GDO al bivio: l’intransigenza può essere una tattica, non una strategia..

Non c’è ancora una sentenza definitiva ma il Tribunale di Torino sembra aver imboccato una strada che può modificare i piani di Federdistribuzione che, nel frattempo a leggere i comunicati e i toni utilizzati, continua ad essere poco conciliante con le organizzazioni sindacali. L’intransigenza mostrata nel voler realizzare un proprio contratto nazionale non sta portando ai risultati sperati; il contratto non c’è e difficilmente ci sarà. Soprattutto non ci sarà nulla di diverso e di specifico rispetto al CCNL del terziario. Quindi, in estrema sintesi, tanto rumore per nulla. Al di là delle imprese che decideranno se e come seguire le indicazioni di Federdistribuzione, un dato è certo: l’intransigenza, se non è finalizzata ad un obiettivo preciso si trasforma spesso in un boomerang. Prendiamo ad esempio il tema delle liberalizzazioni. Si è partiti anche qui da una posizione intransigente. O tutto o niente. Confcommercio, pur condividendo la necessità di superare anche al proprio interno, le posizioni più ostili alle liberalizzazioni aveva tentato di trovare sintesi nell’interesse di grandi e piccole superfici. Tutto inutile. Altre organizzazioni hanno cavalcato l’opposizione più intransigente mentre Federdistribuzione, legittimamente, ha colto la possibilità di ottenere il massimo e quindi non ha voluto sentire ragioni. Oggi quella vittoria rischia di trasformarsi in una vittoria di Pirro. La politica sta facendo altre scelte che rimettono in discussione ciò che sembrava scritto sulla pietra. Dario Di Vico in un suo articolo ha invitato alla ragionevolezza le imprese della GDO invitandole a rientrare in gioco. Personalmente condivido quel pezzo. Era sbagliata l’intransigenza di allora è sbagliata quella di chi, oggi, vorrebbe rimettere in discussione tutto ribaltando la situazione. Occorre trovare un punto ragionevole di equilibrio. Sugli orari, sulla crisi delle grandi superfici, sul ridisegno delle città e, quindi sulle nuove aperture, ha poco senso procedere in ordine sparso. Così come sui contratti. Ha senso applicare nella GDO tre contratti nazionali con tre welfare differenti? Io non credo. Ovviamente non spetta a me individuare soluzioni ma, credo, che sia corretto interrogarsi sul confine tra tattica e strategia e, soprattutto, se, la difficoltà a dotarsi di una strategia aiuta le imprese in un momento nel quale si cominciano a cogliere i primi segnali di una ripresa.

