Dal caro carrello al carrello tricolore. La Grande Distribuzione supererà compatta il prossimo trimestre?

L’operazione “carrello tricolore” è finalmente decollata pur con qualche difficoltà di implementazione tra decisioni e messa a terra. Repubblica l’ha già segata.  Tutto come previsto. Servirà almeno una settimana  per andare a regime. C’è fretta di liquidare negativamente l’evento. Dall’esterno, per demolire un embrione sgradito di patto sociale e dall’interno perché la GDO muovendosi come comparto, e non insegna per insegna, disturba chi sulle divisioni e sulla competizione tra insegne ci ha costruito le proprie teorie. L’elenco delle realtà che hanno aderito è disponibile (https://bit.ly/3RH7MjW). Polemiche, dubbi e mal di pancia accompagneranno questa operazione fino alla scadenza,  come era assolutamente prevedibile. Con il testo ancora caldo delle 32 firme, dei sorrisi e delle strette di mano con il Presidente del Consiglio, anche lo stesso Presidente di Federdistribuzione intervistato da Repubblica,  si è fatto prendere la mano reinterpretando  il  Tom Cruise di Minority Report, e, annunciando, in un modo assolutamente intempestivo che uno dei firmatari, l’industria di marca, con il suo comportamento ondivago contribuirà, di fatto, a depotenziare l’intesa.

Io avrei atteso  il “reato” per contestarlo, piuttosto che darlo per scontato. C’è un problema di coerenza complessiva dell’accordo ed è dato dal contributo di tutti i partecipanti. Grande o modesto, si dimostrerà. Al di là del Governo che non ha alcuna intenzione di intestarsi un eventuale fallimento. Lo scaricherà inevitabilmente sull’ultimo anello della catena. L’IDM lo ha firmato, pur a modo suo, obtorto collo. Però lo ha firmato. Ed è su questa firma che occorre tenere alta la guardia.

Altri sui social banalizzano, già ora, i possibili risultati.  Innanzitutto i pattoscettici, quelli che hanno già deciso che siamo di fronte ad un banale esercizio di stile.  “Non ho mai conosciuto un pessimista che abbia concluso qualcosa di buono” amava ripetere Giovanni XXIII. Poi c’è ovviamente, chi contesta politicamente questo governo, e quindi, ne sminuisce la portata. Infine i benaltristi e i sognatori. Quelli che pensano che bisognerebbe sempre fare altro. Ovviamente sui social sono i più agitati. C’è poi chi non avrebbe voluto fare nulla, chi ipotizza la diminuzione dei prezzi per decreto, chi sogna aumenti di stipendi generalizzati, chi la giusta remunerazione per tutta la filiera con il conto spedito altrove e messo in carico alla collettività. O al consumatore finale. Giorgio Gaber nella sua famosa canzone quelli che….. avrebbe concluso questo elenco con un Oh Yeah!

Poi fortunatamente ci sono le insegne della Grande Distribuzione e del commercio in genere. Quelle che hanno dato mandato alle loro associazioni. A cominciare dalle principali che si stanno già muovendo con convinzione sperando di non essere lasciate sole dal Governo e dal resto della filiera nel confronto di merito che dovrà seguire nei prossimi mesi. Per ora, le insegne rappresentano  il colibrì della famosa storiella africana. L’incendio della foresta consiglierebbe a tutti di scappare. Di lasciar perdere. Lui no. Con nel becco la sua goccia d’acqua vola sopra l’incendio. E a tutti quelli che scappano e che lo deridono e che gli chiedono cosa pensa di fare con quella goccia d’acqua nel becco lui risponde tranquillo: “la mia parte, solo la mia parte”.

