Lavoratori azionisti coinvolti su obiettivi e risultati. Negli USA funziona in Publix. Potrebbe funzionare anche da noi, secondo la CISL.

Nel sud est degli Stati Uniti c’è una azienda che piacerebbe a Luigi Sbarra segretario generale della CISL: Publix Super Markets. Ha generato vendite per circa 54,5 miliardi di dollari USA nell’anno fiscale terminato il 31 dicembre 2022. Un aumento del 13,6% rispetto al 2021. Impiega 240.000 persone, ha 1380 punti vendita, scuole di cucina, centri di distribuzione e undici impianti di produzione. Publix è la più grande azienda di proprietà….. dei dipendenti negli Stati Uniti.

Ha una forte cultura aziendale costruita sul fatto che, almeno 220.000 persone delle 240.000 impiegate possiedono azioni che vengono concesse annualmente al personale. Fondata da George Jenkins nel 1930 come piccolo negozio in Florida, Publix è cresciuta fino a diventare la più grande catena di supermercati di proprietà dei dipendenti e continua a essere uno dei principali retailer del Paese. Uno dei cinque supermercati leader in termini di vendite e dimensioni.Il top management ha una lunga esperienza in azienda. Il suo CEO, Todd Jones, lavora a Publix da 41 anni, avendo iniziato come commesso di negozio. Il 60enne è pagato “modestamente” secondo gli standard USA per i CEO. Ha guadagnato $ 3,6 milioni nel 2020, contro $ 22,4 milioni per il capo di Kroger, Rodney McMullen.

Jones ed è il primo amministratore delegato a non essere un membro della famiglia Jenkins. Sebbene le azioni della società esistano, sono disponibili per l’acquisto solo da parte di dipendenti, membri del consiglio e parenti della famiglia Jenkins. Barron’s stima che il dipendente medio  detiene $ 150,000 in azioni e che alcuni fedelissimi  possano averne per importi a sette cifre. I vantaggi  azionari aiutano a differenziare Publix dagli altri retailer. L’azienda non è sindacalizzata, afferma David Livingston di DJL Research, un consulente del settore. “I loro salari sono inferiori a quelli dei loro concorrenti sindacalizzati, ma i dipendenti sanno che nel lungo periodo ne traggono un vantaggio grazie ai bonus azionari”, afferma.  Nel 2022, Publix ha aperto 40 nuovi supermercati, ristrutturato 117 punti vendita  e chiuso 11 negozi.Il prezzo delle azioni è aumentato da 13,19 dollari per azione a 14,55 dollari per azione, a partire dal 1° marzo. 

Per restare  in Italia,   potrebbe essere una evoluzione interessante del modello  Conad e Coop dove  i protagonisti sono i soci, imprenditori  o clienti. Non i lavoratori in quanto tali.  Fantascienza? Che sia un coinvolgimento tramite azioni, legato ai risultati dell’insegna o del sito o, come in Svizzera, attraverso una retribuzione legata alla cifra d’affari (https://bit.ly/45VlV0R) siamo certamente di fronte ad un interessante evoluzione del rapporto di lavoro. Ovviamente considerando culture e  differenze tra settori. Tutto questo nell’esperienza Publix, oltre agli importanti risultati economici, produce un tasso di  fidelizzazione, coinvolgimento, responsabilità e impegno molto maggiore dei concorrenti. Difficile, se non impossibile,  poterlo replicare da noi. Soprattutto nella Grande Distribuzione.
Leggi tutto “Lavoratori azionisti coinvolti su obiettivi e risultati. Negli USA funziona in Publix. Potrebbe funzionare anche da noi, secondo la CISL.”

Listini industriali e caro carrello della spesa. È necessario riaprire il confronto triangolare

Bisognerebbe che qualcuno rileggesse “l’Orlando Furioso” di Ludovico Ariosto. L’opera narra delle gesta di cavalieri cristiani e musulmani abituati a fronteggiarsi. Tra questi c’era Agramante, il re dei mori che era riuscito a riunire eserciti molto diversi tra di loro accomunati però dalla stessa fede, pur essendo di etnie diverse abituati a dilaniarsi attraverso  continue lotte intestine. La Grande Distribuzione è sempre stata così:  litigiosa e incapace di darsi una strategia comune. Finalmente le sue tre espressioni più importanti (Federdistribuzione, Conad e Coop) hanno trovato un punto di incontro nell’interlocuzione politica con il Governo dopo un periodo più o meno lungo dove ciascuna insegna ha cercato di arrangiarsi a fronte delle richieste di aumento dei listini  che da monte ricadevano come un fiume in piena sugli scaffali della GDO ingenerando nei consumatori la convinzione che le responsabilità fossero esclusivamente a valle.