Ancora sulla “provocazione” di Dario Di Vico

un vecchio proverbio arabo recita:”tra morto e morto e sepolto c’è un’enorme differenza.” Mi sembra spieghi bene la piega che sta prendendo il dibattito sulla provocazione di Dario Di Vico sul ruolo del sindacato nelle nostre imprese. Al di là delle legittime opinioni un dato sembra emergere con chiarezza: in molte imprese il sindacato o non esiste o non esercita nessun ruolo. Inoltre, in  alcune imprese, il contesto economico, la presenza di politiche di gestione delle risorse umane o la cultura imprenditoriale o manageriale hanno sviluppato o stanno sviluppando un sistema di gestione positivo per i lavoratori (e per l’impresa) che esclude la necessità di intermediare con le organizzazioni sindacali. Nella gestione dei manager  e dei K people c’è sempre stato questo approccio. La concessione di benefit oltre l’auto, il telefonino e il p.c. si è diffusa in molte realtà, soprattutto multinazionali comprendendo via via assicurazioni, asili privati per i figli, contributo per affitto, rimborso spese mediche, ecc. fino ad arrivare a soluzioni più specifiche per rendere la vita degli espatriati meno ossessionata dalla burocrazia servizi di pagamento delle bollette, tintoria, gestione del tempo libero, ecc. L’obiettivo era chiaro: migliorare il clima interno, trattenere i migliori, rendere più complesso il lavoro dei cacciatori di teste che si trovavano a dover fare i conti non solo con la retribuzione da offrire ai potenziali candidati ma con benefit che non tutte le aziende erano disposte a concedere più rivolti alla qualità della vita. Ovviamente questi benefit erano e sono riservati ad un numero ridotto di persone. La profondità della crisi e i mutamenti profondi del mercato del lavoro li hanno messi in discussione e, via via, sono scomparsi. È rimasta però la cultura che li aveva generati che è ben altro rispetto al cosiddetto “paternalismo” che viene evocato ogni volta che si esce da quanto previsto dal CCNL ma che è molto ambito dalle persone. In un’azienda ciò che conta veramente è il clima. Un contesto positivo ti fa sentire parte di una squadra vincente indipendentemente dal tuo ruolo. Hai la consapevolezza di essere in un’azienda che crede nelle proprie risorse e che investe in formazione, sviluppo e magari in qualcosa in più che altrove non c’è. Avere la possibilità di essere valutati, aiutati a crescere, corretti, incentivati e ben altra cosa che non contare nulla. Tutto questo non ha nulla ha che fare con il paternalismo. È un sistema di gestione che funziona e che va ben oltre il rispetto o meno del CCNL, dell’inquadramento pofessionale e della gestione collettiva. Punta sul merito, sull’adesione ai valori aziendali, sull’individuo. È questo checché ne pensino i detrattori, funziona e spinge a performance migliori, al coinvolgimento e alla crescita. Ovviamente questo riguarda quella parte dei collaboratori che per ruolo individuale o per appartenenza a reparti importanti può fare la differenza per quell’impresa. Detto questo alcune imprese non si fermano qui. Vanno oltre e propongono sistemi premianti specifici per gruppi o per l’insieme dei lavoratori. Oppure propongono forme di welfare aziendale che comprendono sconti in palestre, spacci, ecc. e, perché no, forme di integrazione della previdenza e della sanità. Alcune lo fanno consorziandosi, altre da sole. Tutto questo non c’entra nulla con il sindacato? Dipende. Dopo aver perso la battaglia sui superminimi individuali o di gruppo adesso ha senso bollare come paternalistica o sbagliata una realtà che premia non solo il singolo lavoratore ma spesso l’intera collettività? Io non credo. Ci sono aziende che se lo possono permettere o che sperimentano modelli gestionali innovativi. Basti vedere la sede di Facebook a Milano o di Google solo per fare un esempio per rendersi conto che in molti casi  ruoli, scrivanie, coinvolgimento sono necessariamente diversi. Sono realtà dove il sindacato non c’è o se c’è non interferisce quasi mai. Anzi. E allora dov’è il problema. Non c’è antisindacalità in tutto questo. C’è una proliferazione di modelli gestionali e organizzativi diversi dal tayolorismo che consentono di costruire un patto nuovo e diverso tra impresa, management e collaboratori. Dove si sa benissimo che si può essere licenziati l’indomani o che l’azienda può anche fallire e quindi conviene a tutti scambiare professionalità con formazione, crescita e contropartite che vanno oltre l’aspetto economico. Ovviamente non è cosí per tutti. È quindi c’è spazio per il welfare contrattuale che va consolidato e dotato di governance efficaci, c’è spazio per un sindacato moderno che non scambia per paternalismo il welfare della luxottica altrimenti non verrà compreso dagli stessi lavoratori. Ma se non vuole diventare un sindacato a cui ci si rivolge solo quando quel patto viene meno si deve prender atto che la fine del taylorismo e l’affermarsi di una cultura propria delle nuove generazioni che pretendono maggiore maturità nel rapporto di lavoro con più coinvolgimento, possibilità di crescita personale e meno burocrazia impone un salto culturale. Altrimenti il rischio non è che il sindacato scompaia ma che declini diventando, purtroppo, marginale.

Welfare aziendale e welfare contrattuale: quali prospettive.

