Ma quale futuro ci dobbiamo aspettare?

Più o meno quindici anni fa, in autunno, fui convocato, insieme a numerosi miei colleghi direttori delle risorse umane della Grande Distribuzione, in un luogo riservato dove, ci dissero, avremmo incontrato una persona esperta di sicurezza dei centri commerciali. Davanti a noi una persona mite e avanti con gli anni. Mi colpì il suo sorriso triste. Ci raccontò i sistemi di sicurezza necessari nel suo Paese per rendere accessibili al pubblico i loro centri commerciali. Mi colpì una frase: “Nessuno dei vostri concittadini accetterebbe mai le modalità, i tempi e la pesantezza delle nostre misure di sicurezza. Al contrario nessuno dei nostri concittadini si recherebbe a fare la spesa senza le nostre misure di sicurezza. Oggi, ve lo leggo negli occhi, voi pensate che sto esagerando. Tra dieci/quindici anni vi ricorderete di questo incontro perché, inevitabilmente, sarete, anche voi nella stessa situazione”. Il Paese di cui il nostro interlocutore stava parlandoci era Israele. Lui, ci dissero poi, era un esponente del Mossad. Non ho più ripensato a quell’episodio per molti anni. Questa mattina me lo sono ricordato. Temo che quel signore avesse ragione. Che ci piaccia o meno, siamo definitivamente entrati in un nuovo mondo a cui non siamo assolutamente preparati. Non tanto per quello che oggi e nei prossimi giorni prevarrà sui media. L’esecrazione dei fatti di Parigi, il sentirsi più o meno in guerra, la commozione per ciò che è avvenuto. Oggi sappiamo che non stiamo limitandoci ad esprimere una doverosa solidarietà ai francesi coinvolti in questi atti di guerra. Oggi sappiamo che non sarà più nulla come prima. Non abbiamo voluto prenderne atto dopo le Torri gemelle, non l’abbiamo capito quando abbiamo assistito inermi o compiaciuti ai goffi tentativi di “esportare la democrazia”, o a forzare gli avvenimenti in Libia o altrove. Adesso è chiaro a tutti. Vivremo con la paura che tutto ciò possa accadere anche a noi, ai nostri figli, al nostro Paese. E piano piano, inevitabilmente, saremo disposti a privarci di una parte importante della nostra libertà e della nostra democrazia. Visto il livello dei commenti e della nostra sensibilità a questi temi oggi prevarranno le soluzioni semplicistiche ma, purtroppo, scontate. Muri per contenere gli immigrati, guerre a cui partecipare, presunti alleati da armare affinché combattano per noi e ci illudano che qui certi fatti non arriveranno mai. Quello che oggi rifiutiamo è proprio ciò che, quel giorno, ci disse l’esperto di sicurezza del Mossad:” quello che per noi israeliani è normale, lo sarà anche per voi tra pochi anni”. Certo abbiamo problemi di intelligence e sicurezza interna, decisioni da prendere insieme ai nostri alleati e tutto ciò che è necessario fare per difenderci. Ma una cosa deve esserci chiara. Tutto quello che sta succedendo altrove è il nuovo mondo. Che ci piaccia o meno. Un mondo dove tecnologia e ideologia si continueranno a scontrare all’infinito. Un mondo meno libero e più cattivo. Un mondo dove il vicino è il nemico e dove il rischio che prevalga il “si salvi chi può” potrebbe prendere il sopravvento. Un mondo dove all’invenzione della spada segue quella dello scudo e via fino ad armi sempre più sofisticate e terribili che ci condizioneranno in una spirale senza fine. Io, purtroppo, non ho risposte pronte o soluzioni salvifiche a tutto ciò. Di una cosa sono certo. Alla profondità e ferocia di questi avvenimenti e alla volontà o meno di renderli ineluttabili io non sarò estraneo. Io voglio poter dire la mia senza lasciare soli i governanti di turno. Il futuro mio e dei miei figli mi riguarda e voglio esserne protagonista. Soprattutto di fronte ai gravi errori in politica internazionale e nei conflitti in varie parti del mondo di cui siamo stati tutti testimoni passivi. Altrimenti di questo passo dovremo rassegnarci a ricordare il pensiero che Shakespeare fa dire al conte di Gloucester: “ E’ la piaga dei tempi quando gli idioti governano i ciechi“.