L’industria alimentare è da sempre portata ad atteggiamenti più sobri e  misurati. Ha dalla sua la filosofia della lobby ben organizzata. Sa di avere il fiato sul collo di Coldiretti e le ragioni della filiera a monte  ma non si aspettava che la GDO, per la prima volta,  tenesse unitariamente la  posizione con il Governo. Le richieste di aumenti dei listini (non sempre giustificati) tutto sommato accettati nelle singole insegne, la durata eccessiva dei contratti in tempi di inflazione non contestati e la mancanza di visione politica di insieme di quest’ultima l’hanno convinta a tenere duro anche  questa volta nella certezza che il fronte si sarebbe, prima o poi, sgretolato. D’altra parte gli aumenti richiesti, in buona parte oggettivi, seguivano gli aumenti delle materie prime, dell’energia e dei trasporti rendendoli pressoché inevitabili. Altri meno. Soprattutto le differenze di impatto tra i diversi sottosettori.

Centromarca, l’associazione più titolata,  ha però puntato troppo alto. Ha rifiutato prima un dialogo con la GDO teso a costruire un percorso comune e poi ha pensato di replicare lo stesso atteggiamento con il Governo alzandosi dal tavolo e ribadendo l’intenzione di non sottoscrivere alcunché.  La GDO non si è scomposta ed è rimasta seduta al tavolo.  Chi si alza ha sempre torto.

Com’era prevedibile più si avvicina settembre, che segnala la data di scadenza per aderire o meno al patto anti inflazione, più c’è chi cerca  di seminare confusione nel campo di Agramante. Se però oggi le polemiche feroci sul “caro carrello” non colpiscono  (almeno dal versante politico) la GDO lo si deve a Federdistribuzione, Coop e Conad che hanno ben compreso la necessità di un dialogo costruttivo con l’Esecutivo. Indipendentemente dal suo colore. Questo si chiama “far politica” cosa sconosciuta (salvo in Coop e, in parte in Conad) nel mondo associativo della GDO fino a qualche tempo fa.  Risultato che va ben al di là da ciò  che l’operazione sui prezzi potrà garantire concretamente. Leggi tutto “Listini industriali e caro carrello della spesa. È necessario riaprire il confronto triangolare”

Sindacati, Associazioni Imprenditoriali e Governo. Quale autunno ci aspetta?

Mentre i partiti di opposizione incalzano il governo con la loro proposta di introduzione del  salario minimo Rita Querzé sul Corriere  pone un tema ineludibile. (https://bit.ly/3KGo88c): “Se non vorranno buttare la palla in tribuna le parti sociali dovranno inevitabilmente affrontare il problema delle retribuzioni mettendoci del proprio”. Se è vero com’è vero che i contratti coprono il 97% dei lavoratori del settore privato (14,5 milioni i lavoratori dipendenti esclusi agricoli e domestici) è lì che andrebbe concentrata l’iniziativa delle parti sociali.  Nel dettaglio, dall’elaborazione della Fondazione Di Vittorio dei dati Cnel-Inps relativa a 894 Ccnl, risulta che: 207 Ccnl firmati da Cgil, Cisl, Uil coprono 13.366.176 lavoratori dipendenti del settore privato; 687 Ccnl firmati dalle altre organizzazioni sindacali interessano 474.755 lavoratori. A questi dati bisogna aggiungere 689.355 lavoratori dipendenti per i quali il datore di lavoro non ha indicato chiaramente il Ccnl applicato. Quindi i contratti siglati dalle tre Confederazioni tutelano la stragrande maggioranza dei lavoratori dipendenti del settore privato.