La stragrande maggioranza delle insegne ha deciso di scommetterci  sul serio e di fare la propria parte. Certo c’è chi è convinto  di averlo  sempre fatto (le famose vecchie e care promozioni). E chi in questi due anni ha sacrificato parte dei suoi margini per tenere volumi e clienti. Ma nessuno, fuori dal perimetro, gliene renderà  merito. Il passato conta poco.  Il “caro carrello” era addebitato alla GDO non agli aumenti dei listini, più o meno giustificati.  I clienti, come ho già scritto, leggono lo scontrino. Non le dotte elucubrazioni sulle cause internazionali dell’inflazione o degli andamenti delle materie prime. In questo senso nell’operazione in corso oltre alla normale passerella a favore di telecamera del Governo, c’è ovviamente una componente di comunicazione esterna  importante da parte della GDO senza la quale si sarebbe scatenata una campagna mediatica difficile da arginare. E questo avrebbe determinato a sua volta una rincorsa confusa e pasticciata sui prezzi, insegna per insegna, per rimbalzare le accuse. Questo rischio è, per ora, alle spalle.
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Patto anti inflazione. Trentadue partecipanti al via….

Non siamo certo al Protocollo sulla politica dei redditi e dell’occupazione, sugli assetti contrattuali, sulle politiche del lavoro e sul sostegno al sistema produttivo (Protocollo Ciampi-Giugni) del 23.07.93 ma l’accordo firmato dal Governo con le 32 associazioni della distribuzione, dell’industria, dell’artigianato, delle cooperative e del mondo dell’agricoltura è un segnale importante. Pur caratterizzato dalla classica liturgia prevista in questi casi a favore di telecamera per enfatizzare l’avvenimento, il ruolo del Governo  e dei  firmatari, il passaggio era comunque delicato e affatto scontato.

Il cosiddetto Trimestre Anti-inflazione prende il via alla presenza istituzionale della Presidente del Consiglio e dei ministeri competenti. Centromarca e Ibc che avevano tentato, in un primo tempo di sottrarsi “hanno confermato oggi a Palazzo Chigi, alla presenza del Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, del Ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso, e del Ministro dell’Agricoltura, della Sovranità Alimentare e delle Foreste Francesco Lollobrigida, il massimo supporto dell’Industria del Largo Consumo al contenimento delle tensioni inflative”.

Così Federdistribuzione  che ha ribadito  “l’impegno del prossimo trimestre, durante il quale le nostre imprese potenzieranno l’offerta di risparmio per milioni di italiani, si aggiunge infatti a tutto lo sforzo messo in campo negli ultimi diciotto mesi per rallentare l’aumento dei prezzi al consumo, frenando la spinta della crescita dei costi energetici, delle materie prime e dei prezzi di listino dei prodotti industriali. Questo perché l’essenza stessa del nostro settore mette al centro la “Dedicata a te” per dare sostegno alle famiglie a più basso reddito, così come oggi il trimestre anti-inflazione che dimostra, ancora una volta, il senso di responsabilità delle nostre imprese”. E così tutto il resto dei presenti che si è  metaforicamente impegnato con la classica firma collettiva.

Rispettata la liturgia cosa succederà ora? Innanzitutto la scelta di lasciare l’assoluta libertà ai firmatari di declinare il loro impegno puntando sulla responsabilità di ciascuno e non su una imposizione sottolinea la serietà dell’iniziativa. Ci sono aumenti di prezzo inevitabili che non possono essere fermati pena la sopravvivenza di realtà economiche, altri rinviabili e altri ancora frutto di decisioni discutibili legate alle strategie delle singole imprese. Le aziende quindi sono libere di dimostrare o meno la loro sensibilità sociale e di sentirsi parte o meno di uno sforzo collettivo nell’interesse del Paese e dei consumi delle famiglie. I diciotto mesi passati che hanno visto l’impegno sul tema delle insegne della GDO sarebbero passati nel dimenticatoio o banalizzati senza la conferma di questa sperimentazione per il prossimo trimestre.

