ALDI. Buona Spesa (in) Italia?

Come ho già scritto parlando di LIDL, una multinazionale della GDO la si può osservare da diversi punti di vista. Dal basso, entrando in un punto vendita osservando specificità, prodotti e servizi. O dall’alto: valutandone la forza economica che è in grado di mettere in campo per crescere o meno in un Paese. Oppure osservando come si muove il consumatore. È la vecchia storia sufi dell’elefante e dei ciechi chiamati a descriverlo.  La realtà è come l’elefante. Ognuno di noi ne tocca o ne predilige un punto di osservazione piuttosto che un altro.

LIDL come ALDI sono due realtà che sono allenate a guardare il mondo cercando di interpretare i diversi scenari di riferimento. Le nostre aziende, grandi o piccole, osservano il territorio nazionale. Un vantaggio in termini di presidio, uno svantaggio in termini di potenziale di crescita. Non è una differenza da poco. LIDL è arrivata in Italia nel 1992. ALDI in quegli anni ha preferito non investire da noi. Quest’anno festeggia cinque anni di permanenza. Ci ha riprovato solo quando ha intuito che il discount stava ormai iniziando a costruirsi una reputazione diversa presso i consumatori. I discount sono partiti tutti più o meno, “sgarrupati” allo stesso modo. Per questo gli analisti del comparto non ne hanno compreso subito  il potenziale evolutivo in rapporto alle risorse disponibili e alla contemporanea modificazione dei consumi né il possibile approdo finale. Per alcuni sono ed restano discount. Un banale “sottoprodotto”. 

In fondo nella seconda metà del novecento la filosofia di fondo del comparto era racchiusa in una traiettoria ben sintetizzata da Carlin Petrini: “il cibo era prodotto per essere venduto. Non per essere mangiato”.  L’aspetto quantitativo era prevalente. Da qui i grandi formati distributivi, le marche, gli sconti e le promozioni. Così come le modalità di espansione sul territorio e i modelli organizzativi conseguenti. Sostanzialmente tutti uguali. L’avversario allora era la piccola distribuzione commerciale e se troppo vicino,  il concorrente diretto. I vantaggi competitivi della GDO erano sostanzialmente basati su differenziali di efficienza e dunque di costo.  Si trattava nella maggior parte dei casi di un confronto impari: di qui la lenta ma progressiva espansione della quota della grande distribuzione sul totale delle vendite.

Questa fase è però alle spalle. La fine del secolo ha sostanzialmente cambiato il paradigma di riferimento. Presidio del territorio, servizio al cliente, qualità e convenienza hanno richiesto nuove interpretazioni. C’è chi lo ha capito (discount, negozi di vicinato, specializzati e MDD di diverse declinazioni), chi resiste puntando su abitudini dei clienti e posizioni del punto vendita è chi cede ad altri il compito di far quadrare i conti. Aldi ha preferito capire bene come muoversi sul nostro mercato. Leggi tutto “ALDI. Buona Spesa (in) Italia?”

Grande Distribuzione. L’altitudine può far male a Conad?

Chi va in montagna sa che fino a 1500-2000 metri si sale senza problemi. Sa anche che una parte di coloro  che raggiungono i 3000 sviluppano una forma di malattia da altitudine. Determinante è la velocità di salita e la capacità di adattamento a certi livelli. Temo che una parte di quel complesso sistema imprenditoriale che è Conad rischia di sviluppare una sindrome di questo tipo.

Essere i primi comporta innanzitutto averne la consapevolezza. Nient’altro che la realizzazione di una ricetta apparentemente  semplice fatta di autorevolezza, visione del futuro, gioco di squadra, responsabilità verso i propri collaboratori e impegno nei confronti delle comunità dove si è insediati e quindi verso il Paese. In un sistema policentrico, dal punto di vista delle decisioni imprenditoriali, qual’è il Consorzio, più che la posizione in classifica dell’intera squadra il rischio è che ad alcuni imprenditori del consorzio interessava e interessi tuttora il proprio perimetro di business e il peso che questo consente nel determinare traiettorie e strategie dell’insieme del sistema. In altri termini, un problema di equilibri e di gestione del potere. Teorie complottiste, ricorsi alla magistratura, veline, fibrillazioni interne nascono tutte da qui.