Il futuro dei corpi intermedi e il futuro del Paese: una scommessa importante

Oggi è indubbio che comanda la legge del pendolo. Il sindacato italiano è sostanzialmente ai margini nelle imprese, estromesso dai principali tavoli di confronto politico e in difficoltà sui rinnovi contrattuali. A Verona, città con il più basso tasso di disoccupazione, gli industriali nella loro recente assemblea non hanno accennato minimamente alla prossima stagione contrattuale quasi non esistesse il problema. Le proposte e le iniziative del sindacato non fanno audience sui media. Non va meglio a chi si occupa di relazioni industriali in azienda. Sempre più ai margini nella gerarchia. Né alle associazioni datoriali, seppur impegnate a fondo e infine non si può non registrare un scarso interesse mediatico sui temi del lavoro. Dagli 80 euro e fino al Jobs act, passando attraverso il “conta assunzioni” mensile, l’iniziativa è passata nelle mani del Governo che addirittura “minaccia” di intervenire con una legge sulla rappresentanza se, entro la fine dell’anno le parti sociali non troveranno un accordo. Per non parlare della previdenza dove il Presidente dell’Inps, uscendo del suo ruolo, si è sostituito al Governo (ma anche alle parti sociali) presentando proposte di riforma più o meno azzardate. Infine la discussione sui livelli della contrattazione dove ciascuno, ormai, può dire la sua. Forse abbiamo toccato il livello più basso. È del tutto evidente che un modello di relazioni sindacali costruito quasi esclusivamente sui rapporti di forza (reali o mediatici) è dotato di un sismografo che registra immediatamente quando questi si modificano. Innanzitutto si sono modificati nell’impresa e da qui il venire sempre meno della contrattazione aziendale (sia in termini qualitativi che quantitativi) con le successive disdette della contrattazione interna; nella sempre più marcata distanza tra le piattaforme sindacali presentate e il contenuto degli accordi sottoscritti, negli allungamenti dei tempi della contrattazione nazionale e negli equilibri finali che sempre più comprendono la rimessa in discussione dei cosiddetti “diritti acquisiti”. Addirittura c’è anche chi arriva a teorizzare il superamento della contrattazione collettiva. Certo, tutto questo ha ragioni di contesto interno e internazionale precise e non attiene, come sostiene malignamente Ricolfi solo alla qualità dei sindacalisti o degli addetti ai lavori. È ingeneroso e sbagliato. Lama, Di Vittorio, Mortillaro o chiunque altro si troverebbero nelle identiche situazioni dei migliori negoziatori odierni. “Capire il nuovo, guidare il cambiamento” è uno slogan felice però di difficilissima attuazione per chiunque. La legge del pendolo, poi non lascia spazio a nessun ragionamento. Il punto semmai è un altro. È di questo che ha bisogno il Paese? Se la risposta è sì, il discorso è chiuso. Andiamo avanti così. Se, al contrario, ci si dovesse rendere conto che non può essere un “pendolo” a stabilire chi detta le regole del gioco in un dato momento storico dobbiamo riprendere a ragionare insieme. Tutti, a parole, siamo per il cambiamento. Purtroppo auspichiamo quasi sempre quello degli altri. Il nostro è però fondamentale. Un vecchio proverbio arabo recita: “se vuoi vedere pulita la via, comincia dallo zerbino di casa tua”. Credo sia un ottimo consiglio. Innanzitutto non credo che i corpi intermedi possano cambiare da soli, ciascuno per conto proprio. Esiste una simmetria evidente che li collega. Nessuno ha esclusivamente in sé la forza di correggere i propri difetti soprattutto perché alcuni di questi sono comuni e si giustificano proprio perché sono simmetrici. C’è un pezzo di strada che occorrerebbe fare insieme. Tra le organizzazioni datoriali in primo luogo ma anche con le organizzazioni sindacali. Quale Paese abbiamo in mente? Quali pesi e contrappesi politici e sociali pensiamo debbano coesistere? Lasciamo che si affermi una società darwiniana dove c’è chi vince e chi sopravvive come può oppure riflettiamo intorno ad un progetto di società dove le opportunità di partenza sono per tutti e dove esiste un welfare moderno che protegge chi ne ha bisogno? E come deve essere questo welfare? Come è sempre stato o con una maggiore integrazione pubblico/privato? E cosa siamo disposti a mettere di nostro sul tavolo per raggiungere quegli obiettivi? Molte di queste o di altre domande segnano il campo, le regole e la partita che si vuole giocare; soli o insieme. Ma solo affrontandole possiamo immaginare il ruolo delle parti sociali dei prossimi anni che potranno scegliere se collaborare per costruire il futuro o confrontarsi aspramente all’infinito come i “polli di Renzo” di manzoniana memoria. La Politica, nel bene o nel male, sta cercando di ridisegnare nuovi confini a ciò che nel 900 era dato per scontato e collocato da una parte o dall’altra. Equilibri e opportunità cambiano nel mondo e riposizionano ricchezza e povertà, vincoli e opportunità. E questa partita c’è chi ha deciso di giocarla solo in difesa forse sperando che chi oggi da le carte venga mandato presto a casa e tutto torni come prima. Io credo sia un errore. Personalmente “sogno” un percorso diverso. Non contando nulla, posso permettermelo. Sogno l’avvio di una fase costituente di riposizionamento dei corpi intermedi. Renzi ha lanciato Human Technopole Italy 2040 pensando al futuro della ricerca, della tecnologia e delle scienze e alle opportunità per il nostro futuro come Paese. Occorrerebbe avere il coraggio di lanciare un progetto analogo nelle scienze sociali pensando ai nostri figli e al Paese nel quale dovranno vivere. E in questo progetto una parte rilevante dovrebbe essere costruita intorno ai sistemi collaborativi all’interno delle filiere nazionali e internazionali. Ed è solo se le migliori intelligenze sociali del Paese decideranno di mettersi in gioco che si può sperare di venire a capo dei nostri problemi, di superare i rischi di frantumazione del Paese e di contrasto generazionale, di dare un senso e una speranza al mondo del lavoro e dell’impresa. Certo può essere ingenuo pensare che tutto ciò possa avvenire in un Paese che si è ormai acconciato per scontrarsi su tutto sperando così, di non cambiare nulla. Però io ho fiducia che il tempo del cambiamento sta arrivando. Non dobbiamo solo farci cogliere impreparati.

Decentrare la contrattazione. Perché?

L’intervento di Giuseppe Bianchi di ISRIL ha il merito di togliere dal tavolo un equivoco che stava accompagnando la discussione sui livelli della contrattazione: i supposti vantaggi del decentramento della contrattazione nel territorio. Questa tesi ha certamente molti sostenitori di diverso orientamento e questo sta generando un dibattito dove, elementi obiettivi e ragionevoli si intrecciano con posizioni strumentali e tutt’altro che chiare. Secondo queste impostazioni, portare nel territorio dove l’impresa opera, un livello contrattuale sostitutivo o integrativo sarebbe più vantaggioso per tutti. Per il Sistema, per la produttività, per l’impresa e per il lavoratore. Insomma sarebbero tutti più soddisfatti e felici. Peccato che dietro a questa “idea” ci troviamo contemporaneamente chi vorrebbe sostituire un livello con l’altro, chi vorrebbe mantenerli entrambi specializzandoli e, infine, chi vorrebbe sommarne i benefici. Decentrare la contrattazione nazionale a livello aziendale è certamente complesso ma più comprensibile. Soprattutto per la grande impresa e, soprattutto, in settori senza la presenza di concorrenti diretti. Altrimenti all’azienda leader o a quella con una maggiore presenza sindacale toccherebbe pagare un prezzo maggiore senza alcun motivo rispetto ad oggi. Continuo, però, a non vederne i vantaggi per le piccole e medie imprese che oggi, limitandosi a rispettare in tutto o in parte il CCNL, non hanno ulteriori problemi sindacali. L’assenza di un elemento regolatorio e convenzionalmente accettato come il CCNL potrebbe addirittura portare a rischi di dumping contrattuale. Sempre che non si intenda rendere obbligatorio il confronto, garantendone il risultato comunque nel singolo territorio e, di conseguenza, in ogni parte del Paese. O addirittura di renderlo facoltativo e alternativo all’applicazione del CCNL di riferimento. In questo caso, dunque, solo impegno, discussioni inutili e burocrazia aggiuntiva per le imprese senza alcun corrispettivo concreto. Aggiungo che, mentre per i lavoratori il confronto sarebbe sul costo della vita di un territorio specifico, per l’impresa non sarebbe così. Il confronto è, già oggi, nella maggior parte dei casi, globale. Comunque non territoriale. E quindi non c’è nessun vantaggio a condividere forme di contrattazione che metterebbero l’impresa stessa in difficoltà rispetto ai concorrenti che operano in altri territori nello stesso segmento di mercato. Ma se non è vantaggioso per l’impresa la conseguenza immediata è che si cerchino soluzioni che, alla fine, inevitabilmente si ritorcerebbero anche contro i lavoratori. La proposta della Cisl sulla riforma della contrattazione, che è certamente la più completa, spiega chiaramente il carattere aggiuntivo o al massimo integrativo, quindi di scarso interesse per le imprese. Una start up artigianale o commerciale che si confronta con il mondo all’interno di una filiera specifica cosa c’entra, sul piano salariale, con il territorio dove è casualmente installata? E così una realtà economica di un settore specifico presente in un territorio ricco ma che fatica già oggi a reggere l’applicazione esclusivamente economica del CCNL perché dovrebbe trovare giovamento da un contratto territoriale? Infine, cosa dovrebbe spingere un piccolo imprenditore, che oggi si limita ad applicare la parte economica di un contratto nazionale, a rispettare un contratto territoriale più oneroso? Infine la libera scelta. Alcuni ribadiscono che sarà l’impresa a scegliere cosa applicare. È ovvio che l’imprenditore messo di fronte ad una alternativa sceglierà il “male minore” che non è detto coincida con l’interesse dei suoi collaboratori. Quindi andremmo a creare situazioni di conflittualità là dove oggi non c’è. Infine dobbiamo considerare che oggi abbiamo aree del Paese dove lo stesso CCNL non è applicato, addirittura settori economici interi dove non viene rinnovato senza alcuna giustificazione credibile se non dettata dai rapporti di forza oggi sfavorevoli al sindacato. Il caso della grande distribuzione è lì da vedere. Quando Federdistribuzione ha messo insieme le aziende associate (principalmente di grandi dimensioni) con esigenze e strategie diverse tra di loro era probabilmente convinta di poter fare un contratto nazionale specifico sganciato totalmente da quello di Confcommercio. Ma il livello di mediazione necessario per sottoscrivere un contratto con il sindacato non è accettabile dalle imprese che, fuori da logiche specifiche di scambio tra ciascuna di loro e le rispettive controparti aziendali, hanno vincolato, con un mandato molto rigido, i negoziatori impedendo, di fatto, un punto di incontro finale. La morale è semplice. Non se ne farà nulla. Oppure si “scimmiotterà” il CCNL del terziario lasciando, nel frattempo, il campo ad avvocati, tribunali e agitazioni sindacali che, anche se modeste, non sono utili alle imprese e al clima interno che servirebbe oggi. La contrattazione territoriale farebbe, secondo me, la stessa fine. Quindi tempo perso. Altra cosa sarebbe stabilire delle regole uguali per tutti a livello nazionale con le deroghe necessarie e spazi a livello di settore o di azienda. Per questo la riforma della contrattazione, secondo me, avrebbe bisogno di ben altre riflessioni di merito ma, soprattutto avrebbe bisogno di correttezza e lealtà di intenti. Se l’obiettivo è solo quello di ridurre il peso o il ruolo del sindacato come interlocutore non credo abbia senso cercare convergenze e condivisioni. Sarebbe solo una presa in giro. Altra cosa è se, dietro questa idea, c’è un progetto serio di ridisegno del sistema delle relazioni industriali del nostro Paese. Ma questo presupporrebbe mettere in campo una volontà progettuale di alto profilo che oggi non sembra all’ordine del giorno. Almeno questa è la mia sensazione.