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Esselunga. Far politica con una pesca…

Era immaginabile tutto questo trambusto sulla nuova pubblicità di Esselunga. Critiche feroci,  minacce di boicottaggio, accuse di utilizzare lo spot per spostare l’attenzione verso una visione della famiglia dal sapore fortemente tradizionalista. La bolla dei social si è scatenata. Favorevoli e contrari si sono affrontati senza esclusione di colpi. Il mio commento a caldo è stato: “Crea contrasto e fa discutere. Incidenza sulle vendite? Non credo. Indignazione e approvazione erano in preventivo. Amplifica però la notorietà del brand in un contesto dove le insegne sembrano tutte uguali. Nel merito, non è nelle mie corde ma non mi ha lasciato indifferente”. Lascio agli esperti di marketing il dibattito sull’efficacia e agli estremismi della rete il corpo a corpo sul tema.

Mi interessa ritornare su Esselunga. E su come la GDO vive questo momento dove i riflettori improvvisamente si accendono sul suo agire come mai era successo prima. Non dimentichiamo il patto anti inflazione, il ruolo politico che il comparto, non abituato, si troverà ad interpretare, le ricadute nelle prossime settimane scatenate dalle inchieste vere, o presunte tali, sul rispetto degli accordi sottoscritti. Le inevitabili  furbizie di chi nel comparto pensa che tutto sia sostanzialmente come prima del patto e che la sua libertà di azione non ne risentirà più di tanto. Non dimentichiamo mai le abitudini e la composizione imprenditoriale e manageriale complessiva. Ne vedremo quindi delle belle.

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E continuano a chiamarli Discount. L’exploit di Todis

La crisi e l’inflazione hanno messo sotto i riflettori i discount e la loro capacità di muoversi in sintonia con i consumatori. Per osservare da vicino il fenomeno basta entrare in un supermercato o in un ipermercato tradizionale. Almeno tra quelli impegnati a contrastarli replicandone lo spartito. C’è una grande confusione. I discount, tedeschi o italiani, però, stanno facendo anche altro, interessati come sono, a consolidarsi sperimentando strade nuove.

Tra gli italiani dietro Eurospin e MD, si fa strada Todis, insegna nata a Roma, di proprietà di Iges Srl, controllata dalla cooperativa PAC2000A Conad che comprende oltre 300 punti vendita distribuiti in 10 regioni del centro-sud d’Italia (compresi quelli controllati da Addis srl, joint venture con Conad Adriatico). Ha appena aperto un nuovo punto vendita  a Roma nel rione Prati,  un elegante quartiere di Roma, con i suoi negozi, i ristoranti ricercati, le osterie che propongono la cucina tradizionale o dove fare acquisti, ad esempio in via Cola di Rienzo, una delle principali vie dello shopping della città, ex sede di uno storico punto vendita di  Standa oggi di Coin con al suo interno   laEsse di Esselunga.

Il nuovo punto vendita aperto ha una configurazione particolare. Per farla semplice  è, a mio parere,  a metà strada tra il flagship store “Terre d’Italia che Carrefour sta sperimentando a Milano, in piazza De Angelis e laEsse di Esselunga con però una vocazione specifica rispetto al quartiere di riferimento. Qui sta la vera differenza. Siccome siamo a Roma direi una sorta di “pizzicarolo” 2.0 parte viva del rione e del contesto. Ricorda un po’ il vecchio negozio di quartiere, ovviamente in chiave moderna, che gestiva, mettendoci la faccia, i suoi affezionati clienti. Era lui che decideva i prodotti da consigliare. Trasmetteva fiducia. Era lui, la marca. La differenza è che Carrefour e Esselunga  traferiscono al contesto locale la forza e la notorietà della loro insegna. Todis sceglie di includere  il  contesto, nella sensibilità del punto vendita. Non è a mio parere una differenza da poco.