Come nella fattoria degli animali di Orwell dove gli animali sono tutti uguali ma qualcuno si sente più uguale degli altri. E questo malessere come una talpa scava, tronca le radici  rischiando di indebolire il tessuto connettivo che lega l’intero consorzio. Cosa assolutamente da evitare. L’accelerazione imposta dall’acquisizione di Auchan ha costretto gli imprenditori di Conad ad affrontare una salita forzata per la quale probabilmente non tutti si erano preparati. Alcuni hanno intuito le potenziali opportunità di crescita complessiva o almeno per il proprio perimetro, altri, lo si è capito quasi subito hanno temuto il percorso imposto dall’operazione stessa e quindi sono emersi, fin da subito, diversi problemi di tenuta. Sia imprenditoriali che manageriali.

Ho vissuto personalmente la crisi finale che ha preceduto il passaggio di Standa al gruppo Rewe e ho visto fior di manager schiantarsi nel tentativo di recuperare clienti e fatturato persi negli anni. Operazione molto difficile da realizzare e altrettanto facile da sottovalutare. Il cambio di insegna non è mai sufficiente. Occorre tempo. Molto di più di quello che era stato probabilmente preventivato a tavolino. Alle prime difficoltà nel rapporto tra singole cooperative e Margherita Distribuzione, la società che dal 1 agosto 2019 ha preso in carico tutte le attività che in Italia facevano capo ad Auchan, tutto questo è cominciato ad emergere. O di fronte alle richieste sindacali. Oppure in seguito alle decisioni dell’ antitrust. O, infine, di fronte all’impossibilità di scegliere di “fiore in fiore” solo i punti vendita più graditi. Ma, come ci ricordava sempre Vujadin Boskov l’eccentrico allenatore della grande Sampdoria: “Partita finisce quando arbitro fischia”. Leggi tutto “Grande Distribuzione. L’altitudine può far male a Conad?”

Grande Distribuzione (e non solo). Il part time involontario è un problema serio..

Ha ragione Marco Leonardi in una recente intervista al Foglio: “In Italia l’allargamento delle diseguaglianze è dovuto alle ore lavorate e non ai salari orari. In altre parole, la diseguaglianza nei redditi da lavoro dipendente non aumenta tra i lavoratori che hanno carriere continuative e lavori full time ma è aumentata perché nel corso degli ultimi 30 anni sono entrati nella forza lavoro molti dipendenti con contratti precari e soprattutto molti contratti part time“.

Se parliamo di lavoro nel commercio e nella Grande Distribuzione in particolare, le critiche esterne si concentrano essenzialmente sui salari ritenuti troppo bassi. Tutto l’ottimo lavoro fatto per le comunità dove i punti vendita sono insediati, le scelte in materia di sostenibilità, le assunzioni anche in aree non facili, la formazione e le opportunità di crescita interna che le insegne mettono a disposizione dei loro collaboratori rischiano di passare in secondo piano.  Fuori dal comparto sale il tono della polemica.

Al tema delle  retribuzioni, ovviamente proporzionali alle ore lavorate, si aggiunge quello del lavoro festivo e degli orari legati alle fasce di apertura, del ricorso al tempo determinato e infine al mancato rinnovo dei contratti nazionali. E allontana i giovani dal comparto. Abbastanza recente è il siluro sul tema che il Presidente di Confindustria ha tirato al settore del  Commercio per smarcarsi dall’accusa di non voler rinnovare i suoi CCNL.  C’è così il rischio che si faccia di tutta l’erba un fascio.

In realtà il vero problema si cui occorre sviluppare una riflessione è quello legato al cosiddetto part time involontario e alla sua possibile evoluzione. L’Istat considera con questa voce il numero di occupati con orario ridotto che dichiarano di avere accettato un lavoro part-time in assenza di opportunità di lavoro a tempo pieno. Orario ridotto, ma non per scelta, nel 65,2% dei casi. E su questo, secondo le statistiche,  siamo primi in Europa. Leggi tutto “Grande Distribuzione (e non solo). Il part time involontario è un problema serio..”

LIDL. La metamorfosi di un discount moderno

Pochi nella GDO tradizionale in Italia hanno compreso le potenziali traiettorie dei discount tedeschi (e non solo) nel nostro Paese. Molti pensavano che si sarebbero accontentati di presidiare una nicchia. Oggi si sarebbe detto che: “non li hanno visti arrivare”. Eppure, prima di trasformarsi nei colossi che sono oggi in Europa e non solo, sono partiti ovunque proprio facendo leva sulla loro ragion d’essere: la pura convenienza.

