È solo di Marchionne il successo?

Non c’è quotidiano che non sottolinei i successi del CEO FCA. Anche chi ha dovuto compiere una conversione di 360 gradi passando da critiche feroci e pregiudiziali al sostegno incondizionato. Ha certamente dimostrato di essere un ottimo manager e i risultati ottenuti sono evidenti. Per quanto mi riguarda c’è un però. La sua non è una vittoria solitaria. Ed è incomprensibile che, proprio lui, non capisca che nel momento del trionfo è sempre buona cosa dividere gli onori con chi lo ha reso possibile. Certo Renzi e il Governo sono stati alleati indispensabili e questo va loro riconosciuto. Ma non è abbastanza. Nella solitaria lotta contro la FIOM di Landini Marchionne ha trovato altri interlocutori sindacali cche hanno scommesso su di lui e sulle sue promesse rischiando la loro reputazione e, a volte, la loro incolumità. FIM, UILM e Fismic hanno sottoscritto e poi difeso (non subìto) gli accordi sottoscritti nelle assemblee e nei referendum accettando di passare agli occhi di media poco attenti come succubi di Marchionne, sindacati gialli e via discorrendo. Si sono dipinte all’esterno e sulla stampa le fabbriche come opifici dell’800, piegate e umiliate da un padrone delle ferriere dove solo la pistola alla tempia a ciascun lavoratore ha permesso lo scempio dei diritti e instaurato una nuovo concetto di schiavitù. Mi rendo conto che per molti sindacalisti, soprattutto quelli con cui condivido l’età Marchionne è un’anomalia evidente. Temo anche per molti dirigenti aziendali che si sono visti mettere in discussione e spazzare via in pochi istanti carriera e reddito. Ma Marchionne è un prodotto specifico di questa epoca, svelto, globale e opportunista. Inaccettabile per chi pensa di poter dettare tempi, modalità e contenuti delle relazioni industriali come fossimo nel secolo scorso. Marchionne aveva una strategia, una filosofia e un comportamento difficile da accettare e da condividere. Non ero presente al tavolo in cui si sono svelati i passi da compiere e quindi mi limito a osservare da fuori. Al sindacato non restava che accettare la sfida o scommettere sul fallimento e non sedersi nemmeno. C’è chi ha fatto la prima scelta e chi la seconda. Beh, Marchionne sbaglia a non condividere questo risultato con chi gli ha creduto e ci ha messo la faccia. Soprattutto la FIM CISL che ha il maggior numero di iscritti in azienda. È questo per due ragioni. Innanzitutto perché ammettere che esistono uno o più sindacati che nella collaborazione e nella conseguente sottoscrizione di intese hanno rilanciato un ruolo fondamentale  per il futuro dell’impresa e dei lavoratori  è semplicemente la verità. Nessuno può vincere da solo. In secondo luogo perché è interesse del Paese che cresca la consapevolezza e lo spazio per un sindacato riformista e collaborativo che sa difendere gli interessi dei suoi rappresentati in modo efficace se pur diverso dal passato. Nel mondo globalizzato il lavoro in un Paese si difende anche creando alleanza nella filiera nella quale l’azienda è inserita fuori da logiche classiste. Altri si dedicheranno, legittimamente, alla costruzione di sindacati che continuano a trovare nel conflitto e nella contrapposizione la loro ragion d’essere. Ma non legittimare i primi è un errore che un manager del livello di Marchionne non dovrebbe commettere.

Collaborare è meglio di partecipare…..

Quando si parla di partecipazione dei lavoratori nell’impresa riaffiora la solita discussione sul modello tedesco. Anche Susanna Camusso lo riprende nell’ultima intervista alla Stampa indicandone anche due temi su cui indirizzare la discussione: investimenti e organizzazione. Cioè due temi dove non ci sarà mai, in Italia, una disponibilità vera delle imprese. Si potrà parlare di comunicazione preventiva, di collaborazione finalizzata ad affrontare il mercato ma, fino a quando la cultura sindacale non avrà decisamente imboccato la strada della condivisione dei valori e della cultura delle imprese non ci saranno passi avanti. E Susanna Camusso lo sa bene. Quindi il discorso sulla partecipazione tedesca o italiana resta ancora nel campo della propaganda. La vera sfida dovrebbe essere quella di prendere atto che una stagione si è chiusa e contribuire a ridisegnare nuovi confini (piú ridotti) per l’attività sindacale. Certo è difficile per chi ha vissuto l’epopea degli anni 60 ma sarà inevitabile. L’unico modello di partecipazione che si è affermato negli anni da noi, il professor Baglioni lo avrebbe chiamato di “partecipazione concessiva”. Un modello che non mette in discussione le scelte aziendali ma le accompagna cercando di attenuarne i possibili effetti negativi sui propri rappresentati. Oggi, sulla carta, è possibile occuparsi di tutto e quindi il rischio è che non si conti nulla su niente. Certo si può sempre lasciar fare le imprese restando in panchina senza condividere alcunché. Però un sindacato che non si confronta, non discute e non sottoscrive accordi non serve a nessuno. Per questo piú che parlare di partecipazione (tedesca o italiana) io parlerei di collaborazione allo sviluppo delle imprese e del lavoro. Si sta aprendo un dibattito interessante nella Cisl, nelle sue categorie e in alcune importanti strutture sul modello di sindacato dei prossimi anni. Forse è il caso di partire da lì. Non c’è una soluzione e ci sono enormi diffidenze da superare anche in campo imprenditoriale. Una cosa però è certa: il taylorismo ha imboccato il viale del tramonto e si sta portando con sé la vecchia cultura novecentesca che ha permeato le relazioni sindacali, i modelli contrattuali  e il lavoro sia sul piano della qualità che della quantità. Lasciare che la globalizzazione e il mercato ridisegnino il nuovo perimetro è un errore. E non sarã né un accordo tra le parti sulla rappresentanza né un accordo sui livelli contrattuali a cambiare la direzione di marcia che ha preso il Governo. Così come i rapporti di forza, sicuramente asimmetrici, che oggi spingono le imprese verso modelli ben diversi da quelli auspicati da chi crede nell’equilibrio e nel confronto. Non c’è molto tempo perché nei prossimi mesi si determinerà la direzione di marcia, Per le organizzazioni di rappresentanza (datoriali e dei lavoratori) si apre una fase importante. L’importante è non sprecarla.