Todis Rione Prati “La Via Gustosa” sul Lungotevere Michelangelo, segue Todis Rione Colonna e Todis Rione Trastevere. Il format del nuovo punto vendita, totalmente innovativo dedicato ai 22 Rioni che delineano il cuore della Capitale e che prendono il nome del Rione che lo ospita. Un formato rivolto ai quartieri centrali, ricco di servizi con un assortimento particolarmente incentrato sul segmento Premium e sul Food To Go. Comunicazione bilingue vista la forte presenza di turisti, tecnologia che accompagna e facilita l’acquisto grazie alla presenza di numerosi strumenti per poter visionare, ad esempio, tutte le caratteristiche dell’offerta vinicola. Leggi tutto “E continuano a chiamarli Discount. L’exploit di Todis”

Grande Distribuzione. Prove di unità, di strategia e di autorevolezza

Il patto anti inflazione, al di là dei risultati che produrrà concretamente, dimostra che un comparto economico vale ed è ascoltato se dimostra di sapersi rappresentare unito in tutte le sue componenti. La polemica sul cosiddetto “caro carrello” e sulle performance economiche  “stratosferiche” della GDO facevano presagire una messa in mora dell’intero settore che, per ora, è stata sventata. Il consumatore si ferma allo scontrino. Non vede i listini ballerini dell’industria.

L’esperienza che se ne dovrebbe trarre da questa vicenda è che una federazione che raggruppi tutta la Grande Distribuzione non può che essere, ancora di più, un obiettivo irrinunciabile. I “mal di pancia” della vecchia guardia cresciuta nelle guerricciole tra insegne e il fatalismo di chi, pur comprendendo il problema, è scettico sugli altri compagni di strada,  dovrebbero lasciare il campo a nuovi leader in grado di condividere  una visione comune. Per questo insisto spesso sulle analogie e sugli esempi dei nostri cugini francesi. 

Alexandre Bompard, CEO di Carrefour è, da poco,  presidente della Fédération du Commerce et de la Distribution (FDC). L’associazione che riunisce la maggior parte dei grandi marchi della distribuzione alimentare francese, compresa quella specializzata. È subentrato a François Bouriez, co-amministratore delegato del gruppo Cora-Louis Delhaize, che ricopriva questa carica dal 2011. Su LinkedIn, una volta eletto, si è subito dichiarato “onorato di questa nomina e ha paragonato il suo impegno per la FDC a quello che già contraddistingue Carrefour: “In un’epoca di inflazione galoppante, di trasformazione digitale e di lotta al cambiamento climatico, le battaglie sono numerose. E sono da tempo le nostre in Carrefour. Sono entusiasta all’idea di affrontarle con tutti i membri della FDC.”

Per capire le ragioni che hanno spinto Carrefour e il suo CEO a diventare la punta di diamante nell’interlocuzione con il Governo francese sul patto anti inflazione e  contro le resistenze di una parte dell’industria denunciando anche la skrinflation nei propri punti vendita è necessario partire da qui. Alexandre Bompard è un top manager che ha ridato un’immagine vincente a Carrefour togliendola dalle sabbie mobili di una crisi che sembrava irreversibile, è un top manager riconosciuto,  interlocutore della politica francese e un leader nel comparto. Leggi tutto “Grande Distribuzione. Prove di unità, di strategia e di autorevolezza”

Grande distribuzione e industria alimentare. Perché il “patto anti inflazione” con il Governo si deve fare..

Per capire l’importanza del “patto anti inflazione” bisogna partire dal contesto politico, economico e sociale nel quale sta prendendo forma. Abbiamo un’inflazione che incide pesantemente i redditi più bassi (le famiglie di pensionati e delle fasce più povere, tra il 2018 e il 2022, hanno perso il 10,6% del reddito reale: oltre 10 volte di più rispetto ai lavoratori attivi), i salari fermi, milioni di lavoratori con i CCNL da rinnovare, un rischio di impennate dei costi dell’energia, se l’inverno non dovesse essere clemente e, ultimo ma non di minore importanza, la durata e gli effetti conseguenti al conflitto in corso ai confini dell’Europa che consigliano cautela nelle previsioni.

