere se questa partita sarà chiusa dall’attuale presidenza o dalla prossima. Lo stesso varrà per i sindacati che, su questa impostazione, si giocano i prossimi congressi. Ma non c’è solo Confindustria in campo. Confcommercio resta firmataria del più importante contratto nazionale e altri comparti sono interessati a dire la loro senza subire vecchie egemonie che non hanno più ragioni di esistere. Finalmente si apre una fase nuova per le relazioni sindacali del nostro Paese e soprattutto si chiude quella che ci ha accompagnato dagli anni ’60 del secolo scorso. Era ora che quel modello andasse in pensione. Speriamo sia la volta buona.

Chi fa da sé, non fa per tre…

Nuove associazioni di imprese, di professionisti, di attività. L’ultima, in ordine di tempo, è nata a Firenze con lo scopo di mettere a fattor comune i problemi di chi affitta il proprio appartamento su AIRBN. È un segno dei tempi o si rischia, ancora una volta, di confondere un alba con un tramonto? È già successo con i sindacati dei lavoratori. Intorno al sindacalismo confederale sono nate e si sono sviluppate una infinità di sigle che non hanno mai contato nulla e che non hanno portato risultati apprezzabili e concreti ai propri iscritti. Solo disagi a terzi. Nei professionisti sta succedendo, più o meno, la stessa cosa. Tanto fervore organizzativo ma due ostacoli restano comunque insormontabili: la mancanza di risorse che impedisce ristorni significativi da parte pubblica per i rispettivi soci e, pensando a lungo termine, la scarsa massa critica per operazioni di necessarie nuove forme di welfare a favore dei propri associati. Resta solo la convinzione di avere un maggiore peso contrattuale mettendosi insieme evitando, contemporaneamente, le grandi organizzazioni di rappresentanza. E cosi un’attività che nasce proprio per disintermediare, ai primi problemi, propone forme di aggregazione tradizionale. Da qui la prima riflessione. Fare da soli è comunque molto difficile. Soprattutto quando l’interlocutore principale è di grandi dimensioni e agisce in un contesto planetario e anche lo Stato nazionale arranca e insegue con le sue leggi e le sue determinazioni. In secondo luogo è necessaria, sia una struttura per finalità specifiche (federazione, associazione, ecc.) ma anche un contenitore più ampio che consenta autorevolezza, forza e massa critica utile a moltiplicare l’effetto associativo verticale. Le principali organizzazioni di rappresentanza sono, da sempre, strutturate in questo modo. È la loro forza sia localmente che centralmente. E, soprattutto, le grandi organizzazioni datoriali ma anche quelle dei lavoratori sono strutturalmente integrate nel Sistema e quindi conoscono, rispettano ma contribuiscono anche a modificare a proprio vantaggio le regole del gioco. E questo resta un punto di forza soprattutto quando la partita non si svolge solo nel proprio cortile di casa. Queste nuove realtà spesso nascono e si sviluppano fuori dalle regole proprio perché sfuggono ad una valutazione tradizionale. Un agriturismo, una sagra di paese, un bed and breakfast, un affittacamere, se fanno attività dove altri sono soggetti devono sottostare a regole precise (igiene, sicurezza, contabilità, fisco) sono tenuti anch’essi a rispettarle o no? Stesso mercato, stesse regole vale per tutti o solo per chi opera in un settore da più tempo? Ovviamente nessuno vuole impedire la nascita di nuove attività sia in campi tradizionali che ovunque ma le regole sono importanti se valgono per tutti. I corpi intermedi hanno questa capacità di operare sintesi rispettate dai propri associati. Pensare di scavalcare questo ruolo non rende tutti uguali, semmai tutti più deboli.

Lotta all’evasione fiscale, vera battaglia di civiltà.