Boeri? Preferisco i Mon Cheri.

Oggi non è popolare difendere i redditi medio alti. Esiste una convinzione diffusa che tutto ciò che supera una certa soglia di reddito sia fondamentalmente ingiusto e, in qualche modo disonesto. Figuriamoci quando si parla di pensioni. Gli argomenti messi sul tavolo cambiano a seconda del punto di discussione ma il problema resta. I giovani che rischiano di non percepire alcuna pensione, i vitalizi degli ex parlamentari, le baby pensioni, gli over 50, tanto per citare alcuni casi, sono messi lì a dimostrare che l’ingiustizia è evidente e che quindi un taglio netto sa da fare. Ovviamente, per ottenere il consenso generale, si mischia il tutto con abilità e si presentano tutti i percettori di pensione medio alte come “ladri di futuro”. Boeri ha buon gioco a presentare la sua proposta come equa e ragionevole. In un colpo solo si pone al centro del dibattito e lancia la sua candidatura a livello politico individuando un nemico facile: 350.000 “pensionati d’oro”. Per intenderci quelli da 2.200 euro netti in su. Senza alcuna distinzione. Beh! Io non sono d’accordo. E questo per una serie di ragioni. Innanzitutto perché questi cittadini hanno sempre pagato e pagano regolarmente le tasse. Oltre il 50% del loro reddito. Vederli etichettati come potenziali “ladri di futuro” da Boeri e da chi la pensa come lui non mi piace. In secondo luogo perché non mi piace l’idea che si possa essere giudicati dall’importo della pensione e non da come si è costruita in molti anni di lavoro. Queste persone hanno lavorato, hanno pagato i contributi richiesti, hanno costruito un reddito e, oggi, quando sono più deboli e attaccabili li si incolpa di egoismo sociale e di non voler rinunciare ad una parte della loro pensione per consentire una presunta operazione di equità interna al sistema. Poco importa se l’INPS è un carrozzone che mischia previdenza con assistenza, pensioni del settore privato e pubblico, dirigenti che hanno pagato i loro contributi e dirigenti che non lo hanno fatto, baby pensioni e prepensionamenti delle ferrovie o di altri settori e via discorrendo. Tutto questo non importa. Importa indicare un nemico fragile. Un “nemico” che oggi ha un reddito comunque costruito grazie al suo impegno e al suo lavoro. Ha potuto usufruire del calcolo della pensione con il metodo retributivo semplicemente perché questo valeva per tutti fino al 1994 e non solo per i percettori di pensioni medio alte. Come si fa adesso a pretendere che chi ha sempre pagato oltre il 50% di tasse per una vita oggi debba subire una pesante decurtazione del reddito? Perché di questo si tratta al di là delle balle mediatiche. E queste pensioni non c’entrano nulla con i vitalizi dei politici o gli “aggiustamenti” delle pensioni dei sindacalisti. Questa è una decurtazione del reddito attuale in contrasto con regole e leggi in vigore che hanno determinato l’accesso alla pensione di quelle persone e, naturalmente, l’importo corrispondente. Si dice che comunque qualcuno deve pur pagare per consentire un operazione di equità interna al sistema. Perché deve essere solo un’operazione interna al sistema dovrebbe essere spiegato. È una scelta come un’altra. Non è come prendersela con gli evasori. Lì si tratta di una categoria che non ha rispettato la legge. Qui è diverso. Boeri oggi come Fornero ieri. Gli esodati sono nati con un’operazione analoga. Prendersela con pochi, tanto nessuno reagirà. Questa è la filosofia. Anche allora fu detto che non c’erano alternative. La tecnica è sempre quella: caricare il problema su una piccola parte del Paese che non può reagire.  Veniamo ai supposti beneficiari da questa manovra. Gli over 50 a basso reddito. In parte, guarda caso, prodotti proprio dalla legge Fornero. Usarli oggi cinicamente come scudi umani dopo averli prodotti e poi dimenticati è veramente scorretto. Anziché preoccuparsi di come renderli appetibili fiscalmente per reinserirli al lavoro si pensa di cavarsela con un mini assegno di cinquecento euro al mese per tacitarli. Renzi e Poletti per il momento hanno saggiamente frenato l’impeto riformatore del professore. Speriamo sia lungimiranza e non semplice calcolo politico. Staremo a vedere. Forse è il caso di dire:”Dio ci salvi dai professori”.