È altrettanto ovvio che questo percorso, come in Francia, sarebbe dovuto partire prima ma una delle inevitabili caratteristiche di ogni intesa che vede protagonisti, politica e parti sociali, è che si fa quando matura la consapevolezza nei contraenti. Non quando sarebbe veramente necessaria al Paese. E uno dei contraenti (parte dell’industria alimentare) ha resistito a lungo sia quando era la Grande Distribuzione a chiedere un intervento comune, sia nella prima fase delle pressanti richieste del Governo. Sopratutto per gli impatti sui singoli sottosettori.

La seconda critica “anti patto” è la mancata convocazione di tutti gli attori che a monte e a valle con le loro decisioni incidono sul prezzo finale. Chi sostiene questa tesi non ha la più pallida idea delle dinamiche associative e negoziali di questo Paese ai tavoli governativi. Confindustria, Confcommercio, Coldiretti, Conftrasporto, Federalberghi hanno rapporti continui e privilegiati con questo Governo. Le loro istanze sono costantemente sul tavolo di tutti i ministeri, per certi versi ne costituiscono il vero riferimento economico e sociale. Potrei aggiungere che ne rappresentano una buona fetta della base politica ed elettorale che sostiene questa maggioranza ma non mi interessa allargare il discorso sul piano politico.

C’è un Governo che chiama i due attori principali in commedia (chi emette lo scontrino al consumatore e chi fissa i listini) e chiede loro un chiaro segnale di disponibilità all’interno di un percorso negoziale nel quale, industria alimentare e distribuzione, potranno indicare tutti gli elementi aggiuntivi in grado di rendere quel patto potabile ai consumatori e in grado di provare ad invertire la rotta sui consumi. Il patto anti inflazione come altre occasioni di incontro tra parti sociali e politica non è mai una “passerella” inutile né scansabile con una semplice alzata di spalle come alcuni hanno sostenuto. Leggi tutto “Grande distribuzione e industria alimentare. Perché il “patto anti inflazione” con il Governo si deve fare..”

Il futuro è del discount? No. È di chi saprà mettere al centro i veri bisogni del cliente…

Sono convinto che se il Gruppo Rewe nel 1994 avesse lasciato fare a Bernardo Caprotti avremmo avuto in Italia, un ibrido brianzolo-tedesco con vent’anni di anticipo, in grado di tracciare una traiettoria innovativa anche nel discount. E di competere alla pari rispetto a ciò che oggi sono Lidl e Aldi. O altre insegne discount nazionali. Lidl era arrivata solo due anni prima (1992) ad Arzignano in provincia di Vicenza. Aldi, in quel tempo,  pensava agli USA. Eurospin aveva aperto l’anno prima (1993) e MD si apprestava a lanciare la sua attività proprio nel sud. I tedeschi di Rewe attraverso il loro discount Penny  avevano le idee chiare: entrare in Italia coinvolgendo il migliore su piazza: Esselunga.

Probabilmente Bernardo Caprotti stesso aveva intuito la potenzialità del business o comunque la necessità di non limitarsi ad un ruolo di semplice spettatore. Altrimenti non li avrebbe nemmeno ricevuti. Per i tedeschi Bernardo Caprotti era un mito. La sua presenza nel progetto Penny Market avrebbe garantito il successo sul mercato italiano.  In seguito hanno anche provato a comprare la stessa Esselunga da tanto che ne apprezzavano il lavoro svolto. Il CEO di Rewe era Hans Reischl un figlio di contadini di Passau nella Bassa Baviera che aveva conseguito la maturità  in un  liceo serale di Colonia e poi studiato economia all’Università di quella città. Reischl, in trent’anni, ha  trasformato il gruppo cooperativo in un moderno gruppo commerciale.  Una sorta di Francesco Pugliese della Renania Settentrionale-Vestfalia. Messo fuori dal Gruppo tedesco a 6 mesi dalla pensione con accuse poi finite in niente. L’ho incontrato una volta sola durante le fasi preliminari di acquisizione di  Standa. Un uomo sicuramente in grado di intendersi con Bernardo Caprotti. Purtroppo la joint venture costruita al 50% non poteva funzionare a lungo. Troppo gelosi i manager tedeschi sulla gestione commerciale del discount e troppo indipendente ed egocentrico Bernardo Caprotti che conosceva bene il nostro mercato,  per accettare un ruolo subalterno. Durò però 5 anni. Nel 1999 Rewe si riprese l’intera azienda.

