Quello che sta accadendo all’Ikea è purtroppo emblematico di una difficoltà a cambiare del Sindacato italiano. Di fronte ad un passaggio molto delicato della vita di un’azienda l’approccio è completamente sbagliato. Nel merito e nelle modalità. Anzi si trasforma in “lotta simbolica” una vicenda di aggiustamenti contrattuali necessari ad un’azienda che ha smesso di crescere e quindi guarda con una certa preoccupazione al futuro pur continuando a investire nel nostro Paese. Un’azienda particolare. Non certo un “padrone delle ferriere”, un’azienda multinazionale attenta al contesto socio economico in cui si insedia. La reazione del sindacato, al contrario, è pavloviana. Addirittura si storpiano slogan, marchi e colori aziendali in un marketing che ricorda la famosa “cassaintegratissima Alfa” di triste memoria. Il merito apparente è una difesa di alcuni presunti diritti acquisiti sul lavoro domenicale. I lavoratori con maggiore anzianità di servizio ne godono in alcuni punti vendita grazie al fatto che quando sono stati istituiti il lavoro domenicale era sporadico e volontario in tutta la GDO. Oggi è normale orario di lavoro che, a rotazione, tocca tutti i lavoratori. Quindi non ha senso che solo alcuni di essi percepiscano una maggiorazione pari al 130% del salario. In realtà la partita vera è un’altra. La qualità del servizio e l’apporto richiesto ad ogni singolo lavoratore. E qui nasce il problema serio. Per il sindacato la qualità del servizio, l’atteggiamento del lavoratore verso il cliente non è un normale comportamento organizzativo che si deve compiere in un determinato modo cioè come richiesto dall’azienda. L’azienda ha un suo approccio, una sua filosofia di contatto è pretende giustamente che la proattività, la disponibilità e l’ascolto siano coerenti con questo approccio. Il sindacato pensa che tutto questo appartenga alla sfera della libertà dell’individuo e quindi propugna come legittimo un approccio legato al carattere di ciascuno e al tipo di situazione. È la cultura tayloristica che rientra dalla finestra. Accetta la qualità del prodotto e gli alti standard qualitativi ma non che sia l’azienda a decidere come proporre quel prodotto. È quindi quella cultura differenzia i clienti tra buoni e rompipalle, li parifica al “padrone” bollandoli come isterici e stressati perché vanno di fretta, accetta come giustificazione solo e soltanto lo stato d’animo del lavoratore e, infine, ritiene spersonalizzante l’idea di un appproccio predeterminato. Ovviamente l’azienda ha un obiettivo: coinvolgere il lavoratore spingendolo a sentirsi parte di un progetto. Lo slogan “ti comporteresti così se l’azienda fosse tua?” rende bene l’idea. Ovviamente il sindacato si guarda bene dal sostenere questo approccio perché pensa possa spingere i lavoratori a condividere una filosofia aziendale e quindi a non riconoscersi nel sindacato stesso. E allora che fa? Fa una caricatura dell’avversario di “classe”, lo dipinge come un traditore esso stesso dei valori che propugna e trasforma una vicenda dove servirebbe un grande salto culturale in una storia di terz’ordine dove una multinazionale mette le mani in tasca ai suoi poveri dipendenti. In questo modo ottiene un risultato a breve: qualche iscritto in più e qualche trafiletto sulla stampa ma pregiudica un risultato a lungo: la costruzione di un nuovo modello di relazioni sindacali con un’impresa che potrebbe essere interessata a fare qualche passo avanti. E su una posizione così miope non c’è solo il sindacato di categoria con tutti i suoi limiti, ci sono purtroppo anche i tre segretari confederali. Che dire. un’altra occasione sprecata. Il fatto che IKEA non sia FCA impedisce una vera riflessione delle confederazioni e questo non è un bene. Soprattutto per il sindacato.
Quando un rinnovo contrattuale resta al palo
Succede sempre più spesso. La tanta auspicata sigla sul rinnovo dei contratti non c’è. E quindi i contratti non si rinnovano. Da molti anni il fondamento teorico dell’azione sindacale (obiettivo, lotta, risultato) era già in crisi. La stagione delle grandi ristrutturazioni aziendali, le crisi che si sono via via succedute hanno messo in discussione e poi definitivamente accantonato parte delle liturgie. Sempre più spesso le cosiddette piattaforme preparate con cura nelle assemblee si sono trasformate in accordi che parlano d’altro. Si è passati, nel tempo, da negoziazioni incrementali per i lavoratori a situazioni win win fino a rimettere in discussione in tutto o in parte quelli che erano ritenuti diritti acquisiti e quindi non negoziabili. La fase finale di quel ciclo è stata caratterizzata da un azzeramento più o meno deciso di tutto ciò che non faceva parte della contrattazione nazionale. In altri termini in una sorta di “legge del pendolo” non dichiarata i rapporti di forza, che nel frattempo si erano spostati a vantaggio dell’impresa, consentivano di rimettere in discussione tutto ciò che, fino al giorno prima veniva dato per consolidato in azienda. Questo segnava (almeno in termini concettuali) il fondo del barile. La globalizzazione, le crisi aziendali, la concorrenza sui costi ha spinto molti settori e aziende a non fermarsi ad una sorta di “pulizia” di vecchie situazioni costruite negli anni ma le ha spinte a rimettere in discussione lo stesso contratto nazionale di categoria rifiutandone il rinnovo. La scarsa reazione dei sindacati ha fatto il resto creando una situazione nuova. Il settore o il comparto in perenne fase di rinnovo contrattuale senza alcuna possibiltà di concludere il percorso. Apparentemente questo potrebbe essere apprezzato da molte imprese. Risparmiare sui costi è importante. Come e dove farlo è spesso secondario. E se addirittura una situazione del genere permette alla singola azienda il “fai da te” contrattuale, questo è ancora meglio. I vantaggi, che nel breve sono evidenti però si fermano qui. È vero che il CCNL ha perso nel tempo parte del suo valore simbolico e che, per molti lavoratori i risultati non sono stati ritenuti significativi o che, ad esso, sono seguiti accordi di tipo personale (come nei dirigenti) però il contratto ha un valore in sé che comprende e legittima chi lo sottoscrive e fornisce le coordinate fondamentali alla base dei rapporti di lavoro. È un punto di riferimento. Una base a disposizione dell’azienda e del lavoratore sulla quale costruire un rapporto fatto di correttezza, professionalità e reciprocità. Senza è la giungla. Da entrambe le parti. E, nel lungo periodo si sta peggio tutti. Ma questo fenomeno è causato solo dalle imprese o dalle loro rappresentanze vecchie e nuove? No. Spesso è provocato più o meno inconsapevolmente anche dai rispettivi sindacati. Rifiutarsi di firmare per mere questioni di bandiera, pretendere di decidere che i propri punti di caduta debbano coincidere con quelli della controparte sono i segnali evidenti del contributo sindacale al declino dello strumento. Non esistono più pregiudiziali, tabú, materie indisponibili. Esistono scambi. È ciò che è ritenuto irragionevole da una parte dimostra buone ragioni dall’altra. Chi lo comprende contribuisce a costruire le nuove regole del gioco mentre chi non lo comprende accompagna al declino lo strumento che così perde inevitabilmente valore.