Come il primo discount della storia che nasce ad Essen, dove Karl Albrecht aprì il proprio negozio di alimentari nel 1913 ben prima di trasformarsi in ALDI. L’altra grande  insegna sbarcata in Italia alla fine del 2017.  Penny Market nasce compartecipata con Esselunga nel 1994 e prosegue in solitaria dal 1999. Anch’essa di proprietà di un importante gruppo della GDO tedesca: REWE. Lidl è una realtà della grande distribuzione organizzata leader in Europa appartenente al Gruppo Schwarz. Quarto gruppo  in assoluto a livello mondiale dietro Walmart e Costco e alle spalle dell’americana Kroger, con un fatturato di 99,2 miliardi. 

L’Insegna attualmente gestisce una rete di oltre 12.000 punti vendita, più di 200 centri logistici in 31 Paesi e conta più di 360.000 dipendenti. Presente in Italia dal 1992, Lidl Italia può contare su 730 punti vendita che impiegano più di 21.000 collaboratori, articolati in 11 Direzioni Regionali che hanno la responsabilità operativa dei punti vendita e delle relative piattaforme logistiche. La Direzione Generale si trova ad Arcole, in provincia di Verona, e conta più di 800 dipendenti.

Quando si parla di multinazionali presenti in Italia c’è sempre il rischio di dover fare i conti con una retorica un po’ datata che ne riduce l’importanza e la portata economica per il nostro Paese. Oppure, nel comparto GDO, spesso le multinazionali vengono relegate, a soggetti che faticano a comprendere la specificità del nostro mercato. La business community  GDO, nel frattempo, continua ad interrogarsi sul considerare o meno i discount supermercati come gli altri, sul loro destino, sulle performance al metro quadro o sull’affollamento territoriale ritenuto foriero di possibili crisi di crescita all’orizzonte in grado di metterne in discussione la marcia trionfale di questi anni. Leggi tutto “LIDL. La metamorfosi di un discount moderno”

Grande Distribuzione. Vince chi punta sulle persone

Frequento numerose insegne della Grande Distribuzione.  Ho sotto casa un comodissimo Carrefour Express. Ho l’Esselunga di viale Cassala a qualche centinaia di metri dove vado spesso. Fino a poco tempo fa preferivo  arrivare fino al Viaggiator Goloso di Buccinasco a non più di un quarto d’ora d’auto. Purtroppo il Comune ha deciso di fare cassa con l’autovelox e alla seconda multa per un millimetrico superamento della velocità consentita, ho rinunciato. Non mi andava di finanziare surrettiziamente il comune in questione.

Quando passo per lavoro mi fermo al Gigante di Lonate Pozzolo o  all’Iperal di Bovisio Masciago. Due insegne  molto interessanti. Recentemente Banco Fresco a Varedo, Tigros in via Giambellino e il Bennet di Viale Corsica. Infine il Destriero a Vittuone e Lidl a Corbetta. In Trentino, la mia seconda casa,  Poli a Malè oppure Aldi a Cles. Al mare, la Coop di Follonica. Mi manca il Veneto dove ritornerò presto e dove mi attirano un paio di insegne  e il sud dove ho avuto la fortuna di aprire numerosi punti vendita e quindi mantengo numerosi contatti. Non ho  preferenze particolari. Dopo tanti anni di frequentazione non è l’insegna in sé che mi cattura. Mi piace entrare nel punto vendita e osservare. Ho partecipato a tante aperture, dalla selezione del personale alla costruzione delle squadre,  che mi basta poco per capire il clima e la presenza, o meno, del cosiddetto “quiet quitting” quella condizione, oggi tanto evocata ma presente da sempre nei punti vendita, in cui le persone riversano nel lavoro solo il minimo indispensabile rinunciando a mettersi in gioco.  Oppure dove non sono gestite correttamente.

Oltre ai prodotti e alle offerte nei supermercati, che registro solo se sono particolarmente interessanti, osservo quindi le persone nel lavoro. Come si muovono, come gestiscono la merce sui  lineari. Come affrontano e supportano (o sopportano)  i clienti. E, ovviamente, mi piace osservare la gente, i clienti  che li frequentano. La fretta di alcuni e la calma olimpica di altri. Il sorriso sardonico quando apre improvvisamente una cassa e si infilano lasciando gli altri basiti per lo scatto di quello che sembrava un pensionato dal passo incerto. Le borse di plastica che segnalano la propensione al nomadismo tra insegne. La soddisfazione del direttore di un punto vendita  minore quando il cliente posiziona la “sua” merce nel sacchetto dell’insegna leader.