Secondo Giovanni Arena, AD dell’omonimo Gruppo, “Discount è una parola da dimenticare”. A Largo Consumo, in un’intervista di qualche tempo fa ha giustamente dichiarato che i discount sono semplicemente supermercati convenienti, ognuno con una sua diversa strategia.  Il nostro modello – ha proseguito Arena – è sviluppare la marca privata: abbiamo modificato il nostro Dna di supermercato premium, quello di Decò, in supermercato di convenienza partendo dal design del punto di vendita, che deve comunicare subito ai consumatori gli aspetti fondamentali come essenzialità, prezzi chiari e bassi, e profondità di assortimento nel fresco e freschissimo, che sono i nostri punti di forza”. Con il marchio SuperConveniente, il Gruppo offre invece prodotti selezionati che fanno concorrenza ai discount. Fondato a Valguarnera Caropepe (EN) nel 1976 dai fratelli Gioachino e Cristofero Arena, oggi con una rete di oltre 180 punti vendita ad insegna Supermercati Decò, Maxistore Decò, Superstore Decò, Iperstore Decò, Gourmet Decò, Local Decò, SuperConveniente, IperConveniente e NonSoloCash ed oltre 2.500 collaboratori, è leader assoluto nel territorio siciliano. E copre tutti i formati perché tarati sul cliente.

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Grande distribuzione, Discount e Industria di Marca. Non una alleanza strategica ma una convergenza necessaria…

La fotografia che emerge nel rapporto Coop 2023 (https://bit.ly/460gWfh) sullo stile di vita degli italiani di oggi e di domani è sempre un appuntamento interessante perché da un lato propone analisi e disegna alcune possibili traiettorie per il nostro Paese e dall’altro, per la prima volta, presenta una Cooperazione, aperta e disponibile con un Governo, non certo amico, ma con il quale è comunque necessario aprire un canale di confronto serio insieme al resto del comparto.

Parto dalla domanda centrale per il futuro prossimo del settore. È possibile ipotizzare l’idea di un’alleanza strategica tra industria di marca e Grande Distribuzione? Tra la prima e l’intera GDO la vedo difficile. Altra cosa è una convergenza tattica sul patto anti inflazione che ha prodotto, in previsione dell’incontro del 10 settembre, una lettera di impegno rivolta alle singole imprese aderenti a Centromarca e una richiesta  al  Ministro Urso di farsi promotore di un tavolo interministeriale delle associazioni delle imprese del largo  consumo.  Un ottimo passo in avanti dopo le incomprensioni dei mesi scorsi.

Dario Di Vico sul Foglio (https://bit.ly/3r4diSM) rilancia  tra le altre una affermazione importante  di Maura Latini Presidente Coop: “Se il discount arrivasse per assurdo a una quota di mercato del 40% cosa succederebbe non solo all’industria ma a tutta l’economia italiana? Innanzitutto solo in Germania è a quei livelli. In Olanda la MDD è alta ma non supera il 30%. Come in Francia. In Italia siamo intorno al 25%.  Se mai arrivasse a quei livelli sarebbe solo per incapacità della GDO tradizionale di trovare nuovi equilibri. Vale per il discount come per l’online.  Aggiungo che il discount in Italia è cambiato profondamente e continua a cambiare tanto che è sempre più difficile distinguerlo dal resto della GDO. Il contesto economico e sociale eccezionale, sottolinea Di Vico  è ovviamente quello di “una contrazione secca dei consumi, soprattutto dei ceti meno abbienti, causata dal combinato disposto tra livelli di inflazione ai quali fortunatamente non eravamo più abituati e una perdita del potere di acquisto che Coop stima non inferiore al 15%”. Giusta l’analisi del contesto di Di Vico ma temo che alcuni manager protagonisti, interrogati per l’iniziativa, scambino l’effetto con la causa.