“Sono due in particolare le leve nel cruscotto di sindacati e associazioni delle imprese: la definizione della rappresentanza (chi può contrattare che cosa) e la struttura della contrattazione” conclude Rita Querzé. Se il problema dei salari non fosse centrale per l’inflazione che si scarica sui redditi delle famiglie ma anche sui costi  a carico delle imprese, le parti sociali, temo, svicolerebbero ancora una volta dalle loro responsabilità limitandosi a chiedere al Governo un intervento con proposte  di difficile attuazione visto il contesto. Oggi però, è chiaro a tutti, che “buttare la palla in tribuna” non è più possibile.

D’altra parte l’ultima mossa (affidare al CNEL l’onere di individuare un percorso) segnala tutta la difficoltà del Governo di centro destra che intravede  il rischio, anche per l’iniziativa dell’opposizione sul salario minimo, di tensioni sociali difficili da mantenere sotto un livello di guardia accettabile. L’obiettivo, mentre passa la palla al CNEL, è quindi cercare di tenersi fuori. Almeno fino a quando sarà possibile. Sul tema, tra l’altro, il centro destra non ha molto da dire. Non ha tra le proprie file né le competenze né un’autonomia di pensiero sul lavoro dipendente in grado di proporre un patto autorevole sul modello Ciampi  e di riuscire a convincere le parti sociali a sottoscriverlo. Per ora sembra essersi accodato alle rappresentanze datoriali che, da parte loro,  non hanno una linea comune se non l’intenzione, questa si condivisa con i sindacati,  di scaricare i costi di qualsiasi intervento sulla collettività. Defiscalizzare gli aumenti salariali e intervenire sul cuneo fiscale questo significano.

Leggi tutto “Sindacati, Associazioni Imprenditoriali e Governo. Quale autunno ci aspetta?”

Continua la crescita di Aldi negli USA con una strategia che punta oltre il discount

Per comprendere le traiettorie di una multinazionale non basta osservarne i movimenti più razionali. Aldi ha un suo modello e lo esporta. Generalmente con successo. In mercati complessi come quello americano, però, si muove per  acquisire know how diversi, decide di sperimentare sé stessa in nuovi formati, studia i comportamenti dei consumatori locali e, con le acquisizioni, oltre a crescere,  si  propone di gestire culture organizzative differenti. Per questo l’operazione di acquisizione in corso  è importante non solo per il mercato americano. Aldi sta cercando di andare oltre il suo tradizionale modello di discount. Questa è, a mio parere, la vera notizia.

Aldi US ha annunciato di aver acquisito Winn-Dixie e Harveys Supermarket da Southeastern Grocers. L’accordo, che dovrebbe concludersi nella prima metà del 2024 comprende circa 400 punti vendita Winn-Dixie e Harveys in Alabama, Florida, Georgia, Louisiana e Mississippi. L’accordo conferma  le traiettorie di crescita di Aldi negli ultimi anni e segnala la sua più grande acquisizione negli Stati Uniti. Almeno  fino ad oggi. Bill Read, vicepresidente esecutivo di Retail Specialists, ha dichiarato a CoStar News che è stato colto di sorpresa da questo accordo. “Aldi ha fatto bene a entrare in molti dei mercati del sud-est e ad acquistare un retailer affermato che esiste da 30, 40, 50 anni. Winn-Dixie presenta vantaggi non solo geografici. Età dei negozi e penetrazione del mercato su tutti. Interessanti  per Aldi “perché consente di crescere di scala velocemente”, secondo Read. Nel suo rapporto, che precede la notizia dell’acquisto di Winn-Dixie e Harveys, Coresight ha affermato che il cambio di passo di Aldi conferma  un salto di  strategia. “A differenza di altri rivenditori tradizionali, Aldi e Lidl negli USA si sono affidati principalmente all’espansione organica, guidati dalla loro prudenza finanziaria e dal loro status”, ha affermato Coresight. “Tuttavia, valutare acquisizioni o accordi di joint venture per nuovi ingressi sul mercato, sono opzioni meno rischiose rispetto alla crescita organica e consentirebbero ad Aldi ma anche a  Lidl di sfruttare le strutture dei loro partner e la loro conoscenza del mercato”.