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Grande Distribuzione e scarso peso politico. Bisogna guardare avanti…

Fino alla nascita del Governo di centro destra le diverse lobby, sempre molto attive, interagivano con la politica attraverso canali conosciuti e riconosciuti. La difesa dei legittimi interessi di parte era affidata a professionisti, o alla diverse associazioni di categoria, che veicolavano, a ciascun partito rappresentato in Parlamento o in altre situazioni,   le proprie determinazioni sulle differenti iniziative che la politica o le diverse istituzioni coinvolte  si apprestavano a mettere in campo. Era quindi la politica a dover trovare le mediazioni e le conseguenti sintesi necessarie.

L’equilibrio è di fatto saltato con il nuovo esecutivo. Innanzitutto perché alla base del successo elettorale dei partiti che compongono la sua maggioranza c’è l’impegno, più esplicito che in passato, di buona parte dell’associazionismo imprenditoriale dell’agricoltura, dell’industria e del commercio. Non prenderne atto è da ingenui. Affrontati  i due temi fondamentali sotto lo sguardo attento  del Presidente della Repubblica e attraverso un’assunzione di responsabilità diretta del Presidente del Consiglio sulle compatibilità economiche in rapporto con l’Europa e il nostro sostegno all’Ucraina nel quadro delle nostre alleanze militari il resto delle determinazioni, dall’agricoltura all’industria nazionale, dal commercio e dal turismo le scelte o le “non scelte” sono frutto di un lavoro di concerto con le rispettive associazioni di categoria.

Quindi le contraddizioni interne ai vari comparti o tra comparti, se non trovano una ricomposizione win win, vengono schiacciate da questi equilibri determinati dalla nuova situazione politica. La Grande Distribuzione, prima della nascita di questo Governo, contava sull’ascolto guadagnato dal mondo cooperativo e dal suo tradizionale rapporto con il centro sinistra che, a vario titolo, ha sempre partecipato direttamente o indirettamente al governo del Paese beneficiandone della sua attività di lobby oppure dei rapporti diretti che, a partire dai territori le diverse insegne si erano costruite con la politica, di destra o di sinistra che fosse, per far arrivare le proprie istanze. Il cambio di Governo e il riacutizzarsi dell’inflazione hanno spazzato via questi elementi di raccordo lasciando qualche  spazio ai rapporti diretti dove la convenienza reciproca ha giocato un ruolo determinante ma ha reso irrilevante   alle lobby principali il peso e le istanze della GDO.

Ovviamente le tradizionali divisioni interne del comparto  rendono difficile prenderne atto collettivamente e spesso si preferisce addebitarlo agli usi e alle consuetudini del settore: “È sempre stato così e non cambierà mai” è la risposta a chi lancia un allarme vero. Difficile quindi rimediare una linea comune tra “acerrimi” concorrenti che preferiscono comportarsi come i polli del Manzoni beccandosi tra di loro mentre vengono portati in polleria. La nuova situazione politica e la gestione del perdurare dell’inflazione potrebbero  però aprire uno scenario nel quale sarebbe necessario inserirsi. Per due ragioni. Innanzitutto perché i comparti a monte hanno interesse a spostare decisamente gli equilibri a loro favore. Per l’industria di marca e per l’agricoltura l’inflazione, se gestita con intelligenza, non è di per sé un male. Dopo lo spavento della pandemia e con una guerra all’orizzonte un po’ di fieno in cascina non guasta. Certo non sarà così per tutti. Ma tant’è. E poi è fondamentale esserci per un problema di potere. Se hai un asse forte con il Governo contribuisci ad individuare le soluzioni necessarie e dove spostare le risorse necessarie.  Sia nel primario che nell’industria. E, infine, un nemico facile da individuare serve a tutti. Lo vediamo già oggi in Spagna con le proposte strampalate di Podemos contro la GDO o nei discorsi sull’avidità  delle insegne in Gran Bretagna (la cosiddetta greedflation).