Manager sarà lei!

Se pensiamo al recente dibattito sulla “buona scuola” o quello sulla sanità italiana la parola manager, presso parte dell’opinione pubblica ha un accezione certamente negativa. Chi rivendica maggiore managerialità nel settore pubblico spesso viene spinto a dover scegliere tra efficienza ed efficacia, tra cultura aziendale, intesa come cultura del costo come priorità, e cultura del servizio, quasi come questi mondi fossero sempre e comunque inconciliabili. Gaber si inserirebbe in questa disputa ricordandoci forse che l’efficienza è di destra mentre l’efficacia è certamente di sinistra. È una discussione che segnala un modo di pensare abbastanza radicato e diffuso nel nostro Paese. Non tanto e non solo nel settore pubblico. La scarsa presenza manageriale nelle piccole e medie imprese rappresenta un altro segnale evidente. Il nostro sembra essere, per certi versi, un Paese di imprenditori e lavoratori autonomi che vogliono o che cercano di fare da sé e che individuano come potenziali concorrenti nella divisione del reddito disponibile, pensionati, lavoratori pubblici e dipendenti (manager, impiegati e operai) delle grandi aziende, soprattutto del nord. Salvo eccezioni circoscritte i dati sembrano confermare questa situazione. Questa peculiarità ha contraddistinto la storia economica del nostro Paese ne ha evidenziato i suoi limiti ma ne anche rappresentato la sua forza. Mi ricordo negli anni ’70 una battuta di un imprenditore che, fino a quel momento aveva resistito ad assumere un manager esperto di marketing che si visto accogliere con questa frase: “Si ricordi che la nostra azienda è diventata importante senza il marketing, vorrei continuasse ad esserlo, nonostante il marketing”. Personalmente credo che, fino all’avvento della globalizzazione, questa peculiarità poteva resistere e mantenere un suo tratto distintivo. Non se lo può più permettere in un’epoca come quella che si è aperta. E questo vale sia nel settore pubblico che non ha più risorse da sprecare ne da investire che nella piccola e media impresa che, per crescere e misurarsi con il mondo, ha bisogno di cultura, capacità e competenze che sono connaturate più alla figura del manager che del piccolo imprenditore tradizionale. L’azienda nella filiera nella quale è inserita sta cambiando. Deve saper dialogare con il mondo e integrarsi nel territorio di cui è espressione. Deve valorizzare capacità e competenze dei propri collaboratori siano essi manager o altro, deve porsi diversamente con fornitori e clienti. Deve saper sviluppare partnership adeguate alle sfide che ha di fronte. Deve saper interpretare un ruolo imprenditoriale diverso dal passato. Meno autonomo e individualista più collaborativo e intraprendente. Deve essere lui stesso in qualche modo un manager e saper interagire con manager preparati che possono portargli visioni e punti di osservazioni del mondo e del business più aperti. Così come nel pubblico dove la cultura manageriale è indispensabile per gestire e razionalizzare le risorse economiche e umane a disposizione. Ma anche i manager, però, devono cambiare. Lavorare in una piccola impresa non è come lavorare o interagire con colleghi in una multinazionale. La dimensione produce una cultura diversa, dove la sostanza, la rapidità e la capacità di risposta ai problemi è più di tipo imprenditoriale. È l’esempio personale, la conoscenza concreta del problema, la capacità di proporre soluzioni innovative ma praticabili e di sapersi assumere le proprie responsabilità che fanno premio sullo status o sul proprio percorso professionale. L’esperienza e la conoscenza di un problema non sono sufficienti se non utilizzate per convincere e coinvolgere. In questo sta la qualità di un manager: sapersi confrontare con la realtà, offrire soluzioni praticabili e creare il clima interno adatto alle sfide da affrontare. E, ultimo, ma non ultimo, la capacità di gestire il proprio capo che, in questo caso non è un manager a sua volta in carriera ma è il proprietario dell’azienda. Nel pubblico, ovviamente, le cose sono diverse. Non c’è l’imprenditore, il business e il mercato. C’è però una cultura che deve affermarsi e crescere. Quella del bene collettivo, dell’etica del lavoro e della centralità del cittadino. Anche su questo un manager non si improvvisa. Servono anni, formazione, valutazione e strutture che possano aiutare la creazione di una classe di manager diversa, aperta e desiderosa di portare le risorse umane di cui ha la responsabilità alla realizzazione degli obiettivi a loro assegnati. Serve una nuova cultura del merito e dello sviluppo delle risorse che nel pubblico è ancora lontana dall’essere immaginata, decisa e praticata. Deve avere nel proprio DNA una capacità di collaborazione positiva tra le diverse componenti in campo e un approccio costruttivo con le organizzazioni sindacali senza esserne succube. Nel caso delle piccole e medie imprese un ruolo importante potranno esercitarlo le organizzazioni datoriali e manageriali con iniziative specifiche formative, di comunicazione e di proposta. Nel settore pubblico è forse necessario un salto generazionale e culturale anche dei manager e un diverso ruolo tutto da costruire. È solo così che il termine “manager” potrà assumere, per tutti, una valenza positiva e riprendere quell’importanza che deve avere in una società moderna, complessa e globalizzata come la nostra.