Il welfare aziendale piace molto ai media. Ci fa tanto assomigliare alle grandi imprese di altri Paesi. Ci fa assomigliare a quelle realtà dove la dimensione aziendale, il sistema contrattuale e fiscale consente alle aziende di investire sul questa forma di salario indiretto che produce retention, clima positivo e integra l’intervento pubblico. In Italia rischia di essere un percorso sterile. Per quanto le aziende possano investire su questo filone la dimensione delle aziende, la distribuzione sul territorio di strutture pubbliche adeguate, i limiti dell’intervento pubblico presente e soprattutto futuro, in termini di assistenza e previdenza rendono difficile un approccio che fa perno sul singolo imprenditore. Per questo occorre puntare decisamente sul welfare di derivazione contrattuale. Consente economie di scala, opportunità che coprono grandi e piccole imprese, controllo sul piano della qualità dell’offerta. È strano come osservatori attenti si lascino sfuggire questa dimensione che già oggi coinvolge  circa cinque milioni di persone nei diversi settori merceologici. Capisco che oggi, tutto ciò che comprende tra i promotori le organizzazioni di rappresentanza, non è percepito come positivo e propositivo ma questo è. Fondi contrattuali come EST, QUAS, FASDAC solo nel settore del terziario rispondono alle esigenze di natura sanitaria di oltre un milione e mezzo di lavoratori dipendenti. Forse non fa notizia come la LuxOttica di Del Vecchio ma certamente risponde ad un problema sentito. Non nasce oggi ma nasce in anni dove la scelta tra salario diretto e salario accessorio non era facilissima da fare e dove, anche le organizzazioni sindacali dei dipendenti e dei dirigenti hanno convenuto con la Confcommercio scelte innovative. È strano che, proprio oggi, quando Confindustria si pone giustamente, e tra mille critiche, di seguire lo stesso percorso, si voglia sottacere i risultati già ottenuti nel terziario. Certo ci sono problemi di governance, di approcci burocratici da superare e di tenuta in prospettiva di alcuni di questi fondi. Ma ci sono problemi di strategia che potrebbero orientare le parti socie, a cominciare da Confindustria, Confcommercio e le associazioni degli artigiani a guardare avanti magari ipotizzando convergenze utili a costruire masse critiche simili a quelle presenti in alcuni Paesi europei. Ma una cosa è certa; questa è la strada da percorrere in Italia. Inseguire le pur lodevoli iniziative di singoli imprenditori non porta da nessuna parte. Occorre far crescere una cultura nuova che favorisca la creazione di fondi privati importanti che sappiano dialogare anche con il pubblico portando risparmi, razionalizzazioni ed efficienza nel l’erogazione dei servizi senza togliere alcun spazio agli interventi delle assicurazioni sul piano individuale. Comprendere fino in fondo i vantaggi che comporterebbe un consolidamento di una politica seria a sostegno della previdenza complementare. Per questo, credo, occorrerebbe dedicare maggiore attenzione a ciò che le parti sociali stanno facendo, individuarne pure limiti ed errori, ma evitando di gettare il bambino con l’acqua sporca. Progetti del genere modificano culture radicate, creano forme di collaborazione tra le parti, danno nuove prospettive e ruolo ai corpi intermedi. C’è molto da fare ma la strada è quella. Le scorciatoie, seppur benemerite, non portano da nessuna parte.

Declinare crescendo?

È vero. A volte quando osservi i comportamenti nei CDA di alcuni sindacalisti negli  enti bilaterali ti viene il sospetto che vivano fuori dal tempo. Lontani dalla realtà. Avendo fatto il DHR per tanti anni mi rendo conto che la capacità di comprendere i problemi concreti delle imprese, la rapidità necessaria a risolverli e  l’attenzione ad affrontare tutto ciò che non è noto e scontato sono caratteristiche sempre meno presenti. Anche il linguaggio è vecchio e di difficile comprensione per i non addetti, soprattutto se sono di altri Paesi. La stessa comunicazione spesso propone una caricatura della realtà, i toni sono quasi sempre esagerati e poco credibili e offrono soluzioni semplici ma quasi mai realizzabili nei modi e nei tempi proposti ai destinatari. I comportamenti incoerenti. Ad esempio tutte le deroghe in pejus consentite per i nuovi assunti (lavoro domenicale, turni, disagi vari) hanno creato un confine tra generazioni che non è più  stato colmato. Le stesse piattaforme contrattuali, i tempi di rinnovo e la distanza tra obiettivi e risultati spiegano bene la difficoltà nel costruire strategie e consapevolezze nuove tra i lavoratori. L’idea che del sindacato si può farne a meno è presente in molte aziende soprattutto là dove le imprese cercano di gestire in modo autonomo il rapporto con i propri collaboratori. Di fronte a chiavi di lettura molto tradizionali si consolida sempre più la voglia di fare a meno del loro contributo. Gli incontri si trasformano in liturgie della parola, i colleghi dirigenti delle altre direzioni (vendite, acquisti, logistica, ecc.) guardano noi DHR come professionisti della chiacchera e nell’impresa si consolida l’idea della irrilevanza e dell’inutilità del confronto con i sindacati. E spesso anche noi quando ci sediamo di fronte a loro partiamo prevenuti con la convinzione che stiamo solo perdendo tempo. In azienda, in molte realtà, si va senza di loro. Nel bene e nel male. Di Vico fa bene a porre il problema. Siamo forse già in una fase post sindacale. Personalmente non credo sia una buona cosa. E questo per varie ragioni. Non ci sono solo le aziende che propongono forme di welfare aziendale o che si occupano positivamente dei propri collaboratori. In Italia ci sono oltre quattro milioni di imprese. Proviamo a pensare come potrebbe essere una realtà senza contrattazione nazionale, senza equilibrio tra diritti e doveri, dove non esistono regole e dove se la cava il più furbo o solo chi è disposto a tutto pur di lavorare. Il sindacato è necessario in una società complessa come la nostra. Certo c’è chi ne puó fare a meno sia individualmente che collettivamente ma non è cosí per la stragrande maggioranza dei lavoratori. Secondo me anche per le imprese è utile. Pensiamo solo al dumping contrattuale.  Detto questo possiamo discutere di quale sindacato avrebbero bisogno i lavoratori e le imprese oggi. Io ho le mie idee. Penso ad un sindacato che sa collaborare con l’impresa in modo nuovo. Che comprende e forma i suoi esponenti a capire il nuovo e ad affrontarlo senza paura. Intransigente sui principi ma aperto alle novità. Pronto a sperimentare soluzioni innovative e conscio che la stagione dell’obiettivo-lotta-risultato è finita. Oggi la stagione è condivisione-convergenza-risultato. Ma questa è solo una mia opinione. Al sindacato spettano le mosse che vorrà compiere e decidere le traiettorie conseguenti. Io, a differenza di Di Vico registro segnali nuovi. Nelle categorie dell’industria della CISL e in alcune aree del nord ma anche provenienti dalla conferenza organizzativa della CGIL vedo proporre riflessioni significative sia in direzione di un superamento della situazione di concorrenza tra sigle confederali sia nel merito. i rinnovi contrattuali la governance degli organismi bilaterali, il welfare contrattuale e gli accordi sulla rappresentanza possono costituire un passaggio importante. Speriamo venga colto da tutti.