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Associazioni datoriali e imprese del terziario ad un passo dal possibile rinnovo del contratto nazionale

Ormai ci dovremmo essere. Ai primi di giugno ISTAT darà il dato di conguaglio IPCA 2022 (indice dei prezzi al consumo armonizzato per i Paesi dell’Unione Europea). L’effetto di quel dato preoccupa le imprese che applicano il CCNL del terziario e della GDO per le conseguenze inevitabili sul costo del lavoro in un momento di forte tensione dovuto alla ripresa inflazionistica e alle conseguenze sui livelli di  consumo. Non traggano in inganno i fatturati gonfiati dall’inflazione. Un rinnovo di CCNL guarda necessariamente al futuro, ai prossimi 4 anni. E la storia è  ancora tutta da scrivere. La liturgia e la prassi delle relazioni sindacali non prevedono cambiamenti né adattamenti  al contesto. Al massimo ritardi applicativi. O come nel caso dei fornitori sconti e promozioni. Eppure la logica suggerirebbe una maggiore cautela sugli impegni economici da concordare in tempi di inflazione. I contratti, sindacali o meno, sono impegni economici le cui modalità di erogazione andrebbero modellati sul contesto. Non viceversa. Ma questo presuppone un salto di qualità che non è nelle corde dei giocatori in campo. Ciascuno cerca di difendere come può il proprio perimetro di riferimento.

L’incontro delle delegazioni al massimo livello prevista per i prossimi giorni ha questo scopo. Valutare la possibilità o meno di un affondo conclusivo. Sarebbe sbagliato non auspicare una conclusione. L‘Accelerazione  dovrebbe portare alla firma del contratto nazionale del terziario trascinando in un destino analogo gli altri tre contratti nazionali che ruotano intorno a quello firmato da Confcommercio applicato ad oltre 2 milioni ed 800 mila addetti. L’ultimo contratto nazionale firmato nel 2015 è scaduto  nel 2019. Il 12 dicembre 2022, le diverse associazioni datoriali (Confcommercio, Federdistribuzione, Confesercenti, Coop) hanno sottoscritto un protocollo di settore con i sindacati di categoria Filcams-Cgil, Fisascat-Cisl e Uiltucs definendo una tantum di 350 euro e un acconto di 30 euro sui futuri aumenti contrattuali a partire da aprile 2023. Un piccolo passo in avanti. Molte aziende oggi spingono per chiudere la partita.

L’accordo è maturo e non sono utili a nessuno i giochi di ruolo  delle diverse associazioni per segnare i rispettivi campi da gioco. C’è un convitato di pietra al tavolo per ora ancora circoscritto: i cosiddetti “contratti pirata” che vengono spesso evocati dall’associazionismo di impresa e dai sindacati come nelle sedute spiritiche ma che, concretamente, nessuno sembra intenzionato ad affrontare sul serio.

Facciamo chiarezza.

Con il termine “contratti pirata” si intendono contratti collettivi sottoscritti da sindacati minoritari e associazioni imprenditoriali, a volte poco rappresentative, con l’obiettivo di costituire un’alternativa ai contratti collettivi nazionali siglati dalle organizzazioni più rappresentative. L’uso del termine “pirata” deriva dal fatto che tali contratti prevedono condizioni normative ed economiche inferiori rispetto a quelli siglati dai sindacati confederali (ad esempio retribuzioni minime inferiori; un minor numero di ferie o permessi, etc). Se volessimo essere pignoli anche i due contratti nazionali , firmati a suo tempo, da Confesercenti e Federdistribuzione con gli stessi sindacati confederali in dumping a quello di Confcommercio potrebbero essere definiti essi stessi una forma di contrattazione “pirata”  per attrarre associati. Ma tant’è. Arrivare a questo punto della vicenda non conviene a nessuno  sottilizzare. 

Tra gli indubbi svantaggi che l’applicazione di tali contratti in dumping sta portando è che si determina una proliferazione dei contratti collettivi. Pirata o meno. Visti dal versante dell’impresa, soprattutto quella piccola e media, “rappresentano la reazione adattiva di un sistema a basso valore aggiunto all’imposizione di continui oneri” come ha scritto recentemente  Mario Seminerio. Per uscirne non basterebbe certo prendersela con  i reprobi. Occorrerebbe, oltre ad un intervento deciso sul costo del lavoro e sulle normative, una legge che certifichi il peso degli aspiranti firmatari e quindi  chi debba essere titolare della contrattazione di categoria.