Strategia unitaria e deriva identitaria
Chiunque è dotato di un minimo di sensibilità politica e sociale non può non identificare in una nuova stagione unitaria il prossimo percorso che devono compiere le organizzazioni sindacali confederali. Lo dimostrano i tempi, la storia e il contesto nazionale e internazionale con cui occorre misurarsi. È giusto dire, come fa Bentivogli, che senza strategia il sindacato, unitario o meno, non va da nessuna parte ma è anche corretto non dare per scontato che il problema sia rappresentato solo dalla FIOM o dalle tentazioni politiche del suo segretario generale. Anzi, limitarsi a pensare che, rimosso il problema Landini la strada sia in discesa rischia di essere un errore molto grave con nefaste conseguenze. Negli ultimi vent’anni il sindacato (quasi tutto il sindacato) ha rinunciato a pensare al futuro e si è chiuso in un recinto identitario da cui non è più uscito. gli stessi gruppi dirigenti di categoria nazionali e locali hanno costruito piú sull’identità e sul l’appartenenza che sui contenuti. In parte era inevitabile. Dal 1994 in avanti alle divisioni sui contenuti sono subentrate le divisioni e basta. Su tutto. E quando non ci si incontra più né ci si confronta su nulla, difficilmente si costruisce insieme. A parte poche eccezioni tutto si è svolto nei rispettivi recinti. E i nuovi gruppi dirigenti sono stati selezionati e sono cresciuti all’interno di quelle logiche. Chiunque volesse trovare un’analogia con gli anni 60 quando i vecchi gruppi dirigenti furono messi in crisi dall’effervescenza sociale di quel periodo si sbaglia. Il contesto è diverso, gli attori in campo sono diversi e, soprattutto, l’attacco ai corpi intermedi coinvolge anche le organizzazioni datoriali e quindi è in corso un evidente cambio di paradigma economico e sociale che impedisce una semplice riproposizione del passato. Per questo sarebbe fondamentale per il sindacato riprendere il rapporto con gli intellettuali, rilanciare i centri di formazione, riprendere il confronto unitario sui contenuti, e impegnarsi in una nuova strategia riformista. Ovviamente una strategia che fa della collaborazione nel Paese e per il Paese il suo punto di partenza. Lavoro, produttività, merito, condivisione convinta di rischi e opportunità con le imprese, welfare contrattuale e aziendale, politiche attive del lavoro, superamento definitivo del modello antagonista, sono i temi da approfondire. Evitando di limitarsi a segnalare le rispettive posizioni ma individuando alleanze, convergenze e priorità. L’alternativa è condannarsi all’irrilevanza politica e sociale. I segnali positivi ci sono: il contratto nazionale del Terziario e le complesse vertenze chiuse unitariamente con risultati apprezzabili sono lì a dimostrare che si può fare. Occorre andare avanti così.
il “controllo” del dirigente. Luogo fisico, orario, attività….