Chi tira il freno a mano?

È vero. La stagione dei rinnovi dei contratti dell’industria e del pubblico impiego non si apre nei migliore dei modi. Sembra quasi che una reazione pavloviana costringa ciascuno dei contendenti a occupare un ruolo già assegnato. Falchi e colombe si dispongono cinicamente sul campo. Ciascuno urla le proprie ragioni in un Paese sempre più stanco e disinteressato ad assistere a rappresentazioni del passato. Nessuno dei protagonisti sembra accorgersene. Prima di parlare di salario, normative, diritti acquisiti e quant’altro si dovrebbe ragionare su dove vogliamo andare come sistema Paese e se, la stagione dei rinnovi contrattuali si inserisce o meno in questo percorso. In caso contrario il destino è già scritto: l’irrilevanza politica e sociale dei contendenti. È innanzitutto dalle tre Confederazioni che ci aspetterebbe un segnale chiaro. Inequivocabile. Lasciare che ogni categoria proceda in ordine sparso e, soprattutto, che i sindacati del pubblico impiego impostino una reazione tradizionale alle (modeste) proposte di rinnovo messe sul tavolo dal Governo è un errore grave che rischia di produrre conseguenze altrettanto gravi. Questo è il momento dove occorrerebbe individuare alcune priorità e procedere con iniziative mirate e coerenti. Prima di tutto nel confronto con i propri associati. Oggi più che mai serve intravedere una leadership forte e con le idee chiare. Il punto centrale, che piaccia o meno, è rappresentato dalla capacità di “rinnovamento” degli strumenti contrattuali che devono essere messi in campo tesi a creare convergenze e spazi di collaborazione vera tra capitale lavoro per recuperare competitività, produttività e voglia di crescere. Nel pubblico tra amministrazione dello Stato e Sindacati per rimettere al centro le esigenze degli utenti e l’ammodernamento del settore. E la contropartita dovrebbe essere fondamentalmente rappresentata dalla possibilità per i lavoratori di contare di più nelle scelte che li riguardano, avere a disposizione una formazione adeguata che non li lasci soli con i loro problemi di impiegabilità collegando le scelte contrattuali a serie politiche attive e, infine, un rinnovato sostegno al welfare contrattuale teso a bilanciare ciò che succederà inevitabilmente nei prossimi anni su questo terreno. Dario Di Vico ha ragione a dubitare della volontà di percorrere strade nuove da entrambe le parti. Procedere in ordine sparso, annunciare stagioni più o meno calde, banalizzare l’offerta di apertura del confronto proposta dal Governo non sono un buon viatico per “cambiare verso”. Nel settore pubblico mi sarei aspettato, dal sindacato, una cautela maggiore. Sei anni di mancato rinnovo del contratto non si accolgono, al primo segnale di apertura, con la dichiarazione dello sciopero generale. Certo la proposta è insufficiente, le aspettative sono altre, i Cobas spingono da sinistra però la situazione del Paese è sotto gli occhi di tutti. Forse sarebbe stato più opportuno entrare nel merito, proporre priorità, rinunciando con lungimiranza al rinnovo in alcuni settori. In altre parole proporsi come interlocutori attivi e non passivi. Il tempo dove uno sciopero più o meno riuscito possa cambiare significativamente la situazione è passato. A tutti coloro a cui sta a cuore il ruolo che i corpi intermedi possono ricoprire oggi ma soprattutto domani non può che preoccupare la piega che sta prendendo il confronto/scontro che si va ad aprire. Se il rinnovo dei contratti non riesce ad accompagnare la debole ripresa economica in atto si sarà persa un’occasione di protagonismo che rischia di non avere altre opportunità. È questo non è un bene per nessuno.

etica, dignità e senso del lavoro

In tempi di Jobs act e di lotta alla disoccupazione è difficile affrontare il tema del senso del lavoro, della sua organizzazione e delle modalità della prestazione in modo nuovo, diverso dal passato. È un tema centrale. Se ne sono accorte, nel mondo, le aziende più avanzate che hanno capito quanto occorra cambiare e proporre idee nuove che partano da una diversa filosofia del lavoro, della sua organizzazione, dei luoghi dove si svolge e che sappia mettere al centro la persona. In altre parole un luogo dove provare anche ad essere sereni e, perché no, addirittura felici. È l’altra faccia, altrettanto importante, del welfare aziendale o della responsabilità sociale dell’impresa. È l’impresa che sa anche guardare dentro se stessa. È l’idea, sempre più diffusa, che, per le persone, soprattutto le più giovani, è importante trovare un significato al proprio agire non solo nelle relazioni private e nella comunità nella quale sono inseriti ma anche nell’ambiente professionale. I tedeschi utilizzano un termine molto preciso:”Eigenschaften” (qualità umane). Un termine che non viene proposto per inseguire le mode farlocche che, purtroppo, in alcune imprese hanno caratterizzato le politiche di gestione delle risorse umane ma che punta a mettere concretamente le persone al centro rendendo compatibili ad esse l’eccesso di visione a corto termine, l’utilizzo strumentale di alcuni modi di essere (ad esempio: declamare valori e non praticarli, motivare senza essere motivati, utilizzare stage in modo scorretto, ecc.) e un’attenzione ai costi fine a se stessa così come si è prodotto in questi anni. È sempre interessante notare come lo scambio più importante che si realizza tra collaboratore e azienda nulla ha a che fare con l’impianto giuslavoristico che lo sorregge. Passione, creatività o entusiasmo non sono mai compresi né presi in considerazione. Tre caratteristiche, oggi molto più determinanti di ieri, che fanno la differenza tra due persone, ne caratterizzano l’impegno, il profilo professionale e il rapporto con la propria attività e il contesto aziendale. In altri termini mentre è normato con un dettaglio a volte esasperante l’aspetto quantitativo, disciplinare e normativo del rapporto ciò che dovrebbe caratterizzare la qualità della prestazione è pretesa (o data per scontata) ma non compresa nello scambio. È un po’ come se, la qualità dell’impegno, fosse solo un problema etico del singolo collaboratore. E non che il lavoro è innanzitutto realizzazione personale e riconoscimento sociale quindi ben più di una semplice prestazione dietro corrispettivo economico. E quindi coinvolge anche l’impresa. Questo limite discende sicuramente dalla cultura tayloristica che ha permeato la stragrande maggioranza delle organizzazioni aziendali, il contesto economico, sociale e contrattuale e ha, di conseguenza, contribuito a costruire il rapporto di lavoro con regole, norme e schemi che rendono molto difficile la valorizzazione della qualità del lavoro e del contributo specifico del singolo. La grande poetessa Wislawa Szymborska nella sua poesia sulla banalità del CV ci ricorda cosa è sempre stato considerato:…”Meglio il prezzo che il valore e il titolo che il contenuto. Meglio il numero di scarpa, che non dove va colui per cui ti scambiano….” Ma oggi tutto questo non è più sufficiente. Oggi si discute di nuove competenze, nuove forme di selezione e di gestione delle risorse umane, nuovi ambienti di lavoro. Tutto questo rimette prepotentemente al centro l’importanza della qualità vera del singolo lavoratore. Ritorna d’attualità il senso che ognuno assegna o meno al suo lavoro e quindi le organizzazioni devono essere sempre più in grado di produrre senso perché anche la produttività migliora se alle competenze e all’impegno richiesto a ciascuno, il singolo trova anche un significato a quello che sta facendo e quindi è disponibile ad aggiungere un suo contributo specifico. Anouk Grevin, nota sociologa francese, sottolinea come:”..purtroppo per i managers tradizionali contano i risultati e non la misura di quanto chi li ottiene mette di se stesso. L’impegno che i lavoratori offrono, nessuno lo vede e lo valorizza e ciò crea nei lavoratori senso di frustrazione e di malessere.”
Imboccare questa strada significa saper ridare al lavoro un significato più vero, riconoscendo non solo l’impegno personale ma anche ciò che va oltre la prestazione e il suo riconoscimento economico e normativo. Una sfida vera per il management nei prossimi anni.
Il successo delle organizzazioni più performanti passerà dalla consapevolezza che le risorse umane sono uniche e insostituibili se coinvolte e messe in condizione di dare il meglio di sé. Ma questo implica una capacità manageriale e delle organizzazioni di rimettersi in gioco e creare momenti veri di ascolto e di risposta ai problemi, alle proposte e alla richiesta di protagonismo dei propri collaboratori.