Aldi ha stabilito per la prima volta la sua presenza nel sud-est a metà degli anni ’90 e da allora ha investito 2,5 miliardi di dollari nella regione. Ciò che sarà interessante è la modalità con cui Aldi cambierà i negozi Winn-Dixie e Harveys che non intende ribattezzare con il proprio marchio. Le due realtà sono profondamente diverse e questo richiederà cambiamenti di approccio su entrambi i modelli. È chiaro che Aldi vuole mettersi alla prova anche su supermercati più tradizionali che non seguono il suo modello a basso costo. Aggiungo che le competenze di Aldi e l’efficiente catena di approvvigionamento renderanno certamente i negozi di Southeastern più competitivi. Ci sono però delle diversità da allineare. Ad esempio le due aziende hanno un approccio diverso nella gestione dei collaboratori: nelle statistiche dedicate alle Risorse Umane  Winn-Dixie ha il punteggio più alto per l’equilibrio tra lavoro e vita privata mentre  ALDI ha il punteggio più alto per retribuzione e benefit. Aldi e  Winn-Dixie sono poi profondamente diversi agli occhi dei consumatori. Entrambi vendono food ma Aldi è comunque un discount. L’assortimento è molto diverso. Winn-Dixie è considerato un negozio di alimentari tradizionale con location più grandi, gastronomia a servizio, panetteria, banco della carne e una farmacia in negozio. Frutta e verdura non la confezionano i clienti.  In Aldi, si. Alcuni negozi Winn-Dixie hanno anche un piccolo bar all’interno. In questa realtà non sono abituati a “noleggiare” il carrello mettendo una moneta da $ 0,25 per fare in modo che le persone riportino i carrelli nell’apposito spazio, come da noi. In Aldi, è così. Tutti elementi che rendono necessaria una certa cautela nel passaggio di consegne perché mostrano abitudini differenti.

Ci sono 210 negozi di alimentari di marca Aldi in Florida, secondo il suo sito web. Ciò include 13 a Orlando, otto a Jacksonville, sette a Miami, cinque a Tampa e dozzine di singole località in varie città e paesi. Ci sono oltre 400 sedi Winn-Dixie in Florida. Ciò include 28 nell’area di Orlando, 42 nell’area di Jacksonville, 39 nell’area di Miami, 82 nell’area di Tampa e centinaia di altre località in varie città e paesi. Ma il settore dei supermercati nazionali statunitensi è estremamente competitivo, con player regionali affermati come Publix molto radicati nel sud-est e retailer online, nonché catene nazionali che detengono una fetta del mercato alimentare tra cui Walmart, Target, Costco, Amazon e Whole Foods Market.
Leggi tutto “Continua la crescita di Aldi negli USA con una strategia che punta oltre il discount”

Amazon. Una ripartenza di scuola Tesco (per ora) nel retail USA

Ad Andy Jassy, CEO di Amazon, sono bastati pochi mesi dalla sua nomina  per capire che la presenza nel retail fisico doveva essere ripensata dalle fondamenta. Il mercato  USA è saturo di marchi affermati ed è a basso margine. Questo significa che qualsiasi nuovo player deve essere particolarmente attrattivo se vuole imporsi e soprattutto stabilire una relazione duratura  con i clienti. Amazon ha acquisito Whole Foods Market nel 2017 per 13,7 miliardi di dollari. Un’operazione fondamentale  grazie alla caratterizzazione sul mercato dell’insegna acquisita. Ha così potuto beneficiare di un trasferimento di competenze dal settore retail ma, nel 2022, Whole Foods deteneva meno del 2% della quota di mercato alimentare, con i suoi circa 530 negozi rispetto alle migliaia di Walmart secondo i dati della Chain Store Guide.

Con il successivo lancio dei suoi negozi Fresh, Amazon ha così cercato, senza riuscirci, di attrarre clienti già frequentatori di grandi catene di alimentari come Kroger o Walmart senza però trovare un posizionamento per questi negozi che soddisfasse  veramente il consumatore ma che avesse senso anche dal punto di vista economico e quindi della redditività. “Ci stiamo lavorando sodo e vediamo alcuni segnali incoraggianti”, ha detto Jassy durante una recente intervista confermando che la società non aprirà nuovi negozi Fresh fino a quando non verrà individuata la soluzione ottimale per poi eventualmente estenderla.