Qualche anno fa un amministratore delegato tedesco mi fece chiamare con urgenza dalla sua assistente. Cosa era successo? Un collega, responsabile commerciale, alla sua richiesta di spiegazioni su una missione, ancora da compiere, in Sicilia, aveva risposto che non era tenuto a fornire alcuna spiegazione perché, in quanto dirigente, aveva l’autonomia di decidere cosa fare, quando e come. E che, l’amministratore delegato avrebbe dovuto e potuto misurarlo sui risultati e non sulla gestione del tempo o delle modalità di esecuzione della prestazione. Pur non giustificando la ruvidezza della risposta del collega ho dovuto confermare le sue buone ragioni nel difendere la sua autonomia e il suo modo di lavorare. Succede spesso, soprattutto da parte di manager di vecchia generazione, che si pretenda una presenza tipo quella richiesta ad un impiegato del catasto. Oggi si lavora per obiettivi e si dispone di una tecnologia che consente di lavorare in modo profondamente diverso dal passato scegliendo tempi e modi. Ma chi è rimasto in vecchi schemi superati ragiona ancora in termini di luogo fisico definito, catena di comando tradizionale e orario di lavoro. Il dirigente di vecchia scuola non delega, decide in prima persona, giustifica sempre i suoi comportamenti e, siccome non riesce a controllare tutto, accusa il prossimo dei propri limiti. Il mondo del lavoro è ancora abitato da figure di questo tipo. Fortunatamente stanno scomparendo perché nelle moderne organizzazioni non li vuole più nessuno ma resistono ancora su qualche scoglio dove sono rimasti attaccati come cozze. Questi manager amano la sera lasciare l’azienda per ultimi e pretendono lo stesso atteggiamento dai collaboratori. Non importa se fingono di lavorare o perdono tempo giocando a tetris o al solitario con il PC, l’importante è che stiano supini nella postazione di lavoro a loro assegnata. Di solito si circondano di signorsì. Non amano il contraddittorio e si vogliono sentire temuti. Non delegano perché non si fidano di nessuno. E, non fidandosi di nessuno, non fanno crescere i collaboratori. Fingono di essere democratici, spesso vogliono essere trattati in modo amicale. I collaboratori sanno che il rapporto con il capo è sempre asimmetrico e quindi stanno sempre attenti a non esporsi. Lavorare con loro può diventare impossibile. In genere non hanno visione del futuro. Ne parlano a vanvera. Sono tattici, giocano nel breve. Non si rendono conto dei loro limiti e, in genere portano le loro organizzazioni al capolinea. Che fare quando si incontrano? Occorre gestirli. Adularli, prenderli in parola e crearsi contemporaneamente spazi autonomi. Soprattutto di pensiero. Di solito elencano progetti e idee improbabili, vagheggiano ruoli, compiti e funzioni che non praticano, chiedono contributi agli altri che non usano. Si dimenticano delle promesse che fanno. Ma, proprio per questo, lasciano spazi a chi sa prenderseli. In fondo non sono cattivi. Sono solo superati.
la visione uno non se la può dare…..
le trattative per il rinnovo di qualsiasi contratto sono un test interessante per misurare la presenza o meno della capacità di visione dei negoziatori. Il negoziato è, per sua natura, un compromesso e quindi giocano sicuramente un ruolo i rapporti di forza, il contesto generale e/o aziendale, la personalità e la stima che i rappresentanti assegnano alla propria controparte e anche la fiducia che ciò che si concorda sarà rispettato. Però in ogni negoziato si afferma sempre un senso, una direzione di marcia un elemento che rappresenta la ragion d’essere della trattativa: la capacità di inserire quegli obiettivi in una strategia credibile e riuscire a trasmetterla ai propri interlocutori. Fu così per la CISL negli anni 50/60 con la contrattazione articolata e poi dall’insieme dei sindacati confederali negli anni della svolta dell’Eur e dell’assunzione di forti responsabilità per arrivare poi fino alla concertazione. Poi il vuoto. Dall’altra parte fondamentalmente Confindustria e Confcommercio hanno creato due modelli in parte uguali per l’influenza del taylorismo, in parte diversi perché al centro delle negoziazioni di area Confcommercio il welfare contrattuale ha sempre avuto un peso rilevante dimostrando, in questo modo, una notevole capacità di visione. Visione presenti anche nelle controparti sindacali di quella fase storica. Ovviamente su Confindustria e sulle sue categorie ha pesato la necessità di reggere l’urto maggiore causato dai rapporti di forza in campo e quindi la necessità di difendere tout court le imprese. In quegli anni sono nati tra l’altro lo Statuto dei lavoratori, le 150 ore, le leggi sulla sicurezza sul lavoro, la contingenza e il suo superamento, ecc. Tutti elementi che, nel bene e nel male, hanno segnato, per una generazione, un protagonismo è una partecipazione che ha avuto effetti positivi su tutta la società italiana. Cosa accumulava richieste e strategie era la visione di un futuro da condividere. Oggi non è più così. Sembra prevalere la navigazione a vista, il breve periodo, i tatticismi. Le richieste (un tempo si chiamavano piattaforme) sono mediocri. E tutte tese a mantenere ciò che c’è. Anzi. sembra più importante limitarsi a condizionare le richieste datoriali senza valutare se le stesse sono dannose per il futuro dei propri associati, inutili o potrebbero, nel tempo, provocare più problemi di quanti ne risolvano nel breve. E qui diventa evidente la mancanza di visione. Nessuno è disponibile a partire dal contesto. Azzerando ciò che va azzerato e costruendo un contenitore e naturalmente nuovi contenuti degni di reggere il medio/lungo termine. Da qui la crisi dei modelli contrattuali e la scorciatoia che oggi va per la maggiore che affiderebbe la soluzione al livello aziendale. Nessuna riflessione sulla nuova cultura necessaria, sugli strumenti, sui contenuti e sul modello di sindacato piú idoneo ad affrontare quello che è un vero e proprio cambio di paradigma economico e sociale. Ha ragione Bentivogli quando dice che un Sindacato, pur unitario, senza una strategia non va da nessuna parte. Però temo sia poco ascoltato. E questo vale sia per il sindacato confederale ma anche per i piccoli sindacati o le associazioni di nicchia. Un rinnovo contrattuale deve avere un soggetto, un cuore e un’anima. Un perché, innanzitutto. Non basta che sia scaduto. Questo poteva valere in passato. Oggi non è più sufficiente. Anche qui, la visione del futuro. O c’è o non c’è. E se non c’è non basta alzare la voce.