Conferenza organizzativa CGIL: interessanti spunti di riflessione

Le conferenze organizzative sono un momento importante per le organizzazioni di rappresentanza. Lo sono ancora di più quando avvengono in momenti particolari nella vita del Paese. Nella relazione di Baseotto della CGIL ho trovato alcuni spunti interessanti sui quali mi sembra utile ritornare. Innanzitutto il linguaggio utilizzato l’ho trovato sufficientemente pacato. Poco spazio alla retorica, nessuna caricatura o semplificazione della realtà, puntuale presentazione delle proprie e legittime posizioni. Anche quelle meno condivisibili. Nel merito individuo alcuni temi su cui soffermarmi. Sulla rappresentanza condivido la tesi. Non abbiamo bisogno di una legge sul sindacato. Sarebbe un’inutile provocazione. Abbiamo bisogno di una buona legge sulla rappresentanza che traduca il confronto in atto tra organizzazioni sindacali e datoriali e che misuri la reale rappresentatività di tutti. Anche delle associazioni datoriali. Il secondo tema riguarda la riforma della contrattazione. L’enfasi che alcuni stanno mettendo sul tema è quella giusta? Il rischio che un decentramento non governato dal CCNL porti ad un “fai da te” che inevitabilmente apre a situazioni di dumping contrattuale è alto e quindi meglio sarebbe ridurre anche drasticamente il numero  dei Contratti Nazionali e definire con chiarezza le materie affidabili a livelli territoriali o aziendali. E questa è una posizione assolutamente condivisibile. In terzo luogo il tema dell’unità posto senza retorica e senza illusioni particolari. È interesse del Paese che il sindacalismo confederale ritrovi una strada unitaria, riformista e propositiva. Non si esce dalla crisi e non si affronta un contesto complesso e globalizzato con battaglie identitarie che hanno le loro radici in un passato che non c’è più. Abbiamo tutti bisogno di un Paese unito, diverso più collaborativo nelle sue componenti, aperto al mondo e ai problemi che il mondo stesso ci pone. Le organizzazioni di rappresentanza non sono formazioni residuali di un mondo che va scomparendo ma articolazioni importanti del tessuto sociale, economico e politico che devono contribuire a ridisegnare. Un altro tema sul quale non c’è stata reticenza ma proposta è quello della bilateralità e dei suoi strumenti discendenti dai rispettivi CCNL. Va sottolineato che, rispetto ad alcuni interventi del passato, non c’è nessun pregiudizio di fondo sul tema. Anzi. C’è però la determinazione di improntare il sistema alla trasparenza, all’efficacia e alla effettiva utilità dei servizi offerti ai lavoratori (e aggiungo io anche alle imprese). È una presa di posizione importante che va colta e resa concreta attraverso meccanismi di governance convincenti e diffusi nei territori. Infine la territorialità. Una grande organizzazione esiste se è radicata nel territorio.e questo vale per tutte le organizzazioni di rappresentanza. Anche per quelle datoriali. La reputazione, la riconoscibilità, l’iniziativa deve essere nel territorio. E soprattuto deve essere a rete riconoscendo a tutti i punti la stessa dignità di proposta e di iniziativa. In conclusione il tema della trasparenza su stipendi e pensioni, che mi sembra quello più colto dai media. Vale quanto già detto qui in passato. Separare il grano dal loglio senza se e senza ma. E anche su questo punto mi sembra molto netta la posizione espressa. Una relazione importante, quindi, utile per aprire un confronto a tutto campo. Speriamo trovi la convergenza necessaria con le altre organizzazioni e si trasformi in materia di confronto vero con il Governo e con le altre parti sociali.