Il discount come semplice “rifugio” dei meno abbienti è  ormai una caricatura. Non è più così da diverso tempo.  L’inflazione ha semplicemente  accelerato un processo in corso che nell’evoluzione della logistica (vedi Amazon) e nella modificazione dei modelli di consumo ha prodotto o sta producendo non solo nel nostro Paese. La crisi delle grandi superfici, l’omologazione verso il basso sul piano dell’offerta di quasi tutte le insegne, il tramonto dei “grandi vecchi” animatori   del comparto nel secolo scorso, l’affacciarsi nel settore di multinazionali gestite da giovani manager  o da esperti professionisti e non dai soliti “raccomandati” parcheggiati  nel nostro Paese in attesa di ulteriori  step di carriera, hanno fatto il resto. Il discount è il dito. La luna è la difficoltà di affrontare i cambiamenti in corso nell’atteggiamento dei consumatori e di riposizionarsi con un’offerta credibile per ogni cluster di clienti.  L’inflazione ha semplicemente reso ancora più evidente una tendenza. Le famiglie, questo è evidente, non solo per far fronte alle difficoltà economiche, spendono meno per l’alimentazione ma ormai anche in modo diverso.

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L’inflazione cala. Non i suoi effetti sulle famiglie..

Ci sono diversi modi per osservare la realtà di fronte all’impennata dei prezzi. L’industria guarda essenzialmente i suoi conti. La Grande Distribuzione a questo ci aggiunge il rischio sui volumi di vendita. Il consumatore, soprattutto quello vincolato da entrate fisse e basse guarda con una certa preoccupazione, il suo portafoglio. Tra nove mesi ci saranno le elezioni europee che saranno certamente influenzate da ciò che succederà in campo economico e sociale nel periodo e determineranno, nel bene e nel male,  il futuro prossimo dell’intero continente che, ai suoi confini, ha una guerra, provocata dal Russia, con conseguenze e durata, oggi  assolutamente imprevedibili.  In questo contesto geopolitico, le aspettative, le priorità, le preoccupazioni delle persone e, naturalmente il loro atteggiamento nei confronti dei consumi si modificano profondamente.

Per questo è utile leggere  quanto emerge, dai dati appena pubblicati, del Barometro europeo sulla povertà e sulla precarietà economica 2023 di Ipsos France e Secours Populaire, organizzazione di volontariato francese (https://bit.ly/3sNLi6c). Su 10.000 intervistati, di età pari o superiore a 18 anni, in dieci paesi (Germania, Francia, Grecia, Italia, Polonia, Regno Unito, Moldavia, Portogallo, Romania e Serbia) condotto dal 7 al 27 giugno su internet su un campione di 10.000 persone rappresentative delle popolazioni nazionali secondo il metodo delle quote più di un terzo degli intervistati dichiara di non essere in grado di affrontare l’attuale contesto economico.

Quasi tre europei su dieci riferiscono di trovarsi in una situazione precaria, il che li porta o li porterà  a rinunciare a certi bisogni, come, in certi casi, a curarsi o mangiare a sufficienza. Più di un europeo su due intervistati afferma che il suo potere d’acquisto è diminuito negli ultimi tre anni (55%). Questa situazione è particolarmente acuta in Grecia (64%), Serbia (63%) e Francia (60%) e peggiora in Italia quest’anno (59%, +2 punti rispetto al 2022). La metà degli europei, il 48%, teme che la propria situazione economica peggiorerà nei prossimi mesi; più di un europeo su due, il 51%, si è infatti già trovato nella situazione di dover diminuire le spese almeno una volta negli ultimi sei mesi per salute, riscaldamento, cibo, trasporti; oltre un genitore europeo su tre, il 36%, non è stato in grado di soddisfare i bisogni primari dei propri figli, dai pasti alla salute, dalla scolarizzazione,  al vestiario.