Caporalato, proclami e soluzioni

un fenomeno radicato che può contare su connivenze di ogni tipo non si estirpa in quindici giorni. E chi ha responsabilità farebbe bene a non lanciare messaggi superficiali che rischiano di essere recepiti come tali dal territorio e da chi dovrebbe far seguire fatti alle parole. Lo sfruttamento dei lavoratori agricoli nel sud, migranti o meno, non nasce oggi. Oggi, semmai, si mostra in tutta la sua crudezza e impedisce di voltare altrove lo sguardo. È una delle facce più feroci del lavoro nero che, in molte realtà del sud, è ancora la modalità prevalente di accesso al lavoro. Durante la selezione di addetti per un’azienda della grande distribuzione in diverse realtà del sud, quindi in un settore lontano dall’agricoltura, mi è capitato spesso di sentirmi chiedere se la retribuzione proposta in fase di assunzione fosse “con o senza assicurazione” cioè con o senza i contributi. E alla mia reazione di sorpresa  mi veniva spiegato che era assolutamente normale  sentirsi proporre assunzioni in nero. Figuriamoci dove non esiste un minimo di società civile, dove l’indignazione è un lusso che non tutti possono permettersi, i controlli sono frammentari o inesistenti, il contesto è socialmente degradato e infine dove i soprusi e la presenza malavitosa sono assolutamente normali. In più parliamo di lavoratori migranti, spesso senza permesso di soggiorno e quindi ancora più esposti al ricatto e ai soprusi. Per questi motivi non c’è una soluzione semplice. Occorre agire su più piani. Innanzitutto sul territorio non è vero che c’è il nulla. Ci sono le istituzioni sia a livello locale che regionale, i sindacati e le associazioni datoriali che ben conoscono la realtà, le reticenze e le connivenze presenti, con le quali va costruito un possibile piano di intervento misurandole su proposte e coerenze. In secondo luogo va coinvolta tutta la filiera (non solo la produzione) nella quale il prodotto raccolto trova il suo sbocco di mercato fino al consumatore finale. E ciascuno deve essere in grado di garantire che il passaggio di cui è responsabile (a cominciare dal prezzo finale del prodotto) sia certificato e coerente con l’intero processo, se condiviso. Poi i controlli che dovranno essere incisivi con sanzioni e pene adeguate e prevedere premi per chi denuncia e aiuta a smantellare queste reti. Ultimo ma non ultimo la trasparenza nel collocamento, la tipologia contrattuale più idonea, gli eventuali sgravi contributivi finalizzati, l’ammontare della retribuzione e la certezza che finisca nelle tasche del lavoratore. Infine occorre considerare che il problema dell’alloggio e dei trasporti nelle campagne non va sottovalutato perché anche su questo i caporali costruiscono il loro potere assoluto. Non si deve però partire da zero. Nel settore delle costruzioni si è affrontato un tema analogo in termini di utilizzo dei lavoratori anche immigrati e, pur con una serie di limiti e reticenze, la situazione è certamente migliore anche grazie alla presenza della cassa edile. L’importante è non illudere nessuno che la soluzione sia semplice e a portata di mano. Sarà una partita lunga e complessa ma utile a dimostrare anche la volontà di sviluppo e di riscatto del mezzogiorno.