È solo di Marchionne il successo?

Non c’è quotidiano che non sottolinei i successi del CEO FCA. Anche chi ha dovuto compiere una conversione di 360 gradi passando da critiche feroci e pregiudiziali al sostegno incondizionato. Ha certamente dimostrato di essere un ottimo manager e i risultati ottenuti sono evidenti. Per quanto mi riguarda c’è un però. La sua non è una vittoria solitaria. Ed è incomprensibile che, proprio lui, non capisca che nel momento del trionfo è sempre buona cosa dividere gli onori con chi lo ha reso possibile. Certo Renzi e il Governo sono stati alleati indispensabili e questo va loro riconosciuto. Ma non è abbastanza. Nella solitaria lotta contro la FIOM di Landini Marchionne ha trovato altri interlocutori sindacali cche hanno scommesso su di lui e sulle sue promesse rischiando la loro reputazione e, a volte, la loro incolumità. FIM, UILM e Fismic hanno sottoscritto e poi difeso (non subìto) gli accordi sottoscritti nelle assemblee e nei referendum accettando di passare agli occhi di media poco attenti come succubi di Marchionne, sindacati gialli e via discorrendo. Si sono dipinte all’esterno e sulla stampa le fabbriche come opifici dell’800, piegate e umiliate da un padrone delle ferriere dove solo la pistola alla tempia a ciascun lavoratore ha permesso lo scempio dei diritti e instaurato una nuovo concetto di schiavitù. Mi rendo conto che per molti sindacalisti, soprattutto quelli con cui condivido l’età Marchionne è un’anomalia evidente. Temo anche per molti dirigenti aziendali che si sono visti mettere in discussione e spazzare via in pochi istanti carriera e reddito. Ma Marchionne è un prodotto specifico di questa epoca, svelto, globale e opportunista. Inaccettabile per chi pensa di poter dettare tempi, modalità e contenuti delle relazioni industriali come fossimo nel secolo scorso. Marchionne aveva una strategia, una filosofia e un comportamento difficile da accettare e da condividere. Non ero presente al tavolo in cui si sono svelati i passi da compiere e quindi mi limito a osservare da fuori. Al sindacato non restava che accettare la sfida o scommettere sul fallimento e non sedersi nemmeno. C’è chi ha fatto la prima scelta e chi la seconda. Beh, Marchionne sbaglia a non condividere questo risultato con chi gli ha creduto e ci ha messo la faccia. Soprattutto la FIM CISL che ha il maggior numero di iscritti in azienda. È questo per due ragioni. Innanzitutto perché ammettere che esistono uno o più sindacati che nella collaborazione e nella conseguente sottoscrizione di intese hanno rilanciato un ruolo fondamentale  per il futuro dell’impresa e dei lavoratori  è semplicemente la verità. Nessuno può vincere da solo. In secondo luogo perché è interesse del Paese che cresca la consapevolezza e lo spazio per un sindacato riformista e collaborativo che sa difendere gli interessi dei suoi rappresentati in modo efficace se pur diverso dal passato. Nel mondo globalizzato il lavoro in un Paese si difende anche creando alleanza nella filiera nella quale l’azienda è inserita fuori da logiche classiste. Altri si dedicheranno, legittimamente, alla costruzione di sindacati che continuano a trovare nel conflitto e nella contrapposizione la loro ragion d’essere. Ma non legittimare i primi è un errore che un manager del livello di Marchionne non dovrebbe commettere.

Collaborare è meglio di partecipare…..