“Il retail tradizionale è davvero l’ultima frontiera per Amazon in termini di crescita non sfruttata”, ha dichiarato Jordan Berke, CEO di Tomorrow Retail Consulting. “È il più importante comparto in cui Amazon  fatica a competere”. “Quando Amazon è entrata in questo business, l’ipotesi era che potessero usare la tecnologia per compensare l’ingresso tardivo per la mancanza di una grande rete fisica”, ha detto Karan Girotra professore alla Cornell Tech. “La speranza era che la tecnologia avrebbe dato loro un vantaggio, ma in realtà non è successo”.  I dati sul traffico analizzati da Bloomberg Intelligence mostrano che i clienti acquistano presso i concorrenti vicini molto più frequentemente di quanto non facciano nei punti vendita  Amazon Fresh.

L’obiettivo di Amazon è sempre quello di costruire un’esperienza di acquisto  best-in-class, diventando la prima scelta per selezione, valore e convenienza. Per accelerarne il raggiungimento, Jassy ha ingaggiato uno dei top manager migliori sul mercato nel retail internazionale per esperienza e percorso professionale, Tony Hoggett, strappandolo nel 2022 a Tesco. Una mossa decisiva per Amazon nella convinzione che il retail potesse essere riprogettato dalle fondamenta solo trovando il giusto mix tra la tecnologia, dove Amazon gioca il suo vantaggio competitivo, redditività, costi, centralità del servizio e orientamenti del consumatore dove la strada per l’azienda di Seattle resta ancora tutta in salita.

Leggi tutto “Amazon. Una ripartenza di scuola Tesco (per ora) nel retail USA”

Grande Distribuzione. Le retribuzioni non sono tutte uguali…

Mentre Governo e opposizione si confrontano a distanza sulla necessità o meno di introdurre il salario minimo legale, il costo del lavoro resta una delle principali voci di attenzione delle insegne della GDO e del comparto del commercio in generale. Il mancato rinnovo del CCNL scaduto nel 2019  è anche figlio di questo problema. Indipendentemente dalla direzione che si vorrà prendere esistono problematiche complesse nel comparto che imporrebbero una valutazione a tutto campo sui contratti nazionali, sulla loro effettiva copertura,  sulla loro attualità, sulla rappresentatività di chi li rinnova e sul loro costo. Sia riferito al cosiddetto “minimo tabellare” che è, di fatto un salario minimo ante litteram, applicato a milioni di lavoratori, che a tutto il resto, trascinamenti compresi.

Le insegne (almeno le più serie) non vogliono certo penalizzare i propri lavoratori. Nello stesso tempo non vogliono trovarsi caricate di eccessivi costi diretti e indiretti. Senza contropartite in grado di bilanciarne gli effetti e i trascinamenti il rinnovo, pur dovuto, rappresenterebbe  un sollievo per i singoli lavoratori in tempo di inflazione ma anche un costo complessivo  che si somma a tutta una serie di limiti oggettivi che impediscono recuperi a causa di un testo che ha fatto abbondantemente il suo tempo e che occorrerebbe riscrivere ex novo. Purtroppo questa mancanza di consapevolezza dell’inadeguatezza dello strumento, i suoi costi indiretti o  “nascosti”  che trascina senza alcun vantaggio per entrambe le parti, contribuiscono a creare una  situazione complessa  che andrebbe affrontata con tutt’altra visione.

Questa rigidità delle insegne nei confronti del regolatore nazionale non significa, però, che le imprese non abbiano una attenta gestione del proprio personale e loro precise politiche retributive. O che tutte si comportino allo stesso modo. Ovviamente non c’è solo l’aspetto economico ma se un giorno, anziché di bilanci, promozioni  o vendite al m2,  si decidesse di pubblicare la classifica delle retribuzioni nella GDO le due imprese top sugli aspetti salariali legati ai dipendenti inquadrati  nei contratti nazionali scaduti vedrebbero ai primi due posti gli eterni avversari  Coop ed Esselunga.

La prima è  la più rispettosa in assoluto dei contenuti  del contratto nazionale e della contrattazione aziendale. La seconda, meno disponibile sul versante dei rapporti con il sindacato ma con retribuzioni altrettanto significative. In aggiunta vanta le migliori retribuzioni per  quadri e dirigenti rispetto al sistema Coop. Esselunga ha poi una sua politica retributiva discrezionale, nettamente migliorativa del CCNL rivolta alle sue figure chiave.