Il bluff del secondo livello contrattuale: 1+1=1
Il non detto in cui cadono i sostenitori del decentramento contrattuale è sempre quello. Da una parte la Cisl che vorrebbe sommare i benefici di entrambi i livelli e dall’altro chi pensa che, una volta scardinato il CCNL si potrà fare a meno anche del livello aziendale. Due facce della stessa medaglia. Le critiche alla pesantezza e alla mancanza di flessibilità del CCNL si superano concretamente percorrendo il terreno delle deroghe. Il contrario non esiste. Lo vediamo nell’impasse del negoziato tra Federdistribuzione e le OOSS che, di fatto, lascia quasi duecentomila lavoratori senza alcun contratto nazionale senza alcuna reazione, lo vediamo con la disdetta di FIPE che lascia tanti altri lavoratori privi di rinnovo del contratto. Da parte sindacale non c’è alcuna presa di posizione significativa perché questi non sono tempi di mobilitazione. Da parte di molte aziende c’è poi l’idea di poter star fermi un giro o, almeno fino a quando è possibile. È la legge del pendolo. Quando i sindacati erano più forti e combattivi “caricavano” di costi le imprese. Adesso che sono oggettivamente deboli si caricano dei costi delle imprese. E, come un pugile suonato non sanno che fare. Inoltre, in molte aziende, l’idea di non fare alcun contratto nazionale o aziendale comincia a farsi strada. il dibattito aperto sui media su questo tema non comprende quasi mai questi aspetti. Ci si limita a teorizzare lo spostamento della contrattazione più vicino al territorio come soluzione di tutti i mali. È vero il contrario. L’asimmetria dei rapporti di forza si tradurrebbe nell’assenza di contrattazione. A meno che non vogliamo comprendere sotto questo termine tutto ciò che in caso di crisi i sindacati lasciano di tutto sul tavolo in cambio di impegni più o meno generici sull’occupazione. La messa in discussione del CCNL porta con sé molti effetti collaterali. In primo luogo mette in discussione il ruolo di regolatore salariale delle parti sociali. Non è cosa da poco. Oggi il contratto è sostanzialmente rispettato d tutte le aziende in tutto il Paese. Se non viene applicato determina la possibilità di farsi valere in altre sedi. È l’unico antidoto al downgrading salariale in atto in molti settori. in secondo luogo contiene tutti quegli elementi di welfare, gestione organizzativa e di inquadramento che sono punti di riferimento utili sia per le aziende che i lavoratori. In terzo luogo la non applicazione determina situazione di dumping tra aziende che, in un Paese con oltre quattro milioni di imprese, non è da sottovalutare. Infine il cosiddetto salario minimo. Avere un punto di riferimento nazionale e accettato da tutti è importante. Forse sarebbe più utile un nuovo modello che preveda 4 contratti: industria, terziario e servizi, alimentare e agricoltura, pubblico impiego anziché gli oltre 600 previsti oggi. Al proprio interno ciascun contratto potrebbe prevedere le specificità necessarie per singoli comparti. I contratti nazionali potrebbero inoltre gestire importanti quote di welfare nel campo della previdenza, della sanità e della formazione. A questi, infine, si potrebbe aggiungere un contratto unico per i manager (dirigenti, quadri, professional) che non ha senso inquadrare nei contratti di categoria con un welfare specifico. A livello aziendale e/o territoriale basterebbe introdurre il concetto della deroga. Una opzione a disposizione delle parti per gestire situazioni particolari aziendali o territoriali. Personalmente spero si vada in questa direzione. L’alternativa è Darwin. Non credo sia una strada da percorrere.
Nel 2050 ci saranno ancora le organizzazioni di rappresentanza?
In rete compare spesso questa domanda. In genere si parla di Confindustria soprattutto dopo il caso Fiat. Come tutto ciò che sa di ‘900 sembra destinato a restare alle nostre spalle. Ma è proprio così? Io credo di no. L’impresa da sola può fare molto. Può aprire, sottoscrivere un contratto, può affermarsi sul mercato. Può innovare, mettersi in rete, sviluppare il proprio capitale umano e può anche chiudere. L’impresa ha il suo ruolo sociale ed economico indipendentemente da tutto. Ma l’impresa da sola non va da nessuna parte. Non è in grado di proporre leggi che ne tutelino l’iniziativa indipendentemente dal colore del Governo, non è in grado di gestire le regole del gioco, non è in grado di muoversi, in assenza di precisi punti di riferimento, nelle filiere nazionali e globali. Quando l’impresa ha bisogno di uscire dal suo particolare deve saper individuare e trovare un livello che tuteli anche i propri interessi ma non solo quelli. Quindi le esigenze delle imprese intese come categoria sono aggiuntive e differenti. Confindustria ha rappresentato questa esigenza per tutto il 900. E continuerà a farlo anche in futuro. Potrà cambiare nome, mission, uomini, modalità di approccio ma l’esigenza di tutela politica ed economica resterà. È certo che le aziende singole possono lasciare l’organizzazione senza subire alcun contraccolpo. È successo anche per i sindacati dei lavoratori. Fino a quando qualcuno si è accorto che il loro peso organizzativo era irrilevante nelle imprese e, di conseguenza, è crollato anche il loro peso politico. Senza contrappesi una società si sfalda. Tra territori, generazioni, categorie economiche, interessi. In tutto il mondo questi contrappesi esistono. Forse sono in crisi di identità e di ruolo. Ma esistono. Non credo si trovino senza prospettiva. Siamo in una fase di transizione tra un paradigma economico e sociale che è finito e uno nuovo che non c’è ancora. Oggi la politica, l’economia, le religioni, i vecchi e nuovi player mondiali stanno ridisegnando ruoli, compiti e funzioni. In questo disorientamento generale si rischia sempre di gettare il bimbo con l’acqua sporca. Occorre avere chiaro gli interessi di lungo periodo delle imprese e del Paese e avere una visione del futuro coerente. Nel breve, purtroppo, hanno ragione tutti. Prevalgono gli esperti in scorciatoie. Ma non esistono soluzioni semplici per problemi complessi. Confindustria e le altre organizzazioni datoriali sanno di dover cambiare ma spesso i loro “cacicchi” locali non hanno alcuna intenzione di farlo e tendono a conservare la propria rendita di posizione. Fino a quando dura. Fortunatamente noi italiani siamo bravissimi ad avvicinarci all’orlo del baratro ma altrettanto bravi a non finirci dentro. Sarà così anche per le organizzazioni di rappresentanza.