Quando si parla di partecipazione dei lavoratori nell’impresa riaffiora la solita discussione sul modello tedesco. Anche Susanna Camusso lo riprende nell’ultima intervista alla Stampa indicandone anche due temi su cui indirizzare la discussione: investimenti e organizzazione. Cioè due temi dove non ci sarà mai, in Italia, una disponibilità vera delle imprese. Si potrà parlare di comunicazione preventiva, di collaborazione finalizzata ad affrontare il mercato ma, fino a quando la cultura sindacale non avrà decisamente imboccato la strada della condivisione dei valori e della cultura delle imprese non ci saranno passi avanti. E Susanna Camusso lo sa bene. Quindi il discorso sulla partecipazione tedesca o italiana resta ancora nel campo della propaganda. La vera sfida dovrebbe essere quella di prendere atto che una stagione si è chiusa e contribuire a ridisegnare nuovi confini (piú ridotti) per l’attività sindacale. Certo è difficile per chi ha vissuto l’epopea degli anni 60 ma sarà inevitabile. L’unico modello di partecipazione che si è affermato negli anni da noi, il professor Baglioni lo avrebbe chiamato di “partecipazione concessiva”. Un modello che non mette in discussione le scelte aziendali ma le accompagna cercando di attenuarne i possibili effetti negativi sui propri rappresentati. Oggi, sulla carta, è possibile occuparsi di tutto e quindi il rischio è che non si conti nulla su niente. Certo si può sempre lasciar fare le imprese restando in panchina senza condividere alcunché. Però un sindacato che non si confronta, non discute e non sottoscrive accordi non serve a nessuno. Per questo piú che parlare di partecipazione (tedesca o italiana) io parlerei di collaborazione allo sviluppo delle imprese e del lavoro. Si sta aprendo un dibattito interessante nella Cisl, nelle sue categorie e in alcune importanti strutture sul modello di sindacato dei prossimi anni. Forse è il caso di partire da lì. Non c’è una soluzione e ci sono enormi diffidenze da superare anche in campo imprenditoriale. Una cosa però è certa: il taylorismo ha imboccato il viale del tramonto e si sta portando con sé la vecchia cultura novecentesca che ha permeato le relazioni sindacali, i modelli contrattuali  e il lavoro sia sul piano della qualità che della quantità. Lasciare che la globalizzazione e il mercato ridisegnino il nuovo perimetro è un errore. E non sarã né un accordo tra le parti sulla rappresentanza né un accordo sui livelli contrattuali a cambiare la direzione di marcia che ha preso il Governo. Così come i rapporti di forza, sicuramente asimmetrici, che oggi spingono le imprese verso modelli ben diversi da quelli auspicati da chi crede nell’equilibrio e nel confronto. Non c’è molto tempo perché nei prossimi mesi si determinerà la direzione di marcia, Per le organizzazioni di rappresentanza (datoriali e dei lavoratori) si apre una fase importante. L’importante è non sprecarla.

Manager sarà lei!