Dalla protesta alla proposta…

Di questi tempi si discute spesso dell’irrilevanza più che della presenza delle organizzazioni sindacali nella vita sociale e nelle imprese. Per alcuni questo è un segno dei tempi. Altri invocano a gran voce l’importazione dalla Germania del modello di sindacato partecipativo. Discussioni destinate a produrre ben poco. Il nostro Paese ha una tradizione sindacale di tipo conflittuale-antagonista. Un situazione come quella che ha coinvolto la Volkswagen non avrebbe mai prodotto da noi la maglietta:”Ein team, Eine familie” (una squadra, una famiglia) tipo quella indossata dai ventimila iscritti alla IGmetall, il sindacato metalmeccanico tedesco dell’auto poche settimane fa mentre ascoltavano, in silenzio, il nuovo CEO della Volkswagen promettere un piano lacrime e sangue. La FIOM o i Cobas avrebbero sparato ad “alzo zero” contro l’azienda, alcune trasmissioni televisive e alcuni giornali avrebbero fatto il resto con l’unico scopo di distruggere chi, fino ad un attimo prima, avevano subìto, temuto e rispettato. La nostra tradizione pesa. Per molti è difficile uscire da questo schema. Chi lo fa rischia. A volte non solo politicamente. Uscire da questa “gabbia” è la premessa indispensabile per costruire nuove regole del gioco nelle relazioni sindacali utili alle imprese e ai lavoratori. Ci stanno provando alcune federazioni della CISL e, nella conferenza organizzativa della CGIL, ci sono stati certamente spunti interessanti di riflessione. Fuori dal sindacato confederale l’esperienza di Manageritalia mi sembra l’unica degna di nota. Potrebbe sembrare evidente per un sindacato di dirigenti essere propositivi senza, per questo, essere subalterni ma questo non spiega a sufficienza un lavoro importante e continuo fatto dai suoi principali esponenti, nel tempo, per introdurre una cultura di solidarietà nella categoria. Una categoria, ben tutelata, dove però la stragrande maggioranza è ben lontana da condizioni spesso strumentalizzate sui media. Come spiegare altrimenti l’assistenza sanitaria a disposizione dell’intero nucleo familiare indipendentemente dalla numerosità dello stesso, il progetto Managerattivo a supporto dei dirigenti che hanno perso il lavoro e un sistema di welfare complessivo che tutela anche i pensionati. Ma anche la formazione e significative iniziative di coinvolgimento e di convivialità. Certo hanno potuto anche contare, nel tempo, su una controparte più sensibile di altre. Ma non è questo il punto. Potevano, negli anni, percorrere una strada simile a quella compiuta in altri settori in un contesto dove l’individualismo è ancora molto forte ma dove, al contrario, sono riusciti a radicare negli associati la convinzione che compito delle organizzazioni sindacali è quello stare sempre un passo avanti ai propri associati sia nel proporre miglioramenti sia nel gestire modifiche dello status modellando le norme sulle esigenze proposte anche dalle imprese. Un modello contrattuale che ha senso perché risponde all’esigenza di entrambe le parti. Quindi anche dell’impresa. Il sindacato, in generale, potrà porsi obiettivi di partecipazione se affronta innanzitutto, sul piano culturale, la necessità di cambiare. Prima di tutto se stesso. L’alternativa è la progressiva emarginazione o peggio, l’irrilevanza. Nel pubblico impiego, ad esempio, le proposte di rinnovo dei contratti del Governo sono state immediatamente respinte. 300 milioni (da cui togliere la parte relativa alle forze dell’ordine) sono pochi, d’accordo. Sono 6 anni che i contratti sono fermi e ci sono problemi di mobilità territoriale, esuberi, carenze e aspettative. Ma non ci sono grandi margini di manovra. Sono state proclamate le agitazioni di rito e l’intera vicenda si sta incanalando verso una liturgia classica in una fase economica completamente diversa dal passato. Un sindacato “tedesco” avrebbe accettato la sfida. Avrebbe proposto un negoziato differenziando priorità di intervento, settori da accontentare magari rinunciando al rinnovo in altri. Si sarebbe fatto carico delle difficoltà senza farsi scavalcare da nessuno. Avrebbe rilanciato con proposte sull’occupazione e sul merito coinvolgendo i propri associati sul futuro del lavoro pubblico. Cose che, purtroppo, non si faranno. Occorre scegliere; o un passo avanti, con tutti i rischi di rapporto con i lavoratori e di scavalcamento di altri sindacati come alla Fiat e altrove ma con una strategia chiara, oppure irrilevanti tutti insieme. Occorre scegliere, appunto.

Ho un buon CV ma non mi chiama nessuno. Perché?