Le delusioni e le opportunità di Raffaele Morese
Manca un ultimo passaggio, in corso presso le Commissioni parlamentari, per avere definitivamente come legge il Jobs act. Si tratta di validare nelle prossime settimane i decreti delega previsti dalla normativa generale già licenziata dalle Camere. Sarà un’ occasione per fare qualche aggiustamento ulteriore, ma la sostanza non cambierà. Il Ministro Poletti è molto contento (si è brindato al Ministero dopo l’approvazione, nei tempi previsti, da parte del Consiglio dei Ministri). Molto meno i destinatari con, ovviamente, tutte le sfumature del caso.
A parte quelli che la considerano una contro riforma, le delusioni non mancano. Su molti punti la discontinuità con il passato non è netta ( le Agenzie per i controlli ispettivi, per le politiche attive e per la salute e sicurezza nascono con il vizio del cerchiobottismo; il lavoro autonomo e professionale viene sfiorato e anche maldestramente; il lavoro dipendente sconta la persistenza di forme di flessibilità non aliene dalla catalogazione come “cattiva”). Su altri, non si è osato abbastanza, com’era nelle aspettative e anche nelle dichiarazioni iniziali del Governo (la questione dei disabili e quella delle pari opportunità). Infine, va detto che passano per adeguamento alla modernità, alcuni passi indietro nelle tutele individuali (controlli a distanza e demansionamento professionale).
Su tutti questi punti, troneggia il vuoto sulle politiche per la formazione. Ci si attendeva un grande rilancio dell’attività di orientamento sia per i giovani che per gli adulti verso l’educazione e ci si ritrova più o meno a ciò che già esiste. Con la differenza che sia il giovane in cerca di lavoro, sia il licenziato sulla base della nuova normativa, sia chi perde il lavoro e ne deve cercare un altro (la NASPI dura molto meno che la CIGS) si trovano meno tutelati di prima, perché non dispongono di strumenti efficaci e potenziati di politiche attive del lavoro.
Con un argomento non privo di fondamento, si è rinviato alla modifica costituzionale del Titolo V ogni ragionamento su questo versante. Ma resta il fatto che ora e chissà per quanto, l’Agenzia per le politiche attive non ha piena agibilità sul suo braccio armato, i centri per l’impiego, che vanno sotto la giurisdizione delle Regioni, mentre le politiche formative continueranno a svilupparsi ad “arlecchino” a secondo delle sensibilità delle Regioni. Da notare che in Germania, non solo funziona una potente Agenzia nazionale del lavoro (120000 addetti, contro gli 8000 in Italia) ma la formazione professionale è competenza esclusiva dello Stato. Evidentemente i conti tra Stato e Regioni sono stati per l’ennesima volta rinviati.
Ma ci sono anche opportunità che si sono aperte e non possono essere sottovalutate. Innanzitutto, che la riforma ha carattere di sistema e quindi prescinde dalle congiunture economiche. D’altra parte abbiamo sempre detto che l’occupazione non si fa con le norme, ma che queste servono per dare stabilità ad un sistema. Quello del nostro mercato del lavoro ha raggiunto livelli insopportabili di dualità e quindi di caoticità, proprio perché si sono succedute norme prodotte da valutazioni emergenziali o di breve periodo. Il Jobs act ha dalla sua il vantaggio di favorire un riaddensamento occupazionale attorno al contratto di lavoro a tempo indeterminato. I primi dati sull’andamento delle entrate e delle uscite dal mercato del lavoro sembrano confermare questa prospettiva. Svuotare le tante sacche di precarietà non risolve la questione della disoccupazione, ma almeno stabilizza maggiormente che in passato chi un lavoro ce l’ha.
Se, com’è auspicabile, nei prossimi anni si renderà strutturale la riduzione degli oneri previdenziali per i nuovi assunti, si potrà diminuire ulteriormente il ricorso a forme di flessibilità spurie e dare alla dualità del mercato una configurazione fisiologica e non patologica com’è stato finora. La discussione, dunque, si sposterà sulle politiche che si adotteranno sia per il lavoro dipendente che per quello autonomo e professionale.
In secondo luogo, va apprezzato il rilancio del contratto di solidarietà come strumento principale di governo dei processi di ristrutturazione. La sua concreta incentivazione impegnerà le parti sociali a gestire con il consenso l’utilizzo di tutti i lavoratori nelle situazioni di scarsa produzione e ciò rafforzerà la tendenza a farsi carico dell’insieme delle persone. Si interrompe così una prassi consolidata di selezione del personale che, al di là delle buone intenzioni, tendeva a creare figli e figliastri. Per non dire che, anche sull’onda di una pratica diffusa dei contratti di solidarietà difensivi, si potrà discutere, con minore veemenza ideologica, della necessità di ridistribuire il tempo di lavoro in modo strutturale.
Infine, il Jobs act ripropone in positivo il ruolo del sindacato, innanzitutto nei luoghi di lavoro. Questo è decisivo, perché è lì che si dovranno trovare gli “n” equilibri tra crescita della produttività e benessere dei lavoratori, tra ottimizzazione della produzione e livelli occupazionali, tra scelte organizzative e di modernizzazione e consenso della gente. Il rilancio non è scritto come fatto formale. Non c’è nessuno inchino al potere di intermediazione del sindacato, nella legge. Ma prevedendo che l’occupazione confluisca prevalentemente attraverso il contratto a tempo indeterminato, sebbene a tutele crescenti, irrobustisce le basi dell’autorità sindacale, che potrà essere esercitata per l’insieme della popolazione occupata in quel luogo.
Non sono opportunità di poco conto, soprattutto se si tiene presente che è una riforma non perfetta ma anzi alquanto lacunosa. Sono queste potenzialità che, se adeguatamente gestite, potranno consentire quegli aggiustamenti e quei cambiamenti che ancora mancano per renderla apprezzabile appieno.