Ma se fosse così, i 3 contratti firmati da Confesercenti, Federdistribuzione e Confcommercio, che coprono in parte  lo stesso perimetro, come verrebbero “pesati”?  E, aggiungo, Confcommercio, ad esempio,  sarebbe disponibile ad accettare la richiesta di trasparenza prevista sul numero dei suoi  associati nei singoli sottosettori  e delle sue entrate economiche? Soprattutto da quelle provenienti da sottosettori che non si riconoscono nella confederazione di Piazza Belli. Ad oggi nulla è chiaro. Quindi la cosiddetta contrattazione “ pirata”, senza alcun intervento, rischia di proseguire il suo cammino  come prima. Anzi. Tenderà ad ampliare il suo raggio di azione. Sopratutto quando le insegne  operanti  sullo stesso territorio e alle prese con costi crescenti si trovassero ad applicare contratti di lavoro con differenze di costo anche superiori al 15%….

Aggiungo una nota di colore. Per dimostrare di saper gestire  i “malpancisti”  presenti nelle delegazioni di alcune  associazioni datoriali al tavolo negoziale,  Confcommercio  ha  provato  la classica mossa del cavallo: scavalcare i contratti pirata intervenendo in pejus su diritti e tutele del CCNL in rinnovo, in cambio dell’aumento salariale. Un rilancio inutile che più che accontentare i duri del negoziato rischia di trasformarsi, oltre che in una provocazione nei confronti del sindacato, in  un endorsement formale alla bravura dei consulenti del lavoro che, nei territori, si ingegnano a rielaborare i contenuti del CCNL abbassandone le coperture.

Criticare i contratti pirata e mettersi contemporaneamente la benda all’occhio e l’uncino per fingere di  “spaventare” i sindacati non credo sia particolarmente  saggio a questo punto del negoziato. A meno che non si tratti della classica furbata finale per gestire i riottosi seduti al proprio fianco. Vedremo presto se si è trattato del classico ballon d’essai fine a sé stesso da parte di chi tira le fila del negoziato o di una scelta consapevole foriera di conseguenze negative sull’esito finale.

Pur non essendo questo un rinnovo che verrà ricordato dai posteri per i contenuti innovativi, visto il contesto,  i margini per chiudere ci potrebbero essere.  Innanzitutto il sindacato ha ottenuto un primo risultato: il negoziato procede parallelamente con tutte le associazioni coinvolte come fosse lo stesso tavolo. Non è un risultato da poco. È, di fatto, un  passo importante che certifica l’impossibilità di riproporre  fughe in avanti come è avvenuto in passato. Approfittando del recente decreto lavoro, le parti potrebbero lavorare, ad esempio, sulle causali del lavoro a termine e definendo modalità e tranche dell’aumento salariale da spalmare sulla durata del nuovo CCNL.

Così come per alcuni articoli del contratto stesso che si sono usurati nel tempo e sui quali diversi aggiustamenti sono possibili senza alterarne gli equilibri.  e poi ci sarebbero da introdurre sperimentazioni sulle nuove tendenze e professionalità del lavoro nel terziario. Senza dimenticare  i quadri aziendali che in questi anni hanno visto crescere la professionalità richiesta, l’impegno  e il contributo al risultato aziendale. Per il sindacato non si prospetta comunque una partita facile. La pressione salariale sta salendo dal basso  così come le tensioni tra i sindacati potrebbero introdurre variabili imprevedibili allo stesso negoziato. Lo stesso vale per le aziende della GDO che stanno esaurendo tutti gli strumenti messi in campo per tenere sotto controllo il costo del lavoro e che guardano con preoccupazione gli anni di vigenza del nuovo CCNL.

È una partita molto delicata ma che è interesse comune chiudere presto. Non solo nel commercio e nel terziario. Quasi 7 milioni di persone su un totale di 12,8 milioni nel nostro Paese sono senza contratto nazionale rinnovato. Tre milioni gli addetti e le addette di turismo, commercio e ristorazione. Il contratto della vigilanza, è scaduto da sette anni. 591contratti nazionali scaduti al 31 dicembre del 2022. Mentre il costo della vita è in costante aumento, gli stipendi degli italiani non solo non seguono l’incremento dell’inflazione ma addirittura sono scesi nel tempo complice la stagnazione di PIL e della produttività. E questa situazione, se non governata, non promette nulla di buono. A questo punto del percorso non c’è alternativa all’accordo. Alla GDO verrebbe addebitata la responsabilità, oltre a quella strumentale del “caro carrello” pure quella di “irresponsabilità sociale”. Un disastro sul piano dell’immagine pubblica. C’è un vecchio proverbio ebraico che recita: “l’unico ostacolo al compromesso è un po’ di buona volontà”. Questo è il momento di dimostrarla.