Un gradino sotto ci sono le multinazionali francesi e tedesche con le seconde in crescita. Competitive con Esselunga su dirigenti e quadri e dotate di proprie politiche retributive specifiche ma con la contrattazione aziendale bloccata da anni (nel caso di Carrefour) o di tono minore alle prime due (Lidl). La seconda fascia è occupata dalle insegne che applicano esclusivamente il CCNL firmato da Federdistribuzione o da Confcommercio ma non hanno costi aggiuntivi derivati dalla contrattazione di secondo livello. Semplicemente perché non c’è o l’hanno abolita. Anche loro hanno una politica retributiva aziendale finalizzata alla gestione e allo sviluppo delle risorse umane. Qui troviamo buona parte delle insegne più note. Più generose verso l’alto della loro gerarchia. Meno  verso il basso dell’inquadramento.

Leggi tutto “Grande Distribuzione. Le retribuzioni non sono tutte uguali…”

Conad. Evoluzione o involuzione? Ai soci l’ardua sentenza…

Che fare? Credo sia la domanda prevalente che oggi è presente nei ragionamenti  di chi riflette sul futuro del Conad. Ci sono oltre  settantaseimila ragioni  per farlo. Una per i 2200 soci e una per ognuno dei 74432  lavoratori del consorzio. L’uscita di Francesco Pugliese ha chiuso una parte della sua storia nata il 13 maggio 1962 in quel di Bologna. Ed è la storia di  diverse generazioni di imprenditori che hanno creduto nelle loro capacità e nella forza della condivisione di valori comuni.  La leadership di Francesco Pugliese non solo ha dato una strategia imprenditoriale da “numeri uno” del comparto ma è riuscita a realizzare un sogno altrimenti precluso per la conformazione stessa del consorzio. In altre parole gli ha indicato una nuova missione: andare oltre i propri confini. Con la sua uscita  si gira pagina e si affronta un nuovo capitolo dello stesso libro o si fa altro? Questo è il punto.

Anche REWE, prima in Germania  e poi nel resto d’Europa  è cresciuta così. Senza un progetto manageriale di grande respiro i singoli imprenditori sarebbero rimasti chiusi nei loro recinti dorati. REWE stessa sarebbe rimasta circoscritta  nella Renania Vestfalia o poco più. Mentre oggi è presente in 14 Paesi Europei. Certo, nei valori di fondo  resta una cooperativa ma questo non ha impedito un’evoluzione manageriale con acquisizioni al di fuori delle singole realtà cooperative e una visione moderna del business.

Leggi tutto “Conad. Evoluzione o involuzione? Ai soci l’ardua sentenza…”

La sottovalutazione del consumatore costa cara. Anche Lidl negli USA paga pegno…

Aprendo la sua sede centrale ad Arlington, in Virginia, nel 2017 Lidl aveva promesso di convincere i consumatori statunitensi della sua intenzione di  “Rethink Grocery” offrendo un’esperienza di acquisto diversa e complessivamente più conveniente  e di aprire 100 negozi entro l’estate del 2018. Lidl allora era vista come una potenziale minaccia per Kroger, Albertsons, Walmart e i numerosi retailer regionali. Non è stato così. Probabilmente credeva che avrebbe movimentato più facilmente il mercato negli Stati Uniti come già avvenuto nei Paesi europei.

L’errore  è stato,  probabilmente,  anteporre le proprie priorità alla specificità del consumatore USA. Lidl avrebbe dovuto  comprendere che i clienti non avrebbero lasciato tanto facilmente le offerte e i prodotti dei loro retailer tradizionali per i suoi, pur  numerosi prodotti a marchio, con cui non avevano alcuna familiarità. Lidl si trova oggi ha nell’assoluta necessità di migliorare il rapporto con i consumatori americani che restano fedeli ai loro negozi locali e ai prodotti di marca più di quanto l’insegna tedesca avesse probabilmente stimato. Ha già oggi apportato modifiche alla sua strategia immobiliare, ha ammorbidito l’aspetto dei suoi negozi e ha iniziato a offrire la consegna a domicilio. Ma chiaramente bisogno fare di più. 