Tutte le novità sugli ammortizzatori sociali di Ferruccio Pelos
Il Consiglio dei ministri, nella seduta dell’11 giugno 2015, ha approvato in via definitiva due decreti delega del jobs act, che avevano gia’ svolto il proprio iter parlamentare e che sono stati pubblicati nella Gazzetta Ufficiale n.144 del 24.6.2015. Si tratta di:
– DECRETO LEGISLATIVO 15 giugno 2015, n. 80
Misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, in attuazione dell’articolo 1, commi 8 e 9, della legge 10 dicembre 2014, n. 183.
Entrata in vigore del provvedimento: 25/06/2015
– DECRETO LEGISLATIVO 15 giugno 2015, n. 81
Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183.
Altri quattro decreti sono stati approvati in via preliminare.
Gli schemi di questi decreti legislativi, presentati durante il Consiglio dei Ministri dell’11 giugno scorso, sono stati trasmessi alle Camere affinché presentino il loro parere entro 30 giorni.
I nuovi decreti attueranno gli altri quattro punti della Legge Delega 183/2014: ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro; riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro e di politiche attive; razionalizzazione e semplificazione delle procedure e degli adempimenti a carico di cittadini e imprese e altre disposizioni in materia di rapporto di lavoro e pari opportunità; realizzazione e semplificazione dell’attività ispettiva in materia di lavoro e legislazione sociale.
In particolare il Consiglio dei Ministri ha approvato, in esame preliminare, il decreto legislativo: “Riordino degli ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro”.
Schema di D.Lgs. n. 179 (art. 1, co. 1, 2 lett. a), e 11, L.183 del 2014).
Di questo schema di decreto ci occuperemo in questo articolo.
Il nuovo testo tiene anche conto delle richieste delle Organizzazioni Sindacali (per citarne alcune: Cigs e Cigo da 24 a 36 mesi se abbinate ai contratti di solidarietà; applicazione dei nuovi strumenti anche alle aziende con più di 5 dipendenti; estensione di Cigo e Cigs all’apprendistato professionalizzante; Fondo triennale per il raccordo con il nuovo regime di Cigs; Fondi di Solidarietà ed estensione alle aziende da 6 a 15 addetti dell’obbligo ad aderire ai Fondi; lavoratori del settore turistico; miglioramento di Naspi e di Asdi). E’ possibile che questo confronto indiretto ed informale tra i sindacati e il Governo prosegua, attraverso il tentativo – che il sindacato farà anche nelle audizioni parlamentari sullo schema di Decreto Legislativo – di migliorare il testo definitivo che andrà in Consiglio dei Ministri, in particolare sui temi che sottolineeremo via via nella lettura dello schema di Decreto.
Le disposizioni contenute nel decreto si suddividono in:
disposizioni sulle norme generali sui trattamenti di integrazioni salariali;
disposizioni sull’integrazione salariale ordinaria;
disposizioni sull’integrazione salariale straordinaria;
disposizioni sui fondi di solidarietà;
disposizioni finanziarie (art. 42, Naspi e Asdi).
Secondo il Governo, per effetto del decreto, vengono estese le tutele a 1.400.000 lavoratori sinora esclusi.
Disposizioni sulle norme generali sui trattamenti di integrazioni salariali.
Le principali normative riguardano:
agli apprendisti assunti con contratto di apprendistato professionalizzante viene esteso il trattamento di integrazione salariale, unitamente all’estensione degli obblighi contributivi (e cioè gli apprendisti diventano destinatari della Cigo e, nel caso in cui siano dipendenti di imprese per le quali trova applicazione solo la Cigs, di quest’ultimo trattamento, limitatamente alla causale di crisi aziendale); per l’apprendista si richiede un’anzianità di servizio di almeno 90 giorni;
la revisione della durata massima complessiva delle integrazioni salariali che ora è di 36 mesi; viene portato, per ciascuna unità produttiva, il trattamento ordinario e quello straordinario di integrazione salariale ad un massimo complessivo di 24 mesi in un quinquennio mobile (non più fisso). Utilizzando i contratti di solidarietà tale limite può essere portato a 36 mesi nel quinquennio mobile; la causale di contratto di solidarietà viene infatti computata nella misura della metà. Per il settore edile la durata massima è di complessivi 30 mesi;
l’introduzione di meccanismi di condizionalità concernenti le politiche attive del lavoro: i lavoratori beneficiari di integrazioni salariali per i quali è programmata una sospensione o riduzione superiore al 50% dell’orario di lavoro sono convocati dai centri per l’impiego per la stipula di un patto di servizio personalizzato;
l’introduzione di un meccanismo di responsabilizzazione sulle aliquote pagate dalle imprese, con un contributo addizionale a fronte di un effettivo utilizzo. Viene previsto infatti un contributo addizionale del 9% della retribuzione persa per i periodi di cassa (cumulando Cigo, Cigs e contratti di solidarietà) sino a un anno di utilizzo nel quinquennio mobile; del 12% sino a due anni e del 15% sino a tre anni.
Il sindacato chiede di abolire il contributo addizionale per i contratti di solidarietà.
Disposizioni sull’integrazione salariale ordinaria.
Le principali normative riguardano:
una riduzione generalizzata del 10% sul contributo ordinario pagato su ogni lavoratore. L’aliquota del contributo ordinario pagato, indipendentemente dall’utilizzo della cassa, passa quindi dall’1,90% all’1,70% della retribuzione per le imprese fino a 50 dipendenti; dal 2,20% al 2% per quelle sopra i 50; dal 5,20% al 4,70% per l’edilizia;
l’introduzione del divieto di autorizzare ore di integrazione salariale ordinaria eccedenti il limite di un terzo delle ore ordinarie lavorabili nel biennio mobile, con riferimento a tutti i lavoratori dell’unità produttiva mediamente occupati nel semestre precedente la domanda di concessione dell’integrazione salariale; e ciò, al fine di favorire la rotazione nella fruizione del trattamento di Cigo, e il ricorso alla riduzione dell’orario di lavoro rispetto alla sospensione a zero ore;
la semplificazione della procedura di concessione delle integrazioni salariali ordinarie: viene cioè previsto che il trattamento sia concesso, dall’1.01.2016, dalla sede INPS territorialmente competente, abolendo le Commissioni provinciali della Cassa integrazione guadagni.