Gestione risorse umane e Jobs Act: quali sono i veri problemi delle imprese?

purtroppo siamo presi troppo dai numeri. Successo e fallimento del Jobs Act sembrano dipendere dalla quantità di assunzioni a tempo indeterminato (o a tutele crescenti) che si produrranno che, indipendentemente da tutto, restano un falso problema. Nonostante tutti concordino (a parole) che l’occupazione dipenda dalla ripresa economica l’interesse resta fisso sui numeri. Parliamoci chiaro. Alle imprese questa competizione non interessa. Prima, durante e dopo questo provvedimento alle aziende interessava e interessa che vengano affrontati alcuni problemi di contesto e specifiche ma sostanziali modifiche legati alla gestione conncreta delle risorse umane. Innanzitutto la forbice tra costo del lavoro e retribuzione netta. Così com’è oggi non è più sostenibile nel rapporto tra azienda e collaboratore. Inoltre c’è la necessità che una parte consistente della retribuzione dovrebbe essere legata all’andamento dell’azienda e del mercato con i relativi sgravi fiscali. E su questi due temi le aziende non possono che registrare un sostanziale rinvio negativo legato alla discussione sui livelli contrattuali, alle proposte di riforma e via discorrendo che dovranno trovare risposte probabilmente  in un accordo interconfederale con l’avallo del Governo per quanto riguarda l’entità degli sgravi fiscali. Infine gli ostacoli gestionali. Per le imprese è fondamentale limitare la rigidità del rapporto di lavoro in entrata e in uscita, avere un tempo di valutazione delle risorse inserite più congruo rispetto ai periodi di prova previsti nei CCNL e, infine, la possibilità di risolvere i rapporti di lavoro che non funzionano in modo meno oneroso e, perché no, meno trumatico. Il successo del Jobs Act come strumento utile per le imprese si misura su queste problematiche. A nessuna impresa interessa assumere senza una corrispondenza con una necessità precisa così come a nessuna azienda interessa licenziare collaboratori sui quali si è investito. Nelle aziende il clima è tutto. Se è positivo i risultati arrivano se è negativo, no. E il clima non si costruisce né sui rapporti di forza né sulla subalternità fine a se stessa. Si costruisce e si mantiene se gli obiettivi e le regole del gioco sono chiari e condivisi. Per questo trovo di difficile comprensione il valutare il Jobs Act dal numero di assunzioni a tempo indeterminato che produce o dai costi che inevitabilmente determina. Se un’azienda ha bisogno di incrementare l’organico è perché scorge una prospettiva di crescita e di sviluppo. E questo resta l’unico modo per assicurare una prospettiva certa anche al collaboratore.