Se pensiamo al recente dibattito sulla “buona scuola” o quello sulla sanità italiana la parola manager, presso parte dell’opinione pubblica ha un accezione certamente negativa. Chi rivendica maggiore managerialità nel settore pubblico spesso viene spinto a dover scegliere tra efficienza ed efficacia, tra cultura aziendale, intesa come cultura del costo come priorità, e cultura del servizio, quasi come questi mondi fossero sempre e comunque inconciliabili. Gaber si inserirebbe in questa disputa ricordandoci forse che l’efficienza è di destra mentre l’efficacia è certamente di sinistra. È una discussione che segnala un modo di pensare abbastanza radicato e diffuso nel nostro Paese. Non tanto e non solo nel settore pubblico. La scarsa presenza manageriale nelle piccole e medie imprese rappresenta un altro segnale evidente. Il nostro sembra essere, per certi versi, un Paese di imprenditori e lavoratori autonomi che vogliono o che cercano di fare da sé e che individuano come potenziali concorrenti nella divisione del reddito disponibile, pensionati, lavoratori pubblici e dipendenti (manager, impiegati e operai) delle grandi aziende, soprattutto del nord. Salvo eccezioni circoscritte i dati sembrano confermare questa situazione. Questa peculiarità ha contraddistinto la storia economica del nostro Paese ne ha evidenziato i suoi limiti ma ne anche rappresentato la sua forza. Mi ricordo negli anni ’70 una battuta di un imprenditore che, fino a quel momento aveva resistito ad assumere un manager esperto di marketing che si visto accogliere con questa frase: “Si ricordi che la nostra azienda è diventata importante senza il marketing, vorrei continuasse ad esserlo, nonostante il marketing”. Personalmente credo che, fino all’avvento della globalizzazione, questa peculiarità poteva resistere e mantenere un suo tratto distintivo. Non se lo può più permettere in un’epoca come quella che si è aperta. E questo vale sia nel settore pubblico che non ha più risorse da sprecare ne da investire che nella piccola e media impresa che, per crescere e misurarsi con il mondo, ha bisogno di cultura, capacità e competenze che sono connaturate più alla figura del manager che del piccolo imprenditore tradizionale. L’azienda nella filiera nella quale è inserita sta cambiando. Deve saper dialogare con il mondo e integrarsi nel territorio di cui è espressione. Deve valorizzare capacità e competenze dei propri collaboratori siano essi manager o altro, deve porsi diversamente con fornitori e clienti. Deve saper sviluppare partnership adeguate alle sfide che ha di fronte. Deve saper interpretare un ruolo imprenditoriale diverso dal passato. Meno autonomo e individualista più collaborativo e intraprendente. Deve essere lui stesso in qualche modo un manager e saper interagire con manager preparati che possono portargli visioni e punti di osservazioni del mondo e del business più aperti. Così come nel pubblico dove la cultura manageriale è indispensabile per gestire e razionalizzare le risorse economiche e umane a disposizione. Ma anche i manager, però, devono cambiare. Lavorare in una piccola impresa non è come lavorare o interagire con colleghi in una multinazionale. La dimensione produce una cultura diversa, dove la sostanza, la rapidità e la capacità di risposta ai problemi è più di tipo imprenditoriale. È l’esempio personale, la conoscenza concreta del problema, la capacità di proporre soluzioni innovative ma praticabili e di sapersi assumere le proprie responsabilità che fanno premio sullo status o sul proprio percorso professionale. L’esperienza e la conoscenza di un problema non sono sufficienti se non utilizzate per convincere e coinvolgere. In questo sta la qualità di un manager: sapersi confrontare con la realtà, offrire soluzioni praticabili e creare il clima interno adatto alle sfide da affrontare. E, ultimo, ma non ultimo, la capacità di gestire il proprio capo che, in questo caso non è un manager a sua volta in carriera ma è il proprietario dell’azienda. Nel pubblico, ovviamente, le cose sono diverse. Non c’è l’imprenditore, il business e il mercato. C’è però una cultura che deve affermarsi e crescere. Quella del bene collettivo, dell’etica del lavoro e della centralità del cittadino. Anche su questo un manager non si improvvisa. Servono anni, formazione, valutazione e strutture che possano aiutare la creazione di una classe di manager diversa, aperta e desiderosa di portare le risorse umane di cui ha la responsabilità alla realizzazione degli obiettivi a loro assegnati. Serve una nuova cultura del merito e dello sviluppo delle risorse che nel pubblico è ancora lontana dall’essere immaginata, decisa e praticata. Deve avere nel proprio DNA una capacità di collaborazione positiva tra le diverse componenti in campo e un approccio costruttivo con le organizzazioni sindacali senza esserne succube. Nel caso delle piccole e medie imprese un ruolo importante potranno esercitarlo le organizzazioni datoriali e manageriali con iniziative specifiche formative, di comunicazione e di proposta. Nel settore pubblico è forse necessario un salto generazionale e culturale anche dei manager e un diverso ruolo tutto da costruire. È solo così che il termine “manager” potrà assumere, per tutti, una valenza positiva e riprendere quell’importanza che deve avere in una società moderna, complessa e globalizzata come la nostra.