Disposizioni sull’integrazione salariale straordinaria.
Le principali normative riguardano:
la razionalizzazione della disciplina concernente le causali di concessione del trattamento: viene cioè previsto che l’intervento straordinario di integrazione salariale possa essere concesso per una delle seguenti tre causali:
riorganizzazione aziendale (che riassorbe le attuali causali di ristrutturazione, riorganizzazione o conversione aziendale);
crisi aziendale, ad esclusione, a decorrere dal 1° gennaio 2016, dei casi di cessazione dell’attività produttiva dell’azienda o di un ramo di essa. Viene previsto, tuttavia, che può essere autorizzata, per un limite massimo di 6 mesi e previo accordo stipulato in sede governativa, entro il limite di spesa di 50 milioni di euro per ciascuno degli anni 2016, 2017 e 2018, una prosecuzione della durata del trattamento di Cigs, qualora all’esito del programma di crisi aziendale l’impresa cessi l’attività produttiva e sussistano concrete prospettive di rapida cessione dell’azienda e di un conseguente riassorbimento occupazionale (Fondo Triennale);
contratto di solidarietà: pertanto, gli attuali contratti di solidarietà di tipo “A”, previsti per le imprese rientranti nell’ambito di applicazione della Cigs, diventano una causale di quest’ultima;
per le causali di riorganizzazione aziendale e crisi aziendale possono essere autorizzate sospensioni del lavoro soltanto nel limite dell’80% delle ore lavorabili nell’unità produttiva nell’arco di tempo di cui al programma autorizzato; questo per favorire la rotazione nella fruizione del trattamento di Cigs; questa disposizione non opera per un periodo transitorio di 24 mesi dall’entrata in vigore del decreto;
la revisione della durata massima della Cigs e dei contratti di solidarietà:
per la causale di riorganizzazione aziendale viene confermata l’attuale durata massima di 24 mesi, anche continuativi in un quinquennio mobile, per ciascuna unità produttiva;
per la causale di crisi aziendale viene confermata la durata massima di 12 mesi, anche continuativi;
per la causale di contratto di solidarietà viene confermata, rispetto agli attuali contratti di solidarietà di tipo “A”, la durata massima di 24 mesi, che può essere estesa a 36 mesi, in quanto viene previsto che la durata dei trattamenti per la causale di contratto di solidarietà, entro il limite di 24 mesi nel quinquennio mobile, sia computata nella misura della metà. Oltre tale limite, la durata di tali trattamenti viene computata per intero. Sempre a 36 mesi si arriva nel caso di solo contratto di solidarietà.
Solamente per questa fattispecie il sindacato chiede di arrivare ai 48 mesi.
Disposizioni sui fondi di solidarietà.
Le principali normative riguardano:
la previsione dell’obbligo di estendere i fondi di solidarietà bilaterali per tutti i settori che non rientrano nell’ambito di applicazione delle integrazioni salariali ordinarie o straordinarie, in relazione alle imprese che occupano mediamente più di 5 dipendenti (oggi l’obbligo è per le imprese con più di 15 dipendenti); la previsione che, a decorrere dal 1° gennaio 2016, il fondo di solidarietà residuale (ossia il fondo che opera per tutti i settori i quali, oltre a non rientrare nell’ambito di applicazione delle integrazioni salariali ordinarie o straordinarie, non abbiano costituito fondi di solidarietà bilaterali) assume la denominazione di Fondo di Integrazione Salariale (Fis) ed è soggetto a una nuova disciplina. Gli aspetti salienti di tale nuova disciplina sono i seguenti:
rientrano nell’ambito di applicazione del Fondo di integrazione Salariale i datori di lavoro che occupano mediamente più di 5 dipendenti (oggi più di 15 dipendenti), a fronte del pagamento di un’aliquota dello 0,45% della retribuzione a partire dal 2016 (per le imprese oltre i 15 dipendenti, l’aliquota sarà dello 0,65%).