Chissà cosa avrà pensato Dieter Schwarz quando si è trovato costretto a  insediare, negli USA, l’ennesimo nuovo CEO. E questa volta pure americano:  Joel Rampoldt. Sostituirà a breve Michal Lagunionek che ha ricoperto il ruolo dall’aprile 2021. Joel Rampoldt è il  quarto CEO che assume il ruolo dal lancio della catena statunitense nel 2017. Il quinto dal primo arrivo di LIDL negli USA  nel 2013. Secondo Lebensmittel Zeitung, nella nota interna, il CEO di Lidl ha affermato che la nomina di Rampoldt è un passo importante per ripartire e provare a mettere forti radici negli Stati Uniti.

La multinazionale tedesca  era arrivata per la prima volta negli Stati Uniti nel 2013 per aprire i suoi primi negozi nel 2017. Si è trovata subito una forte concorrenza da parte dei retailer  tradizionali e del rivale  Aldi, che opera negli Stati Uniti dagli anni ’70 e sta rapidamente aumentando il numero  di negozi in tutto il Paese. Aldi ha attualmente 2.284 negozi in 38 stati e nel Distretto di Columbia. Uno scontro impari. Lidl fatica a connettersi con i consumatori americani. Ovviamente gli esperti sottolineano che siamo di fronte ad una realtà con le risorse e la pazienza sufficiente per trovare alla fine la sua strada negli Stati Uniti. Leggi tutto “La sottovalutazione del consumatore costa cara. Anche Lidl negli USA paga pegno…”

Patto anti inflazione. Siamo al penultimatum dell’industria alimentare

Com’era prevedibile il cerino è ritornato in mano al Governo. Il patto trimestrale anti inflazione  va in stand by. Ma il governo sembra comunque deciso ad andare avanti. La ripresa autunnale si presenta quindi sempre più complicata per il Paese. Il ministro Urso ha deciso di allargare il tavolo convocando oggi in videoconferenza le associazioni della grande distribuzione e del commercio tradizionale — Federdistribuzione, Ancc Coop, Ancd Conad, Confcommercio, Confesercenti, CNA, Assofarm e Unifardisda — puntando alla sottoscrizione comunque di  un impegno comune entro il 10 settembre  sul trimestre anti-inflazione per «offrire prezzi calmierati su una selezione di articoli rientranti nel carrello della spesa e di prima necessità, nel rispetto della libertà di impresa e delle singole strategie di mercato».

Giustamente il Presidente di Federdistribuzione Carlo Buttarelli tiene il punto: «Sono mesi che chiediamo all’industria di mostrare senso di responsabilità verso le famiglie, abbassando, dove possibile, i propri listini di vendita», ma «l’industria di trasformazione, sollevando argomentazioni pretestuose e strumentali, si dichiara indisponibile: la distribuzione moderna conferma invece la volontà di continuare la collaborazione con il governo». Ottima decisione. Adesso bisogna lavorare per riportare tutti al tavolo. 

Centromarca e Associazione Ibc (Industrie Beni di Consumo) che insieme rappresentano le più grandi aziende italiane del settore hanno ribadito, da parte loro (per ora), il “Non debemus, non possumus, non volumus”  al ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso. Le ragioni sono contenute in una nota. “La marginalità delle aziende si è deteriorata a causa del forte aumento del tasso di sconto. Il quadro complessivo non consente previsioni realistiche sulla dinamica dei conti economici e sulle linee delle politiche commerciali dei prossimi mesi. Un’azione di controllo dei prezzi, a prescindere da queste variabili e dalle differenti condizioni delle singole aziende, rischia di pregiudicare la tenuta del tessuto produttivo (soprattutto delle Pmi) e la continuità dei fondamentali investimenti a presidio di qualità, sicurezza, sviluppo, occupazione e sostenibilità”.

“I bilanci industriali – prosegue il comunicato – registrano riduzioni dei margini, a conferma del fatto che, consapevoli della debolezza del potere d’acquisto delle famiglie, i produttori di beni di largo consumo hanno fatto quanto era in loro potere per trasferire con gradualità a valle gli extracosti anche incamerando negli anni scorsi contrazioni significative dei profitti. Nell’alimentare i margini per unità di prodotto hanno registrato una riduzione del 41,6%. L’Osservatorio Congiunturale Centromarca – Ref Ricerche evidenzia che lo scorso anno il 43,5% dei manager delle aziende alimentari e non food ha riscontrato profitti in diminuzione e il 6,2% ha prodotto in perdita. Nel 2022 le tensioni al rialzo dei costi, già in atto nel 2021, si sono accentuate. Leggi tutto “Patto anti inflazione. Siamo al penultimatum dell’industria alimentare”

Grande distribuzione. Il discount Penny in Germania aumenta i prezzi per una settimana in difesa dell’ambiente.