Esselunga. Un passo avanti, due indietro…

Un CEO da solo non va da nessuna parte. E CEO non si nasce. Si diventa. Da una parte attraverso il percorso professionale, le competenze e le capacità affinate negli anni. Indispensabili ma non sufficienti. Dall’altra con la capacità  di circondarsi di collaboratori capaci, esperti nel loro campo e ingaggiati nelle strategie e negli obiettivi. Stimarli, riconoscerne le competenze e la loro esperienza, condividere con loro le traiettorie aziendali, è fondamentale.

Nel mio campo  oltre  ai costi del personale, alla loro evoluzione e il presidio delle problematiche sindacali, non si possono  non cogliere i segnali che accompagnano la vita reale di un’azienda. Il turn over più o meno accentuato dai manager fino agli addetti nei punti vendita, la difficoltà a reperire risorse dal mercato, il grado di soddisfazione presente nelle diverse aree aziendali. 

Ci sono aree aziendali dove obiettivi troppo sfidanti  o valutazioni affrettate  sono pessimi consiglieri.  E rischiano di compromettere il futuro delle risorse migliori e dell’azienda stessa. Occorre poi che il CEO sia in grado di ascoltare, rispettare la professionalità dei manager, capire e proporre sintesi evitando pregiudizi e decisioni sommarie che possano compromettere la gestione futura e quindi i risultati attesi.  Quella che emerge sotto questi punti di vista  è, ovviamente, una realtà ben diversa dai comunicati stampa rivolti all’esterno. Emerge l’azienda per quello che è.

Nel caso dell’azienda di Pioltello i numeri parlano chiaro. C’è poco da discutere. Esselunga chiude il 2022  con segno positivo, come si legge in una recente intervista della Presidente esecutiva Marina Caprotti sul Corriere della Sera. “È stato un anno di impegno verso clienti e dipendenti per proteggere il loro potere di acquisto. Una decisione meditata e contro corrente”, spiega Marina Caprotti. I prezzi dei prodotti a scaffale nell’ultimo anno sono lievitati del 5,5%, a fronte di un’inflazione ricevuta dai fornitori pari a circa il 9%: ciò significa che, in pratica, Esselunga ha assorbito quasi il 4% dei rincari. Questo impegno è però costato caro in termini di margini: nel 2022 l’ebitda è sceso a 501,4 milioni, dai 689,7 del 2021.

Questo dato ha spinto però S&P Global Ratings ha rivedere l’outlook di Esselunga da “stabile” a “negativo”. L’agenzia di rating ha osservato che nel primo semestre Esselunga ha registrato un Ebitda margin quasi dimezzato, pari al 5,5%, a causa dell’aumento della base dei costi legato all’inflazione, in aggiunta a un’aggressiva strategia di pricing e ha aggiunto che potrebbe tagliare il rating se il margine Ebitda dell’azienda non dovesse tornare sopra il 7% nei prossimi 12 mesi. Aggiungo che Massimo Schiraldi ha giustamente  scritto su GDO news: “Esselunga, un’azienda che, nonostante non sia leader di mercato, è da sempre tra i best performers in Europa e la migliore in assoluto in Italia. Questo aspetto è importante perché la qualità del retailer si esprime proprio nel saper costruire assortimenti adatti alle necessità dei consumatori i quali, di conseguenza, scelgono l’insegna come punto di riferimento per la propria spesa”. Quindi, nonostante le turbolenze del contesto, i numeri danno loro ragione. E, questi indubbi risultati sono però frutto del lavoro quotidiano della squadra a tutti i livelli.  Leggi tutto “Esselunga. Un passo avanti, due indietro…”

Ortofrutta e non solo. Apre Fresh; qualcosa si muove anche a Milano.

Una rondine non fa primavera. Però ne potrebbe segnare l’arrivo. L’8 giugno Banco Fresco lascia il suo modello periferico e sbarca in città. Arriva “FRESH”, il nuovo format cittadino della catena. Sorgerà al posto dell’ex Erbert, i cui piatti pronti andranno ad arricchire le tremila referenze Banco Fresco. Innanzitutto il format. È il classico format ZTL tipo Esse. Per ora con i suoi nove negozi milanesi l’azienda di Pioltello, non aveva concorrenti.