I corpi intermedi oltre le caricature

ci risiamo. Adesso tutte le responsabilità e i ritardi di questo Paese sarebbero da addebitare al Sindacato. Il Presidente di Confindustria, ma non solo lui, ritorna su un vecchio luogo comune. Il Sindacato, tutto il Sindacato senza alcuna distinzione non sarebbe in grado di cambiare e di muoversi alla velocità imposta dal contesto. E, questa volta, lo afferma un imprenditore che ha fatto del dialogo e del confronto con le parti sociali un suo tratto distintivo nella gestione delle sue aziende. Perché dirlo ma, soprattutto, perché dirlo ora quando il confronto sul modello contrattuale e sulla rappresentanza sta ritornando al centro del dibattito. Squinzi non parla a caso e il luogo da cui ha lanciato questo messaggio è estremamente significativo. Personalmente credo che uno dei meriti fondamentali di Squinzi sia quello di aver archiviato definitivamente la stagione degli accordi separati. Fin dall’inizio del suo mandato il messaggio è sempre stato chiaro: Confindustria tratta con il sindacato confederale e non con parte di esso quindi o evolve in chiave unitaria tutta l’interlocuzione o non ci potrà essere alcuna interlocuzione. Molti hanno letto, sbagliando, questa posizione come uno schiaffo alla CISL e una forte apertura di credito nei confronti della CGIL di Susanna Camusso alle prese con l’opposizione interna della FIOM di Landini. Un’opposizione interna più mediatica e chiacchierona che concreta in grado, però, di provocare la reazione della Fiat e l’uscita da Confindustria della stessa. E questo per Squinzi era ed è un problema vero. E quindi una CGIL in grado di ritornare a firmare accordi e ad esercitare il suo ruolo nel sistema di relazioni industriali a livello nazionale avrebbe comportato un rinnovato ruolo di Confindustria sia sul fronte interno che esterno. E questo risultato è stato sicuramente raggiunto. Poi però è arrivato Renzi con la sua carica di insofferenza nei confronti di tutti i corpi intermedi anch’egli  indisponibile a percorrere una strada di accordi separati con i sindacati. E questo non tanto perché condivideva la scelta del Presidente di Confindustria di spingere il Sindacato verso una posizione unitaria e costruttiva ma per poterlo trasformare in un avversario superabile, lento nelle decisioni e facile da accusare di conservatorismo e di essere uno dei freni alla crescita e allo sviluppo del Paese. Due strategie diverse che in comune avevano solo la messa in soffitta la stagione degli accordi separati. Più concreta e orientata a ricostruire un contesto utile quella del Presidente di Confindustria, più finalizzata alla rottura di equilibri consolidati e quindi anche del rapporto tra organizzazioni datoriali e sindacali quella di Renzi. La strategia del Presidente di Confindustria, condivisa anche dalle altre organizzazioni datoriali, ha sostanzialmente funzionato, la CGIL è tornata al centro della scena, ha firmato anch’essa l’accordo sulla rappresentanza e, nel Terziario, l’importante CCNL che nelle due tornate precedenti era stato firmato solo da CISL e Uil di categoria mettendo in un angolo Landini e la sua strategia politica di opposizione sociale. Oggi nessuno ipotizza il ritorno alla stagione degli accordi separati. Ovviamente il Presidente di Confindustria non era e non è mosso dalla volontà di limitarsi a ricostruire il sindacato unitario, ci mancherebbe. Il suo obiettivo era di ricostruire una apparente simmetria nella relazione dentro la quale poter perseguire i propri obiettivi. Anche perché i rapporti di forza oggi sono indiscutibilmente a favore delle imprese. Rappresentanza e rappresentatività di chi sottoscrive gli accordi, procedure di raffreddamento del conflitto, regole di approvazione dei contratti, decentramento di parte dei contenuti della contrattazione sono gli obiettivi nei confronti del sindacato. E questi obiettivi sono realizzabili o attraverso un’intesa che in questo momento si presenta difficile o attraverso una legge. Da qui i toni (quasi di sfida) dal palco della festa  azionale dell’unità.  E da qui il messaggio di sostegno al Governo sul fisco. È una mossa forte per restare in gioco. Al sindacato manda a dire, sbrighiamoci altrimenti se ne occuperà la politica con tutti i rischi conseguenti e al Governo che l’appoggio di Confindustria è fuori discussione ma è condizionato dai risultati concreti che si otterranno sul fisco e non dai proclami. Di fronte non tanto a questa sortita ma a ciò che questa sortita significa il sindacato deve rispondere non già scendendo sul piano della legittima polemica ma trovando le risposte e le strade per ricostruire un serio cammino unitario su proposte praticabili. Tutti i corpi intermedi sono ad un punto critico del loro percorso. “Capire il nuovo, guidare il cambiamento” era un vecchio slogan della CISL. Sono passati piú di vent’anni. Questo è il punto vero. Ci sono segnali incoraggianti. Dai sindacati dell’industria della CISL, da alcune regioni del Nord dove cresce la consapevolezza che occorre fare un deciso passo avanti. In questi anni la deriva identitaria ha impedito l’affermarsi di una nuova cultura condivisa e praticabile fuori dai propri confini organizzativi. Ma il sindacato, tutto il sindacato come gli altri corpi intermedi hanno una vitalità e una capacità rigeneratrice spesso sottovalutata da chi non li frequenta da vicino. E questa vitalità presente soprattutto nei territori è destinata a produrre esigenze di cambiamento e di innovazione. Io credo che, quando la polvere della polemica si abbasserà e lascerà il campo alle proposte e al negoziato lì occorrerà essere presenti con idee e strategie praticabili. Questo è quello che conta.

Il jobs act tra luci e ombre.