La prima conferenza televisiva del nostro Presidente della Repubblica verrà ricordata per le parole chiare e nette che ha pronunciato sullo scandalo dell’evasione fiscale nel nostro Paese. Non è un caso, che, anziché limitarsi ad un forte quanto generico appello sul tema, ha volutamente citato una recente ricerca di Confindustria pubblicata da poco tempo e caduta immediatamente nel dimenticatoio. Secondo me ha voluto indicare un confine. Un limite ormai intollerabile. Il punto di passaggio necessario dalle parole ai fatti. L’evasione fiscale non è solo un grave problema economico per un Paese come il nostro. E non divide semplicemente i buoni dai cattivi cittadini. E soprattutto, non sempre, i cattivi sono gli “altri”. Ci sono le multinazionali che scelgono residenze fiscali convenienti, industriali, commercianti, artigiani e professionisti di diversa estrazione. Perfino il giovane o l’insegnante pubblico che danno ripetizione in nero al figlio del cassaintegrato in difficoltà con gli studi. C’è una grande evasione e una diffusa mentalità indulgente verso vari tipi di evasione. Ciascuno di noi, sul tema, giustifica ciò che gli pare. Ma, oltre alla solita litania su scontrini, idraulici e dentisti, c’è anche la malavita organizzata, la corruzione, il lavoro nero, lo sfruttamento dei lavoratori stranieri. E di questa “evasione” si parla molto meno. È evidente che siamo al cospetto della madre di tutti i nostri problemi. Combattere sul serio l’evasione significa cambiare veramente la qualità del nostro Paese. Ma è un’impresa difficile che deve mobilitare tutte le coscienze. Altrimenti è un’impresa impossibile. Per questo il nostro Presidente ha fatto bene a parlarne. Al Governo e al Parlamento spetta agire già nel 2016. Altrimenti resteranno parole al vento che rischiano di coinvolgere nel giudizio anche la più alta autorità morale del Paese che ha indicato le priorità del 2016. Dal punto di vista economico c’è già maggiore consapevolezza nel Paese. La cassa è vuota, le tasse sono oltre al limite di sopportazione e non sarà lo zero virgola concesso di volta in volta da Bruxelles a far cambiare verso all’Italia. Aumentare le entrate riducendo con gradualità la pressione fiscale significa far pagare le imposte a chi non le paga. La metà dell’evasione censita dal centro studi di Confindustria porta ad un’aumento di 3,5 punti del PIL quindi, si stima, ad un effetto sull’occupazione superiore al Jobs Act. E questo senza mettere le categorie, i territori e le generazioni gli uni contro gli altri. È l’unica possibilità nel breve/medio periodo di aumentare considerevolmente le entrate. Per farlo, però, serve un vero patto nazionale. Ma soprattutto serve che nessuno si smarchi. Non tutti hanno applaudito il discorso del nostro Presidente. Però quelli che hanno applaudito sono indubbiamente la maggioranza. Anzi. Siamo la maggioranza. Forse serve solo qualcuno che interpreti questa nuova disponibilità all’ascolto e alla concretezza. Il fatto che per la prima volta il monito sia partito dalla più alta carica dello Stato è veramente importante.

Buon Anno!

Ogni anno nuovo è importante. Il 2016 lo è ancora di più perché si capirà se la ripresa c’è ma soprattutto quanti ne potranno concretamente beneficiare. Pur sapendo benissimo che nulla sarà come prima coltiviamo tutti la speranza che, almeno ciascuno di noi, sul piano individuale, possa “tirare il fiato” e togliersi di dosso, almeno in parte, quella preoccupazione per il futuro, per sé e per i propri figli. Forse ha ragione Checco Zalone. L’Italia nella quale siamo nati e cresciuti, un po’, ci manca. Da un lato c’è indubbiamente chi vorrebbe uscirne in fretta ma, dall’altro, si fa strada il rimpianto, giusto o sbagliato, che allora c’era posto per quasi tutti mentre, nel mondo che ci aspetta, non sarà certamente così. O meglio che sarà molto più difficile raggiungere i propri obiettivi e riuscire a mantenerli nel tempo. Sappiamo tutti che non si possono paragonare situazioni avvenute in ere geologiche differenti. In mezzo ci sono l’euro, il muro di Berlino e la globalizzazione. La crisi economica, le guerre e le migrazioni hanno fatto il resto rendendo inadeguati tutti i nostri strumenti di previsione e di riflessione. La Politica, dal canto suo, è deflagrata perdendo autorevolezza e favorendo il ritorno in superficie di malesseri sociali, egoismi individuali, contraddizioni tra territori, categorie, generazioni e ceti sociali che rendono sempre più difficile il compito di ricomposizione che spetterebbe proprio a chi governa la cosa pubblica. Le elites culturali o non dicono più nulla di interessante sul piano sociale, o la buttano quasi sempre in politica. Spesso parlano sottovoce lasciando il campo agli urlatori di professione. La stessa idea di disintermediazione porta inevitabilmente acqua al mulino del “fai da te” economico e sociale che, in un Paese, forte del suo tessuto di piccole e piccolissime imprese, è l’esatto contrario di quello che servirebbe. Il problema non è costruire una nuova immagine del nostro Paese nel mondo. Quella non cambierà tanto presto. Più che preoccuparci di come ci vedono altrove dobbiamo pensare a come ci dobbiamo vedere tra di noi. Ricostruire un senso civico, superare la continua litigiosità politica su problemi dove la concordia nazionale dovrebbe essere scontata, mettere da parte modesti interessi di categoria o di ceto e darsi da fare per rimettere in piedi una comunità nazionale che condivide valori, il cammino da compiere e i sacrifici per realizzarli. Abbiamo un grande Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ha dedicato la propria vita a questi valori e alla loro concreta realizzazione. Bene, ascoltiamolo questa sera, nel suo primo discorso di fine anno, cogliamo l’essenza del suo pensiero e cerchiamo di trasformare il 2016 in un anno veramente nuovo e innovativo. Innovativo per la qualità dei rapporti tra noi cittadini e lo Stato, innovativo per le relazioni tra le categorie economiche, le organizzazioni di rappresentanza, le generazioni e le singole persone. Solo così faremo, insieme, qualcosa di diverso e di utile per i nostri figli. E infine, Buon Anno a tutti i 6811 visitatori del mio blog che dal 15 giugno 2015 hanno deciso di dedicare parte del loro tempo alle riflessioni che propongo!
Mario Sassi