Caporalato, proclami e soluzioni

un fenomeno radicato che può contare su connivenze di ogni tipo non si estirpa in quindici giorni. E chi ha responsabilità farebbe bene a non lanciare messaggi superficiali che rischiano di essere recepiti come tali dal territorio e da chi dovrebbe far seguire fatti alle parole. Lo sfruttamento dei lavoratori agricoli nel sud, migranti o meno, non nasce oggi. Oggi, semmai, si mostra in tutta la sua crudezza e impedisce di voltare altrove lo sguardo. È una delle facce più feroci del lavoro nero che, in molte realtà del sud, è ancora la modalità prevalente di accesso al lavoro. Durante la selezione di addetti per un’azienda della grande distribuzione in diverse realtà del sud, quindi in un settore lontano dall’agricoltura, mi è capitato spesso di sentirmi chiedere se la retribuzione proposta in fase di assunzione fosse “con o senza assicurazione” cioè con o senza i contributi. E alla mia reazione di sorpresa  mi veniva spiegato che era assolutamente normale  sentirsi proporre assunzioni in nero. Figuriamoci dove non esiste un minimo di società civile, dove l’indignazione è un lusso che non tutti possono permettersi, i controlli sono frammentari o inesistenti, il contesto è socialmente degradato e infine dove i soprusi e la presenza malavitosa sono assolutamente normali. In più parliamo di lavoratori migranti, spesso senza permesso di soggiorno e quindi ancora più esposti al ricatto e ai soprusi. Per questi motivi non c’è una soluzione semplice. Occorre agire su più piani. Innanzitutto sul territorio non è vero che c’è il nulla. Ci sono le istituzioni sia a livello locale che regionale, i sindacati e le associazioni datoriali che ben conoscono la realtà, le reticenze e le connivenze presenti, con le quali va costruito un possibile piano di intervento misurandole su proposte e coerenze. In secondo luogo va coinvolta tutta la filiera (non solo la produzione) nella quale il prodotto raccolto trova il suo sbocco di mercato fino al consumatore finale. E ciascuno deve essere in grado di garantire che il passaggio di cui è responsabile (a cominciare dal prezzo finale del prodotto) sia certificato e coerente con l’intero processo, se condiviso. Poi i controlli che dovranno essere incisivi con sanzioni e pene adeguate e prevedere premi per chi denuncia e aiuta a smantellare queste reti. Ultimo ma non ultimo la trasparenza nel collocamento, la tipologia contrattuale più idonea, gli eventuali sgravi contributivi finalizzati, l’ammontare della retribuzione e la certezza che finisca nelle tasche del lavoratore. Infine occorre considerare che il problema dell’alloggio e dei trasporti nelle campagne non va sottovalutato perché anche su questo i caporali costruiscono il loro potere assoluto. Non si deve però partire da zero. Nel settore delle costruzioni si è affrontato un tema analogo in termini di utilizzo dei lavoratori anche immigrati e, pur con una serie di limiti e reticenze, la situazione è certamente migliore anche grazie alla presenza della cassa edile. L’importante è non illudere nessuno che la soluzione sia semplice e a portata di mano. Sarà una partita lunga e complessa ma utile a dimostrare anche la volontà di sviluppo e di riscatto del mezzogiorno.

Gestione risorse umane e Jobs Act: quali sono i veri problemi delle imprese?

purtroppo siamo presi troppo dai numeri. Successo e fallimento del Jobs Act sembrano dipendere dalla quantità di assunzioni a tempo indeterminato (o a tutele crescenti) che si produrranno che, indipendentemente da tutto, restano un falso problema. Nonostante tutti concordino (a parole) che l’occupazione dipenda dalla ripresa economica l’interesse resta fisso sui numeri. Parliamoci chiaro. Alle imprese questa competizione non interessa. Prima, durante e dopo questo provvedimento alle aziende interessava e interessa che vengano affrontati alcuni problemi di contesto e specifiche ma sostanziali modifiche legati alla gestione conncreta delle risorse umane. Innanzitutto la forbice tra costo del lavoro e retribuzione netta. Così com’è oggi non è più sostenibile nel rapporto tra azienda e collaboratore. Inoltre c’è la necessità che una parte consistente della retribuzione dovrebbe essere legata all’andamento dell’azienda e del mercato con i relativi sgravi fiscali. E su questi due temi le aziende non possono che registrare un sostanziale rinvio negativo legato alla discussione sui livelli contrattuali, alle proposte di riforma e via discorrendo che dovranno trovare risposte probabilmente  in un accordo interconfederale con l’avallo del Governo per quanto riguarda l’entità degli sgravi fiscali. Infine gli ostacoli gestionali. Per le imprese è fondamentale limitare la rigidità del rapporto di lavoro in entrata e in uscita, avere un tempo di valutazione delle risorse inserite più congruo rispetto ai periodi di prova previsti nei CCNL e, infine, la possibilità di risolvere i rapporti di lavoro che non funzionano in modo meno oneroso e, perché no, meno trumatico. Il successo del Jobs Act come strumento utile per le imprese si misura su queste problematiche. A nessuna impresa interessa assumere senza una corrispondenza con una necessità precisa così come a nessuna azienda interessa licenziare collaboratori sui quali si è investito. Nelle aziende il clima è tutto. Se è positivo i risultati arrivano se è negativo, no. E il clima non si costruisce né sui rapporti di forza né sulla subalternità fine a se stessa. Si costruisce e si mantiene se gli obiettivi e le regole del gioco sono chiari e condivisi. Per questo trovo di difficile comprensione il valutare il Jobs Act dal numero di assunzioni a tempo indeterminato che produce o dai costi che inevitabilmente determina. Se un’azienda ha bisogno di incrementare l’organico è perché scorge una prospettiva di crescita e di sviluppo. E questo resta l’unico modo per assicurare una prospettiva certa anche al collaboratore.