ancora una volta i numeri rischiano di trasformarsi nel giudizio di Dio. Lo scontro tra favorevoli e detrattori è ormai al calor bianco. Gli interventi si sprecano. Il Jobs act genera assunzIoni o sono gli sgravi fiscali che spingono le aziende a scegliere il contratto a tutele crescenti? È corretto mettere a disposizione una massa di sgravi così rilevanti alle imprese senza che queste risorse generino assunzioni aggiuntive? La sospensione dell’art. 18 era proprio necessaria? Dall’altra parte diversi esponenti del Governo e dei partiti di maggioranza con dichiarazioni ottimiste e rassicuranti che, ogni mese, ci raccontano la loro versione. in mezzo la credibilità del nostro Paese. Il Jobs act ha un indubbio valore simbolico che va ben oltre i suoi aspetti concreti. Questo dovrebbe essere chiaro a tutti. È, per certi versi, come la legge Fornero. Sono atti che si trasformano in  elementi fondamentali a sostegno della nostra credibilità internazionale. Che ci piaccia o meno. Ed è da qui che bisogna partire per formulare giudizi obiettivi, altrimenti si trasforma in uno scontro tra  ragionieri con il pallottoliere. Ovviamente il Governo esagera ed enfatizza i risultati e non considera i giudizi di merito che, spesso, manifestano buone ragioni. E questo irrita fortemente, chi, pur condividendo una strategia riformista seria, non ha condiviso l’impostazione del provvedimento. Non possiamo non considerare che il Jobs act viene dopo la legge Biagi ma non me rappresenta l’evoluzione. Per certi versi è un passo indietro. Nella Biagi c’era la chiara consapevolezza che il lavoro era cambiato e che sarebbe cambiato ancora di piú e che il problema principale fosse creare opportunità di lavoro. Il confine tra lavoro dipendente e lavoro autonomo sta perdendo di significato e non sarà certo il contratto a tutele crescenti a invertire la tendenza. Nel Jobs act c’è un’idea del lavoro più tradizionale. Forse più “confindustriale” e meno terziaria proprio mentre l’economia si sta terzarizzando sempre di più. Però era anche l’unica strada praticabile per il PD (prima della diaspora interna) impegnato fino a poco tempo fa in una critica serrata della legge voluta dal centro destra in un periodo di forti divisioni sindacali. C’era voglia di voltare pagina sperando in un diverso atteggiamento della sinistra PD e della CGIL. Non è un caso che tutti i tentativi di disponibilità al dialogo portati avanti  dalla CISL sono stati fatti cadere. Adesso non si può tornare indietro facilmente anche perché l’idea che la tipologia del lavoro classico a tempo indeterminato è l’unica da perseguire e tutto il resto è precarietà è sicuramente prevalente nel Paese e nelle forze politiche. È prevalente ma, purtroppo, è sbagliata e impraticabile. Il 60% del PIL è prodotto dal settore terziario che, per sua natura ha bisogno di flessibilità del lavoro e di tipologie differenti. L’industria, che piaccia o meno, continuerà a produrre dove è piú conveniente quindi non offrirà grandi sbocchi occupazionali nel Paese e, infine, la ripresa, se ci sarà, sarà jobless. Il mercato del lavoro per i giovani è ormai globale e, comunque, le carriere saranno costituite da un patchwork di attività che dovranno essere assemblate in modo completamente diverso da quelle delle generazioni precedenti con tutti i problemi di welfare da gestire individualmente e contrattualmente anche perché il welfare pubblico sarà ine inevitabilmente  ridimensionato. Per questo occorrerebbe piú coraggio e più visione del futuro sia da parte delle organizzazioni datoriali che sindacali. Il lavoro che cambia non può essere solo argomento da convegni. Deve ritornare ad essere materia di riflessione e di proposta. Però una cosa deve essere chiara. Il punto di partenza deve tenere conto del contesto nazionale e internazionale nel quale siamo inseriti, gli obblighi e la credibilità che dobbiamo mantenere e possibilmente accrescere e, infine, il contenuto delle proposte che devono essere utili ad accompagnare il processo di integrazione e di cambiamento, anche culturale, che abbiamo di fronte.

Riforma della contrattazione: spunti di riflessione

una concreta riforma della contrattazione non può prescindere innanzitutto dalla costruzione di regole e di riconoscimenti reciproci tra le parti chiamate ad esercitare questa funzione. Definire chi è legittimato a trattare, su quali materie, a quale livello, in che quantità e con quali scadenze non è affatto secondario. Come non è affatto secondario stabilire se la contrattazione aziendale, alternativa o integrativa del CCNL, sia libera o obbligatoria e cosa succede se non arriva ad alcuna conclusione in tempi ragionevoli. In altri termini, mentre il semplice rispetto del CCNL mette, di fatto, tutte le aziende sullo stesso piano, come sarà possibile escludere situazioni di dumping contrattuale, seppur mascherato dalla volontà di un confronto strumentalmente trascinato all’infinito? (vedi ad esempio il caso della GDO dove Federdistribuzione ha aperto un tavolo di confronto impossibile da chiudere per le distanze sul merito del negoziato). Se la contrattazione non dovrà essere più sostenuta dalla messa in campo dei rapporti di forza e non dovrà  assumere le caratteristiche di una semplice  “tassa” (obbligatoria) sul lavoro ha bisogno di nuove regole e di nuovi approcci anche da parte del Sindacato che dovrebbe accentuare la sua natura costruttiva e collaborativa puntando anche ad una diversa professionalità dei suoi negoziatori. Non meno dalle imprese che dovrebbero riconoscere al sindacato, cosa tutt’altro che scontata, un ruolo propositivo e, di fatto, “intrusivo” nella destinazione degli eventuali incrementi dì produttività definita e prodotta dalla contrattazione stessa. E questo non in pochissime realtà aziendali come è oggi ma in tutte quelle imprese che vorranno cimentarsi nella contrattazione aziendale. Detto questo ha sicuramente ragione il prof. Ichino quando sostiene che è il governo della massa salariale, oggi sbilanciata sul CCNL, il punto centrale del problema, secondo il prof. Ichino, è che non può esserci alcun decentramento se non si affronta questo punto prevedendo deroghe, oggi non previste, che consentano alle imprese di destinare somme importanti al negoziato aziendale. Il problema c’è ma, personalmente, non credo sia risolvibile in questo modo. Non lo è per il Sindacato e non lo è per la stragrande maggioranza delle imprese piccole e medie. Un diverso approccio potrebbe essere dato da una riforma complessiva del salario contrattata e condivisa a livello centrale. Un nuovo modello salariale che preveda una parte minima in linea, ad esempio, con la CIG, una parte legata alla professionalità espressa e, infine, una parte legata all’andamento aziendale. La prima stabilita a livello nazionale, la seconda nella quale potrebbe essere concordato un range minimo e massimo a livello nazionale con applicazione a livello aziendale e la terza esclusivamente a livello aziendale. Ovviamente il CCNL potrebbe stabilire i minimi complessivi di riferimento delle singole voci per evitare situazioni distorsive e governare il welfare contrattuale. Questa impostazione, supportata da interventi legislativi e di modifica del codice civile, potrebbe consentire una gestione dei costi migliore per le aziende e spingere per la costruzione di un modello di formazione permanente a supporto della crescita e dell’impiegabilità dei lavoratori. Inoltre il coinvolgimento sull’andamento aziendale spingerebbe sicuramente ad una maggiore collaborazione e a un ruolo marcatamente propositivo le stesse organizzazioni sindacali. Per le aziende i vantaggi sarebbero dati dalla reversibilità legata ad elementi oggettivi di una parte della retribuzione individuale, di una maggiore spinta alla produttività individuale e di gruppo e a potenziali e interessanti sgravi fiscali. Per il sindacato e per i lavoratori i risultati sarebbero altrettanto evidenti. Un rapporto più consapevole maturo con la propria impresa, più formazione e crescita professionale, minori problemi per gli over 50 che, pur guadagnando di meno se non dovessero ricoprire ruoli professionali adeguati, non si troverebbero in situazioni di grave difficoltà personali sul mercato. È in un mix di questo tipo tra contratto nazionale e aziendale, tra esigenze dell’azienda e tutela del lavoratore che può essere trovata la soluzione migliore. Il punto ineludibile è che è comunque necessario che cambi il sistema attuale altrimenti vedo inevitabile che la crisi del modello attuale porti ad una giungla dove l’individuo è sempre più solo e nella quale sarebbe molto più difficile muoversi visti i ritmi e i problemi posti dalla globalizzazione e dalla competitività per le imprese.