Ma non finisce qui. Oltre un europeo su due, il 55% – rileva ancora il Barometro sulla povertà e sulla precarietà economica – dichiara non solo di aver visto diminuire sensibilmente il proprio potere d’acquisto negli ultimi tre anni, ma anche le classi medie stanno scoprendo gli effetti negativi della crisi, dall’aumento dei prezzi di cibo ed energia alla diminuzione dei servizi pubblici sostituiti con servizi privati più cari. Analoghi anche i dati relativi al nostro Paese. Il 69% degli italiani è preoccupato dal rischio di trovarsi in una situazione di precarietà nel prossimo futuro e il 37% dichiara di aver rinunciato a curarsi nell’ultimo anno per le liste d’attesa troppo lunghe del sistema sanitario nazionale e l’impossibilità economica di rivolgersi a strutture private.

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Grande Distribuzione. Nella carriera vince il merito.

“Entrare come addetto alle vendite e diventare CEO”. Il quotidiano francese Le Figaro ha dedicato al tema, qualche tempo fa, un servizio interessante. È un problema vero perché l’ascensore sociale si è interrotto quasi ovunque. Resistono alcuni comparti che offrono ancora questa prospettiva professionale. Nella grande distribuzione, ad esempio, poter crescere, indipendentemente dal punto di partenza e dai titoli  posseduti e far crescere professionalmente i propri collaboratori,  è una pratica ancora diffusa e condivisa.

Per ascensore sociale si intende quante possibilità hanno i figli di genitori con un reddito modesto di riuscire a ricoprire incarichi più importanti e meglio remunerati. È, in sostanza, il processo che consente e agevola un cambiamento del proprio stato economico e sociale di partenza. Non sempre e non solo grazie alla sola istruzione scolastica terziaria.  L’istruzione resta, citando Malcom X, «il passaporto per il futuro, il mezzo per prepararsi ad affrontarlo». E questo deve essere chiaro.  Ma oggi,  da sola non basta.  Serve, una volta entrati in azienda, conoscere e sapersi muovere “dalla parte delle radici”.

È quindi l’impegno personale, la capacità di sacrificarsi e sentirsi parte del team nel quale si è inseriti, è la voglia di crescere e di affrontare sfide crescenti, è la qualità e la disponibilità dei capi incontrati che possono valorizzare o meno le caratteristiche delle persone. E a non dimenticarsele quando, emigrando in altre realtà del comparto, grazie a queste relazioni, si riformano squadre vincenti. Tutto questo crea quelle capacità e quella personalità professionale che può fare la differenza.  Non sempre è sufficiente ma molto  spesso funziona. E nella GDO,  per chi non ha fatto esperienze altrettanto significative in altri comparti o in altre posizioni aziendali, è  il punto vendita il primo step. Ed è da lì che si parte per crescere.

L’elenco di chi ce l’ha fatta è lungo. Non faccio nomi perché sarebbe troppo facile, per me, dimenticare qualcuno. In quasi tutte le insegne sono i risultati personali e di team che favoriscono  la crescita professionale. Almeno fino ad un certo livello.  E questi professionisti formano l’ossatura fondamentale di ogni insegna: il cosiddetto middle management. Penso agli specialisti di pescheria, panetteria e ortofrutta. Penso ai capi reparto e i direttori di punto vendita. Macellai e salumieri che determinano il successo dei loro punti vendita. Vere e proprie scuole aziendali di prim’ordine, non sempre riscontrabili   sul curriculum.

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