Negozi di vicinato ce ne sono già molti, un po’ tutti i uguali. E abbiamo  in arrivo altre multinazionali ma il format un po’ “fighetto” era una  esclusiva Esselunga. Adesso arriva un binomio interessante in via Moscati in zona Sempione. Dall’ortofrutta, elemento distintivo di Banco Fresco a tutto il resto però puntando ad una filosofia fondata su qualità e sostenibilità. Se sarà così credo potrà dire la sua in una città come Milano. La scelta di mantenere la partnership con Erbert è interessante. È presto per capire se è tattica o strategica. Lo vedremo più avanti.

Erbert è stata è stata definita da Michela Becchi di Gambero Rosso  (forse un po’ pomposamente) la Whole Foods di casa nostra. “Certo, botteghe e negozi di nicchia, aziende e modelli virtuosi di cibo sano, etico e rispettoso dell’ambiente erano già presenti un po’ ovunque, ma quello che mancava era un vero supermercato contemporaneo attento alla salute. Una sorta di Whole Foods italiano prima maniera, l’azienda statunitense fondata da John Mackey nel 1976, ben prima del boom del biologico iniziato negli anni ’90, e acquistata da Amazon nel 2017 per quasi 14 milioni di dollari.

Sorge spontaneo il paragone con il colosso di Farinetti, ma i punti Eataly – così come quelli Naturasì – nascono con intenti e modalità diverse. Erbert a Milano, concept store che ha aperto il suo primo punto vendita nel 2020, poco dopo la fine del lockdown, ha invece come obiettivi principali la sostenibilità ambientale e la salute dei consumatori, caratteristiche che accomunano tutti i prodotti selezionati per la vendita”.

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Grande Distribuzione. La lotta si fa dura … se non si punta su frutta e verdura

Croce e delizia della Grande Distribuzione lo spazio dedicato all’ortofrutta in tutte le sue declinazioni è ritenuto, a torto o a ragione da molti, il biglietto da visita di un’insegna. Non a caso è il reparto piazzato all’entrata del punto vendita. Trasmette, anche al cliente distratto e frettoloso, una sensazione di freschezza che lo accoglie e lo accompagna nel suo giro tra i banconi e i lineari carichi di merce.

L’ortofrutta rappresenta il cuore del reparto dei freschi con un’incidenza nelle vendite vicina al 30%, seguita dalla macelleria. dai formaggi e dai salumi, pane, pasta e pasticceria, gastronomia e pescheria. Secondo la recente ricerca di Bain & Company Italia “Net Promoter Store” (https://bit.ly/41NTMGP)  se un supermercato migliorasse il reparto ortofrutta incrementerebbe i ricavi complessivi di oltre il 2%. Quindi il tema è centrale.

Nel 2022 i consumi di ortofrutta si sono attestati su 5,47 milioni di tonnellate. iper, super, discount e superette hanno veicolato circa  4 milioni di tonnellate, il 9% in meno rispetto al 2021. Più o meno il 75% dei consumi sono passati dalla GDO. Il resto dei consumi lo hanno coperto principalmente  i fruttivendoli (11%), i mercati ambulanti e rionali (circa il 10%). I primi hanno perso il 18% sul 2021 e i secondi circa il 20% sempre sul 2021. La GDO ha perso il 9% dei volumi. (Dati tratti da Rivista di Frutticoltura e Ortofloricoltura). L’aumento dei prezzi ha sostanzialmente coperto il calo dei volumi. Hanno comprato meno gli over 65 che rappresentano un terzo degli acquisti e  di più gli under 34 che però ne rappresentano solo il 17% l’unica fascia d’età che ha registrato una variazione positiva.

Sull’esposizione, sulla qualità, sulla redditività e sulla professionalità necessaria o meno per il reparto ortofrutticolo nella GDO si è aperto un dibattito che attraversa il settore da qualche decennio. Decine di convegni dedicati. Modesti i cambiamenti. Tutti concordano che l’obiettivo dovrebbe essere quello di avere un reparto ortofrutta curato, ben disposto e con un buon rapporto prezzo qualità. I clienti vorrebbero anche che il sapore, il gusto di frutta e verdura ritornasse ad essere una vera e propria riscoperta. Soprattutto nella GDO.
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