Mentre in tutta Europa si formalizzano accordi per ridurre l’impatto dell’inflazione sulla spesa delle famiglie, soprattutto con i redditi più bassi, in Germania un’azienda, parte di un grande gruppo GDO presente in tutta Europa, lancia qualcosa di più di una provocazione.  Un forte segnale di riflessione collettiva  che guarda al futuro.  Dei tre discount tedeschi di rango Penny  è forse il meno noto. Vanta 3000 punti vendita in Europa e, in Italia, nasce nel 1994 in compartecipazione con Esselunga. Oggi PENNY, nel nostro Paese,  ha circa 400 punti vendita,  7 centri di distribuzione e  oltre 4.200 collaboratori.  Nel 1999 Esselunga esce dal capitale di Penny Market Italia e la società passa sotto il controllo totale del gruppo REWE (Gruppo nel quale ho avuto la fortuna di lavorare per molti anni). A partire dal 2000 inizia una  politica di espansione con l’acquisto di una cinquantina di punti vendita di dimensioni medio-piccole dalla Plus Italia, situati in Liguria, Toscana e Umbria. Alla fine del 2014, il logo aziendale cambia nel resto d’Europa,  Dal 14 aprile 2022, anche in Italia il logo “PENNY.” sostituisce la vecchia insegna Penny Market.

Balza oggi alle cronache per un’iniziativa senza precedenti. In un esperimento che è partito ieri, lunedì 31 luglio, e che durerà una settimana in tutte le 2.150 filiali tedesche della catena, una gamma di nove prodotti, principalmente latticini e derivati della carne, verrà venduta in base al loro costo ovvero a quello che gli esperti di due università tedesche hanno ritenuto essere il loro vero costo, aggiungendo anche  il loro effetto indotto sull’ambiente. Sul  suolo, sul  clima, sull’uso dell’acqua e sulla salute. È molto più di una provocazione. Serve per far riflettere e per far crescere il livello di consapevolezza dei consumatori tedeschi. Tra tanto “green washing” che non incide in profondità sui comportamenti agiti, Penny alza l’asticella. I veri costi sono stati calcolati in collaborazione con l’Università di Norimberga e di Greifswald, tenendo conto di tutti i danni ambientali causati dalla produzione di quegli  alimenti specifici. Ciò include l’impatto sul suolo, sull’acqua, sulle emissioni e altro ancora. Il reddito aggiuntivo derivante dagli aumenti dei prezzi di quella settimana sarà ristornato a progetti ambientali locali. Il risultato  è però un forte aumento del costo di alcuni prodotti di origine animale.

“Vediamo molti nostri clienti soffrire per i prezzi dei prodotti alimentari aumentati a causa dell’inflazione. Tuttavia abbiamo voluto dare un messaggio ancora più scomodo. I prezzi del cibo che vendiamo, che si sommano  lungo la filiera di approvvigionamento, non riflettono i costi ambientali. Vogliamo così contribuire a creare una diversa consapevolezza con la campagna nazionale sui veri costi”, ha detto Stefan Görgens, COO di PENNY, in conferenza stampa.

La campagna che durerà una sola settimana (www.penny.de/wahrekosten) ha l’unico  scopo di aumentare la consapevolezza dell’impatto ambientale sulla  produzione alimentare. Attualmente, le industrie della carne e dei prodotti lattiero-caseari in Germania  ricevono sussidi governativi e agevolazioni fiscali che aiutano a rendere i loro prodotti meno costosi al consumatore.  Contemporaneamente altre iniziative sono in campo a livello europeo per  chiedere di dirottare questi sussidi verso  prodotti proteici alternativi per aiutare a contrastare  il cambiamento climatico. Posizioni difficilmente conciliabili. Nel frattempo, organizzazioni come il Danish Climate Council e la UK Health Alliance on Climate Change hanno chiesto di tassare carne e latticini per ridurne i consumi. Leggi tutto “Grande distribuzione. Il discount Penny in Germania aumenta i prezzi per una settimana in difesa dell’ambiente.”