La letteratura specialistica è prodiga di consigli su come scrivere bene un CV o come affrontare in modo brillante un colloquio di lavoro. Esistono manuali, corsi di formazione e trucchi vari per rendersi più credibili agli occhi del più sofisticato selezionatore. Quindi sembrerebbe sufficiente saper scrivere ciò che ci ha visto protagonisti nei nostri percorsi professionali e saperlo raccontare con sufficiente convinzione. Sembra tutto molto semplice. Purtroppo non basta. A volte non si ha neppure la soddisfazione di sapere se il CV è scritto bene perché non arriva nessuna risposta. Così come un colloquio, preparato molto bene e portato a termine in modo pressoché perfetto, non ha alcun seguito. E allora? Nella maggior parte delle selezioni una pur buona impostazione non è sufficiente. Contano le referenze, quindi le relazioni e il feeling che scatta o meno con l’interlocutore che dovrà decidere. Certo anche gli aspetti economici sono importanti perché sul mercato, oggi, si trova di tutto e di più. Però questo è il punto da cui partire. Chi deve assumere sa, generalmente, cosa vuole. Nei CV che legge, nei colloqui, nel brief agli Head Hunter, nel passaparola l’idea delle caratteristiche personali da individuare è chiara e quindi la ricerca è sempre abbastanza precisa. Certo è possibile cambiare idea a fronte di una candidatura particolare e non prevista ma è molto difficile. Possibile ma improbabile. Chi cerca, poi, può “permettersi” di sbagliare nel senso che, al massimo, verrà giudicato sulla qualità di chi ha selezionato non certo su chi non ha neppure preso in considerazione. Chi si offre di tutto ciò non sa nulla. Invia il suo CV, si prepara all’eventuale colloquio ma non conosce nessuna caratteristica personale del candidato ideale già in mente al potenziale selezionatore. Conosce a mala pena capacità e competenze richieste perché le ha lette sulla inserzione o ne ha sentito parlare da terzi. Non sa se in quella determinata azienda, in quel reparto o in quella squadra si cerca un giovane, una persona estroversa o una donna. Oppure se, assolutamente, non si vuole un ingegnere gestionale o una donna sposata o, infine, se, un over 50 in una squadra di trentenni, è meglio evitarlo perché potrebbe non funzionare. E così via. Ed ecco che un buon CV che comprende tutte le competenze e capacità professionali richieste non c’entra improvvisamente nulla con quella ricerca. E allora cosa serve scrivere un ottimo CV e prepararsi all’eventuale colloquio? In questi casi, niente. E così anche in tutti quei casi dove offerta e domanda sono asimmetriche. Ma il punto è proprio questo. Un CV fatto bene e la capacità di superare tutti i colloqui possibili deve sempre fare i conti con la realtà. E la realtà è lì a dimostrare che in questo mercato del lavoro non si gioca mai alla pari. È una gara, certo, però tra diseguali. È come partecipare ad un concorso a quiz dove alcuni conoscono in anticipo le risposte, altri hanno, più o meno inconsapevolmente le caratteristiche per vincere e, infine, c’è anche chi parte da zero sperando nella buona sorte. In teoria possono vincere tutti. La realtà, però, è ben diversa. E allora non serve a nulla prepararsi? No. Occorre farlo, sempre. Ognuno concorre nella propria corsia. Ci sono tante ricette diverse su come fare un CV  in base a esperienze e a professionalità differenti. Occorre prenderle tutte con grande cautela sapendo che sono semplicemente stimoli che vanno adattati alle proprie esigenze. Se non si hanno segnalazioni o informazioni precise occorrerebbe, innanzitutto, capire dove si vorrebbe inviare il CV e perché. Oggi la rete può aiutare. Raccolte tutte le informazioni possibili il CV va indirizzato ad una persona precisa, non genericamente all’azienda. Che sia il titolare, il CEO, il DHR o un manager di linea occorrerebbe scegliere sempre un potenziale interlocutore. Può essere inutile? Certo che sì. Inviare un CV generico ad un’azienda qualsiasi lo è, però, ancora di più. Analizzando in rete l’impresa individuata a volte si possono capire molte cose interessanti. Come si presenta, qual’è il suo mercato chi, tra i suoi manager, si muove con una certa libertà con interviste o altro. Insomma la rete può aiutarci a predisporre un piccolo dossier di riferimento che potrà servire anche in una seconda fase in vista del colloquio. Come scrivere allora il CV? In modo sintetico, comprensibile, scevro da banalità. Chi legge cerca sempre qualcosa che già ha in mente seppur in modo non definito. Sa, ad esempio, cosa preferisce il committente finale in termini di caratteristiche generali magari non esplicitate chiaramente nella ricerca. Più che cercare di presentarsi in modo artefatto è meglio cercare di essere se stessi privilegiando una prosa asciutta, essenziale, diretta. Essere se stessi nel testo scritto come di persona. Personalmente ho sempre preferito questo approccio. E se nessuno risponde? Significa solo che hanno scelto un altro. E allora anziché perdersi d’animo, occorre insistere. Sempre. Mi è capitato in tanti anni di carriera, di essere contattato da Head Hunter per posizioni, di un certo interesse, in una determinata azienda che, per varie ragioni, non si sono concretizzate. Ammetto di aver provato una certa delusione perché ritenevo di essere la persona giusta per quel posto e perché le aziende erano importanti. E, non lo nego, perché avevo bisogno e voglia di cambiare. In alcuni di questi casi e a distanza di un paio di anni, dopo una verifica attenta, mi sono accorto che le persone scelte al mio posto erano già state sostituite da altre. Siccome non credo alla fortuna ho pensato fosse un caso ma da queste esperienze ho tratto una morale. Semplice ed efficace. Se non dovrà funzionare è meglio che non funzioni da subito. Quindi è meglio non essere scelto. In questo modo eviteremo di perdere tempo in due….