Riforma della contrattazione: farla in fretta o farla bene?

Quante sono realmente le imprese che spingono per avere un nuovo modello contrattuale? Quante lo ritengono necessario? Ma soprattutto quali vantaggi concreti ne ricaverebbero? Chiunque vuole mettere mano al modello contrattuale italiano deve partire da queste semplici domande. I vantaggi per le organizzazioni sindacali sono evidentemente più chiari.  Partiamo dalla realtà. Se prendiamo l’intero universo delle imprese italiane non possiamo non prendere atto che la contrattazione aziendale con le organizzazioni sindacali è presente in un numero esiguo di aziende. Se poi dovessimo entrare nel merito della qualità della contrattazione ci accorgeremmo che ciò che riguarda gli aspetti economici sono trattati da un numero ancora meno significativo di imprese e quasi sempre le organizzazioni sindacali si limitano a ratificare sostanzialmente le proposte aziendali. È la legge del pendolo. Le aziende contrattano solo se hanno problemi che sono costretti a condividere. In caso contrario decidono unilateralmente. Ovviamente ci sono eccezioni e esempi “virtuosi” di coinvolgimento delle organizzazioni sindacali ma, appunto, si tratta di eccezioni. Addirittura molte imprese di diversi settori sono impegnate a smontare i contenuti storici della loro contrattazione aziendale. Indennità, gettoni, percentuali aggiuntive al CCNL, mensilità aggiuntive, salario aziendale fisso, esclusione delle prestazioni domenicali, ecc. sono azzerate o rimesse in discussione quasi ovunque. In molti casi queste particolari condizioni erano già limitate ai collaboratori di vecchia data e non coinvolgevano i nuovi assunti già da molti anni. Se questa premessa è vera siamo in una situazione dove la stragrande maggioranza delle imprese, oggi, preferirebbe non contrattare alcunché con le organizzazioni sindacali. Questo non significa che non ci sia disponibilità ad operare economicamente sulle risorse chiave come peraltro già avviene o a legare parte del salario all’andamento dell’impresa o ad obiettivi specifici. Quindi qualsiasi riforma, per le imprese, non potrà prevedere incrementi di costi che non siano supportati da concreti (e sottolineo concreti) aumenti di produttività. Il professor Ichino cerca di risolvere il problema attraverso una proposta interessante ma, temo di difficile applicazione. Sostanzialmente lasciare ad ogni impresa la facoltà di applicare o meno il CCNL dotandosi, in quel caso, di un contratto aziendale equivalente costruito sulle specificità e sulle esigenze dell’impresa stessa. In alcuni e limitati casi potrebbe essere una buona soluzione. Gli attuali CCNL non consentono deroghe suglia aspetti economici e quindi non lasciano quello spazio necessario a costruire un sistema di incentivazione specifico. Nelle imprese medio grandi potrebbe essere una opportunità da percorrere. Oscar Giannino si spinge oltre auspicando addirittura la predisposizione di un “kit negoziale” che le organizzazioni datoriali potrebbero mettere a disposizione dei loro associati. Il kit del bravo negoziatore. Il caso Fiat ha fatto scuola e quindi sembra tutto abbastanza semplice. Purtroppo non è così. La storia della contrattazione aziendale nel nostro Paese è nota. Le aziende dove le organizzazioni sindacali erano radicate e più forti concedevano risultati normativi ed economici maggiori che poi venivano estesi a tutti attraverso la contrattazione nazionale anche a quelle aziende che non avevano alcun interesse ad accettarle o pressioni sindacali interne. E questo fino a quando le imprese maggiori hanno ben compreso che “nascondendosi” dietro le piccole e medie imprese potevano invertire una tendenza che loro stessi avevano contribuito a creare. Ritornare indietro è possibile ma occorre farlo con grande cautela. Oggi il rapporto tra imprese e sindacato è asimmetrico quasi ovunque. Ieri non era cosí. Domani chissà. Il CCNL è un punto di riferimento per la stragrande maggioranza delle imprese italiane e mantiene una funzione di equilibrio. Inoltre evita fenomeni di dumping contrattuale. Seguire le esigenze di poche seppur importanti aziende non è una scelta corretta. Semmai è l’esatto contrario. Per questo ci vuole cautela ed sarebbe buona cosa lasciare la scelta e la costruzione di una proposta alle parti sociali ovviamente facendo tesoro del contributo indispensabile dei veri esperti e studiosi della materia.