il Fondo di Integrazione Salariale garantisce, a decorrere dal 1° gennaio 2016, l’erogazione di una nuova prestazione, ossia l’assegno di solidarietà. Si tratta di una integrazione salariale corrisposta – per un periodo massimo di 12 mesi in un biennio mobile – ai dipendenti di datori di lavoro che stipulano con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative accordi collettivi aziendali che stabiliscono una riduzione dell’orario di lavoro, al fine di evitare o ridurre le eccedenze di personale o di evitare licenziamenti plurimi individuali per giustificato motivo oggettivo: tale nuova prestazione sostituisce i contratti di solidarietà di tipo “B”, ossia quelli stipulati dalle imprese non rientranti nell’ambito di applicazione della Cigs. I datori di lavoro che occupano mediamente più di 5 e fino a 15 dipendenti possono richiedere l’assegno di solidarietà per gli eventi di sospensione o riduzione di lavoro verificatisi a decorrere dal 1° luglio 2016. Per i lavoratori di queste piccole aziende, 5 – 15 dipendenti, si pone il problema delle coperture fino a quando non si andrà a regime (1° luglio 2016). Il sindacato chiede quindi che il Governo, solo per coprire questo vuoto, rifinanzi i contratti di solidarietà di tipo B o la cassa integrazione in deroga;
nel caso di aziende che occupano mediamente più di 15 dipendenti, il Fondo di Integrazione Salariale garantisce l’ulteriore prestazione consistente nell’assegno ordinario, per una durata massima di 26 settimane in un biennio mobile, in relazione alle causali di riduzione o sospensione dell’attività lavorativa previste dalla normativa in materia di integrazioni salariali ordinarie (ad esclusione delle intemperie stagionali) e straordinarie (limitatamente alle causali per riorganizzazione e crisi aziendale);
revisione della disciplina dell’assegno ordinario corrisposto dai fondi di solidarietà bilaterali: i fondi (diversi dal fondo di integrazione salariale) stabiliscono la durata massima della prestazione, non inferiore a 13 settimane in un biennio mobile e non superiore, a seconda della casuale, alle durate massime previste per la Cigo e la Cigs (attualmente, invece, l’assegno ordinario, a prescindere dalla causale, non può eccedere la durata massima prevista per la Cigo);
introduzione di requisiti di competenza ed assenza di conflitto di interesse per gli esperti designati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori, quali membri dei comitati amministratori dei fondi di solidarietà bilaterali (ivi compreso il fondo di integrazione salariale);
introduzione di requisiti di onorabilità per tutti i membri dei comitati amministratori del Fondo di Integrazione Salariale e dei fondi di solidarietà bilaterali;
la previsione che, entro il 31 dicembre 2015, i fondi bilaterali cosiddetti puri, o alternativi al sistema sin qui descritto (quali il fondo bilaterale dell’artigianato) eroghino almeno una prestazione tra l’assegno ordinario per 13 settimane nel biennio o l’assegno di solidarietà per 26 settimane nel biennio, prevedendo un’aliquota di contribuzione al fondo dello 0,45% (diviso tra azienda e lavoratore secondo un accordo lasciato alle parti sociali).
Disposizioni finanziarie (art. 42, Naspi e Asdi)
Secondo le dichiarazioni del Governo le disposizioni del decreto consentono risparmi di spesa, utilizzati per rendere strutturali la Naspi a 24 mesi anche dopo il 2016 e per rendere strutturali i finanziamenti per importanti interventi di politica sociale in materia di: conciliazione dei tempi di cura, di vita e di lavoro; assegno di disoccupazione (Asdi); fondo per le politiche attive del lavoro. Il decreto – a detta del Governo – comporta anche una salvaguardia, ma limitatamente al 2015, della durata della Naspi con riferimento ai lavoratori stagionali del settore del turismo.
Illegittimi controlli a distanza o legittimi controlli di apparecchiature aziendali?
Ci risiamo. Nessuno si è mai sognato di protestare all’assegnazione di strumenti quali il telepass, la carta carburante, il cellulare o il p.c. portatile. Addirittura per un manager, insieme all’auto, costituiscono ciò che vengono definiti benefit e dati per scontato. Anzi pretesi, come è ovvio che sia. Quasi sempre vengono usati sia per lavoro che per motivi extra lavorativi. Lo sanno tutti. Azienda e collaboratori. L’azienda sa esattamente come vengono usati e il collaboratore sa che l’azienda è perfettamente a conoscenza del loro utilizzo. Dal telepass si ricava dove e quando un collaboratore transita in autostrada. Dalla carta carburante dove, a che ora fa il pieno e se il consumo è in linea con i consumi standard. Cosí è per le telefonate. I gestori mandano con una certa regolarità consumi e numeri telefonici chiamati (pur con modesti accorgimenti a tutela della privacy). L’azienda sa perfettamente dove è stato il suo collaboratore, quanto si è fermato da un cliente, dove ha perso tempo, con chi ha parlato, quanto ha usato il p.c. per cosa e per quanto tempo. Sia quando lavora che quando è in ferie o in malattia. E questo da sempre. Questo ha comportato problemi particolari? No. Se un collaboratore esagera nell’utilizzo qualcuno glielo fa notare. Direttamente o indirettamente. Altrimenti non succede proprio nulla. Se c’è dolo grave scattano provvedimenti disciplinari? Si. Se un collaboratore in malattia ha l’auto in qualche località vacanziera, è normale che nasca un sospetto. Così come se una utilitaria improvvisamente consuma come una fuoriserie. Non c’è nessun grande fratello. È un problema di rapporto fiduciario che non deve mai venire meno. I controlli a distanza non incidono sulle idee o sulle affermazioni del collaboratore. Semmai la rete vene scandagliata prima dell’assunzione di un collaboratore. Quindi fuori dalla portata della legge 300. Che fare? Informare il collaboratore di come l’azienda utilizzerà le informazioni e informare il collaboratore dei rischi che corre in caso di abuso o di violazione delle policy aziendali. Tutto qui. Questi interventi fanno parte di una normale attività di gestione dell’organizzazione che, in forza della tecnologia, si dilata e va oltre i confini tradizionali. E, infine, superare nei testi definitivi le possibili contraddizioni create negli articoli della legge 300. Tutto qui. Non serve complicare la vita delle imprese né far passare l’idea che le stesse passano il tempo a controllare i collaboratori. L’invenzione del semaforo ha reso meno semplice l’attraversamento spontaneo delle strade perché ha certamente ridotto la libertà individuale del pedone. Forse qualcuno all’epoca ha protestato ma una cosa è certa. Se conosci come funziona ti muovi di conseguenza. La protesta dei sindacati è, ovviamente, strumentale. Pensare di affidare a loro un intervento preventivo è pura follia. Sarebbe come se qualcuno avesse pensato di affidare alle Poste italiane un controllo preventivo sul traffico delle mail. Inutile, burocratico è inefficace. Non c’è mai stata protesta all’assegnazione di questi strumenti e nessuno ha mai rifiutato un benefit con queste motivazioni. In azienda, che piaccia o meno, c’è un livello di rispetto e di democrazia ben diverso da quello degli anni 70. Allora veniva licenziato chi leggeva L’Unità. Oggi chi lavora all’Unità. Non mi sembra una differenza da poco.