Ritrovare il lavoro perduto. Difficile ma non impossibile…

In questi anni (marzo 2010 – febbraio 2015) 762 dirigenti su 1037 partecipanti sono stati ricollocati grazie ad un progetto chiamato “Managerattivo” promosso da Manageritalia e Confcommercio. È una esperienza unica in Italia. Poco conosciuta ma, secondo me, molto importante e degna di nota.
50 edizioni tra Milano e Roma svolte presso il CFMT accompagnate da una variazione interessante chiamata “Managerinmpresa” che ha permesso ad oltre 30 piccole imprese di “ingaggiare” un manager scelto tra quelli presenti nel database di “Managerattivo” per realizzare specifici progetti pilota. Manager che hanno potuto utilizzare parte del loro tempo arricchendo il proprio CV con una esperienza a stretto contatto con imprenditori desiderosi di “tirare fuori dal cassetto” sogni o idee alle quali non potevano dedicare tempo o energie interne. Il merito va a chi ha creduto nel progetto, lo ha pensato e lo ha gestito: Giuseppe Truglia, Luigi Iagulli e Roberta Corradini insieme a qualificati partner esterni. Ne cito due su tutti: Anna Calvenzi di Acoté e Anna Graglia di Standler. Professionisti che, con ruoli e punti di osservazione diversi, hanno intuito, compreso, studiato e proposto una modalità innovativa di gestione di una fase delicatissima nella carriera di un manager. A prima vista potrebbe sembrare la “solita” variazione sul tema dell’outplacement. Non è così. L’outplacement in Italia, purtroppo, non è mai decollato sul serio. Non amato particolarmente dai sindacati confederali, utilizzato con parsimonia dalle imprese e vissuto come poco utile da molti lavoratori ha prodotto piccoli numeri in rapporto alle necessità e alle potenzialità. Tra i dirigenti c’è stata sicuramente una maggiore consapevolezza ma i numeri non sono, neanche in questo caso, particolarmente incoraggianti. La stessa opzione pur prevista dal CCNL è utilizzata pochissimo. Sicuramente Manageritalia, l’associazione sindacale dei dirigenti del terziario, ha lavorato per far crescere questa consapevolezza tra i propri associati. Questo progetto ne è la dimostrazione. Innanzitutto i numeri e la durata dimostrano che esistono concretamente le possibilità di arricchire e rendere più efficaci e rapidi i processi di transizione. Il percorso proposto prevedeva, innanzitutto, un colloquio di orientamento. Questo ha rappresentato il primo approccio con il futuro percorso formativo ed è un’occasione per riflettere sulla propria storia professionale, mettere a fuoco le competenze acquisite e motivare le scelte future. A questo seguiva un assessment di una giornata che aveva lo scopo di valutare le competenze in un’ottica di potenziale lavorando sulla carriera e sul piano di sviluppo individuale. Il profilo veniva poi restituito con un colloquio a distanza di 15 giorni dell’assessment e rappresentava la base per il lavoro con il coach personale chiamato “guida”. Questo è, dal mio punto di vista, il vero valore aggiunto del percorso proposto unito alla possibilità di essere parte di un gruppo che viveva lo stesso problema e quindi si motivava partecipando ad un’esperienza comune. Altri moduli completavano il programma e prevedevano, a seconda delle scelte individuali, come affinare strategie e strumenti per rientrare in azienda o come affrontare il passaggio dalla managerialità all’imprenditorialità nel caso si optasse per proporsi come startupper. Ecco, la differenza, rispetto ad altre esperienze, è forse rappresentata dalla passione, dall’impegno e dal coinvolgimento sia di Manageritalia che di chi, nel CFMT, ha messo a disposizione la propria professionalità e il proprio impegno personale, determinando il successo dell’iniziativa. Una recente survey lo ha evidenziato in modo netto.
Adesso questa progetto, pur concluso, ha lasciato a tutti importanti spunti di riflessione su ciò che può essere attivato e proposto in futuro. Soprattutto come reimpostare un percorso utile che lasci ai professionisti dell’outplacement il loro ruolo ma che consenta al CFMT di mettere a disposizione del dirigente il supporto necessario per riflettere per tempo sul proprio percorso e utilizzare la leva formativa in modo adeguato. Interessante, infine, è l’idea partita da alcuni colleghi che sono passati da questa esperienza che vorrebbero lanciare la proposta di creare una community per promuovere iniziative e costruire una rete di relazione efficace nel tempo.
È da progetti come questi che possono nascere nuove proposte in grado di allinearci alle migliori esperienze europee di politiche attive utili per predisporre in futuro strumenti innovativi che possano aiutare a prevenire, evitare o ad attutire al massimo, il trauma personale conseguente alla interruzione forzata del rapporto di lavoro non solo dei manager.