Rappresentanza, Rappresentatività, Regole: quale percorso.

Troppi spettatori di parte, troppe strumentalizzazioni e molto nervosismo non sembrano un buon viatico per cercare una soluzione condivisa anche perché l’autunno è ormai vicino e il rischio che il negoziato tra le parti riprenda e finisca immediatamente su un binario morto è molto forte. Personalmente credo che si voglia mettere troppa carne al fuoco impedendo, di fatto, la conclusione di un negoziato complesso. C’è una prima intesa su una parte importante tra CGIL-CISL e UIL e Confindustria che non soddisfa le altre organizzazioni datoriali.  Nello stesso tempo c’è però la volontà di confrontarsi per trovare una soluzione che tenga conto delle differenti specificità soprattutto da parte di Confcommercio che, a differenza di Confindustria è titolare di un contratto nazionale specifico che copre più di tre milioni di addetti e, a buon diritto, vuole contribuire ad un risultato utile e praticabile. Questa differenza già di per sé rende indispensabile una esigibilità certa dell’intesa senza alcun rinvio ai contratti di categoria. Questo percorso è, evidentemente più complesso e richiede il tempo necessario perché punta ad un risultato condiviso e immediatamente operativo. Immaginare forzature esterne sui tempi o sui contenuti credo sia un errore che potrebbe portare ad un pessimo risultato. Altra cosa è ritenere difficile o inefficace  la sottoscrizione di un accordo tra le parti e quindi scegliere il percorso legislativo. A parte la Cisl che solleva una questione di principio, essendo da sempre contraria all’ingerenza della legge su materie di pertinenza delle parti sociali, le altre organizzazioni non sarebbero contrarie alla traduzione in legge di un eventuale accordo tra le parti ma il punto sta proprio qui. Una legge proposta e discussa in Parlamento è un’altra cosa. È chiaro che in mancanza di accordo questa è una strada obbligata e, non è detto, che le sintesi trovate nel Governo e in Parlamento siano gradite da tutte le parti sociali ma questo è il rischio che si corre quando si assegna il compito di trovare delle soluzioni ad altri. Quello che non mi piace è il clima nel quale questo dibattitto sta riprendendo quota sui media.  Mi sembra che ci sia una costante quanto inutile tentativo di irritare o di screditare le organizzazioni sindacali confederali. E questo è incomprensibile. Da un lato si vorrebbe una legge che favorisca le grandi organizzazioni confederali rispetto alla micronesia del sindacalismo autonomo o di base è dall’altro si alimenta un continuo discredito delle stesse. Dalle generalizzazioni fuori luogo sul reddito dei sindacalisti CISL al presunto crollo degli iscritti alla CGIL passando attraverso le strumentalizzazioni delle dichiarazioni del segretario generale della FIM sulla mobilità nel pubblico impiego o della posizione dei vescovi contro il lavoro domenicale in chiave antisindacale. Le stesse dichiarazioni di alcuni esponenti dei partiti di governo non aiutano ma lasciano intendere che a breve ci troveremo una proposta complessiva su tutti i temi sul tappeto. Vedremo le prossime mosse. Personalmente continuo a pensare che è un diritto della politica quello di formulare proposte ma credo sia utile che le parti sociali siano coinvolte e attive nel processo di definizione del nuovo contesto e delle regole conseguenti. E questo è nell’interesse di tutti.