I collaboratori, come i capi, non sono tutti uguali…

Di questi tempi, in azienda, non è facile gestire seriamente i propri collaboratori. Aggiungo che non sono moltissime le aziende dove è presente e in uso un sistema strutturato di valutazione e sviluppo delle risorse. Questa situazione impedisce ai capi meno esperti di crescere nella capacità di ingaggiare, valutare e gestire singoli e team e quindi di far crescere i propri collaboratori. È questo crea situazioni di disagio. Apprendere specificità, diversità, metodologie e quindi dosare il proprio impegno nel coinvolgere i propri collaboratori è altrettanto importante che avere le competenze richieste per coprire una posizione manageriale. E quando ci si trova in difficoltà si mettono in crisi rapporti personali e si rischia di non ottenere quel contributo di passione, di impegno e di idee dalle proprie risorse spesso compromettendo il raggiungimento degli obiettivi di business. E, se così è, si viene messi in discussione. Un buon Capo sa capire e gestire le differenze, sa aiutare i collaboratori a crescere ed è soddisfatto quando alcuni di loro, in azienda, o fuori, si affermano professionalmente dimostrando, in questo modo, la propria capacità nell’averli cercati, selezionati, gestiti e aiutati a crescere quando erano più giovani.
I collaboratori, però, non sono tutti uguali. C’è chi cresce prima e chi dopo. E c’è anche chi non cresce mai. Occorre, però, sempre ricordare che, in azienda, esistono tre punti di osservazione. Il proprio, quello di chi ci sta di fronte e quello dell’azienda che potrebbe non coincidere né con il nostro né con quello del nostro interlocutore. Quindi è necessario avere sempre presente che i pregiudizi, la superficialità, i luoghi comuni, oggi non funzionano. O, meglio, non fanno crescere né il capo né il collaboratore. Il “Si è sempre fatto così”, “se non ti va te ne puoi anche andare”, “si fa così e basta”, “il capo sono io” rappresentano una cultura in via di estinzione o comunque priva di prospettive. I collaboratori vanno capiti e guidati, per fare questo, vanno ascoltati e gestiti. Per questo può essere interessate provare a ragionare sulle caratteristiche e sulle principali differenze oggettive tra soggetti appartenenti a categorie diverse. A questo andranno poi aggiunte, ovviamente, tutte quelle considerazioni soggettive e specifiche, indispensabili per una corretta valutazione. È una semplificazione che però può aiutare a riflettere. Nulla di più.
1) Il collaboratore brillante ma giovane
Appartiene alla generazione Y e va fino alla generazione Z. La sua idea di lavoro è profondamente diversa da chi lo ha preceduto. Non vive per l’azienda né vorrebbe trascorrervi un tempo infinito. Chi appartiene ad altre generazioni spesso pretende troppo da sé stesso e dagli altri. La quantità di tempo da investire in azienda è altra cosa rispetto alla qualità della prestazione. Il giovane, in genere, è portato a cercare un equilibrio continuo tra impegno professionale e contesto personale, spesso frequenta i social e pretende un senso in tutto ciò che fa. Nel lavoro occorre saperlo coinvolgere su diversi progetti non solo per misurarlo professionalmente ma anche per evitargli la routine. A volte sa andare ben oltre il ruolo assegnato e cerca sempre di portare un contributo positivo e costruttivo. Il capo deve lasciarlo esprimere il più liberamente possibile, aiutandolo, al massimo, a contestualizzare e a inquadrare gli aspetti che a lui sfuggono per mancanza di esperienza. Infine deve cercare di abituarlo a saper prendere la giusta distanza dai problemi insegnandogli a non reagire mai a caldo, a non dare giudizi sugli altri senza aver esaminato i differenti aspetti di un problema.
2) Collaboratore con figli o con problemi familiari
Contrariamente a quanto si crede chi ha problemi extralavorativi (soprattutto le donne) sono i più coinvolti e impegnati nel lavoro. Sono generalmente persone affidabili e produttive. Per aiutarli a sviluppare il loro potenziale il capo deve, innanzitutto, sapersi mettere nei loro panni. Ad esempio evitando di programmare riunioni tardi la sera o tollerando assenze impreviste. Agendo in questo modo e non colpevolizzando nessuno a causa di impegni improvvisi gli stessi saranno compensati da un importante investimento sul lavoro del collaboratore. Donne e uomini divorziati, famiglie con problemi e impegni extralavorativi richiedono una diversa tolleranza e un diverso approccio rispetto al passato in tema di impegno qualitativo e quantitativo sul lavoro.
3) Il futuro pensionato
Il prolungamento della vita lavorativa porta con sé la necessità di imparare a gestire collaboratori alla fine del loro percorso professionale. In genere sono arrabbiati con la Fornero, ipersensibili alle critiche e diffidenti verso capi più giovani di loro. Il rischio è di spingere, chi è in queste condizioni, a pensare di non aver più nulla da dimostrare e quindi a chiudersi in atteggiamenti passivi fino alla pensione. Al contrario occorre saper gestire queste persone con grande cautela facendo leva sull’importanza che l’azienda intende assegnare alla loro esperienza come ricchezza da valorizzare. A questo collaboratore potrebbe essere utile assegnare un ruolo di trasmissione di competenze che comunque non andrebbe mai sottovalutato. Per questo un capo dovrebbe incentivare i collaboratori più giovani a porre domande a loro, a far tesoro della loro esperienza, a far sentire il collaboratore anziano ancora utile all’azienda.
4) Lo stagiaire
L’errore più comune è non considerarli proprio. Quasi fossero fantasmi di passaggio. Al contrario con i costi di selezione e di ricerca avere la possibilità di valutare e impiegare in azienda giovani che poi potrebbero restare a lungo è un fattore importante. Un buon capo sa assegnare allo stagiaire un tutor di riferimento, obiettivi realizzabili e lo aiuta a crescere proponendogli momenti di confronto per coinvolgerlo. Quindi gli assegnerà dei lavori anche parziali e modesti ma dove lui stesso potrà apprezzarne i risultati. Questo non solo sarà utile per la sua crescita ma lascerà a lui una buona immagine dell’azienda e del Capo che porterà con sé anche altrove. Con l’utilizzo esagerato che si è fatto nelle imprese di questa figura pochi hanno considerato come la reputazione stessa dell’azienda risenta di ciò che chi vi ha lavorato anche per pochi mesi trasmette all’esterno.
5) Il lavoratore a tempo parziale
Spesso si pensa che chi lavora a metà tempo va gestito come un collaboratore di passaggio. O a metà. Niente di più sbagliato. Soprattutto non bisognerebbe mai assegnargli ciò che gli altri non vogliono fare. Il capo deve accettare l’idea che il collaboratore deve essere impegnato per il tempo equivalente e non caricato oltre il suo orario se non strettamente necessario. Colpevolizzare il collaboratore con orario ridotto (per scelta sua o spesso per scelta aziendale) non serve a nulla se non a frustrarne motivazione e impegno.
Il collaboratore da promuovere
Per prima cosa occorre accertarsi che la promozione che si vorrebbe assegnare sia il vero obiettivo del collaboratore. Non sempre lo è. Soprattutto per chi pensa di avere ancora delle possibili aree in cui è necessario crescere. Essere un ottimo specialista non significa saper gestire le persone e saper gestire le persone non sempre è accompagnato dalla capacità di mantenere alto il proprio livello di specializzazione. Spesso chi viene promosso è chiamato a gestire collaboratori che fino al giorno prima erano colleghi e questo può generare grosse difficoltà. Al Capo spetta accompagnarlo in questa nuova situazione perché intervenire dopo è spesso troppo tardi. Accompagnarlo nei primi mesi significa fornire tutti gli strumenti utili e i punti di riferimento necessari al suo nuovo incarico ed essere sempre disponibili a supportarlo. Potrebbe anche essere utile un coaching di supporto con esperti esterni propedeutici della promozione.
6) Il futuro ex
L’approssimarsi della fine di un contratto a tempo determinato, le dimissioni o un licenziamento spingono questa tipologia di collaboratore a considerarsi in uscita e quindi con scarsa motivazione e poco propenso a essere coinvolto. Se lascia l’azienda dopo pochi giorni il problema non sussiste ma, spesso, l’azienda ci mette del suo pretendendo la presenza sul posto di lavoro fino all’ultimo giorno del preavviso ma sottovalutandone la gestione interna. E quindi? In genere questo collaboratore viene pagato ma scarsamente utilizzato: una sciocchezza per l’azienda che lo paga inutilmente e per il collaboratore che si trova stipendiato senza fare nulla. In questo caso sarebbe molto meglio coinvolgerlo sui progetti che conosce e che ha seguito fino a quel momento fornendo a lui obiettivi o attività stimolanti anche se non strategici o di lungo periodo.
7) Il numero 2
È quello che aspira al posto del capo. Difficile da gestire perché in genere si muove coperto. L’unica arma con lui è il dialogo. Se il Capo merita quel posto non deve avere nessuna preoccupazione nella sua gestione.
Occorre ricordare sempre al numero 2 qual’è la sua posizione, fargli i complimenti per il suo spirito di iniziativa e per i suoi successi ricordandogli però sempre qual’è il suo posto nel suo interesse e nell’interesse dell’azienda. Occorre saperne sfruttarne l’energia positiva e spingerlo alla collaborazione continua accettando però l’idea che l’ambizione personale e la voglia di crescere rappresentano un valore positivo in una impresa.
8) Il nuovo arrivato
Chi è appena arrivato in azienda vuol fare una buona impressione con tutti. E questo provoca stress anche per paura di sbagliare. In poco tempo il nuovo arrivato deve apprendere un linguaggio nuovo, una cultura spesso diversa da quella di provenienza, interagire con colleghi e con strumenti differenti. Quindi si muove in modo spesso impacciato. Il capo si deve mostrare indulgente a fronte di inevitabili errori spiegando dove e perché ha sbagliato e rassicurando il nuovo collaboratore. Nelle prime settimane occorre prevedere degli incontri specifici sul contesto di lavoro, le difficoltà incontrate, l’adattamento, i colleghi, ecc. finalizzate ad abbassare lo stress e a finalizzare l’impegno.
A queste tipologie se ne potrebbero aggiungerne altre. Il collega polemico, quello con problemi personali, il millantatore, il sindacalista o quello che lancia il sasso e nasconde sempre la mano. Infine quello che da sempre la colpa agli altri. L’azienda è un contenitore ricco di umanità varia. Gestire diversità, tensione, competizione, atteggiamenti infantili o prepotenti fa parte dei compiti di chiunque ha a che fare con risorse e carriere. Per questo fare il capo non è facile. Come tutti i mestieri si può però apprendere come farlo al meglio. Questo deve essere l’obiettivo.