Filiera agroalimentare. La qualità si paga.

In questo periodo, ogni anno, si parla (o si straparla) di prezzi. Peri consumatori, sempre troppo alti, per gli agricoltori, troppo bassi.  La nostra agricoltura finisce spesso sotto i riflettori più per le liti animate dalle  sue rappresentanze ufficiali o per i drammatici casi di sfruttamento del lavoro che per il ruolo che esercita nella filiera. La realtà ci dice che il sistema agroalimentare, dai campi alla ristorazione, raggiunge i 550 miliardi (stima del CREA Politiche e Bioeconomia) e i consumi alimentari hanno superato i 205 miliardi, con una spesa di 470 euro mensili per famiglia (Il Mulino – La nuova struttura dell’Agricoltura italiana). All’interno di questo sistema, l’agricoltura e l’industria alimentare e delle bevande rappresentano insieme quasi il 39% dell’intero valore. Completano il quadro il commercio all’ingrosso e al dettaglio, i quali insieme pesano per ben il 53% del totale. Infine, la ristorazione raggiunge un fatturato di quasi 45 miliardi, equivalenti all’8% del sistema complessivo. Dal punto di vista occupazionale parliamo di  1,6 milioni di occupati nel 2022, pari al 7% del totale dell’occupazione complessiva. 

Innanzitutto occorre dire che non c’è alcun legame tra l’arretratezza culturale e organizzativa,  le irregolarità  di vaste aree del comparto agricolo con  i rapporti di filiera. Lo sfruttamento del lavoro laddove è radicato risale a ben prima della nascita della grande distribuzione. Altra cosa sono contestazioni specifiche a chi commette reati o si comporta scorrettamente.  A questo proposito si potrebbero citare fiumi di dati. Gli agricoltori disonesti e i commentatori superficiali si nascondono dietro queste scuse. Un’attività economica deve reggersi sul giusto compenso a tutti i suoi componenti. Lavoratori compresi. Altrimenti deve necessariamente chiudere. Tollerare lo sfruttamento al proprio interno giustificandolo con un altro tutto da dimostrare contro i settori a valle è la dimostrazione evidente della malafede.

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Unieuro. A Forlì tirano la corda senza però spezzarla..

L’Opas di Fnac Darty a questo punto non si può definire ostile né la proposta incongrua ma la reazione a Forlì ci sta. L’acquisizione è stata avanzata ufficialmente dal gruppo francese  Fnac-Darty, assieme alla società Ruby Equity Investment del suo principale azionista, il miliardario ceco  Daniel Kretinsky, con lo scopo di creare un gruppo, forte in Europa occidentale e meridionale (Francia, Italia, Spagna, Benelux, Svizzera), con l’obiettivo di superare i 10 miliardi di euro di ricavi nell’elettronica di consumo e negli  elettrodomestici, acquisendo un operatore che in Italia ha il 17% del mercato. Per l’operazione i francesi avrebbero messo sul piatto circa 250 milioni di euro.

Leggo che gli azionisti valutavano  le azioni in portafoglio a 8 euro mentre l’offerta francese è di 12 euro. In Fnac Darty si aspettavano questa reazione.  “Deciderà il mercato”, è la loro convinzione.  C’è tempo fino alla fine di  ottobre. Avuto il via libera  della Consob –, tutti gli azionisti potranno vendere fino al 25 ottobre. Nel primo incontro formale del CDA (sette componenti indipendenti, due rappresentanti di Iliad e due manager) cinque consiglieri hanno ritenuto il corrispettivo non congruo, cinque lo hanno ritenuto congruo e uno si è astenuto. Per la valutazione negativa sul prezzo offerto si sono espressi Alessandra Bucci, Pietro Caliceti, Paola Elisabetta Galbiati, il ceo Giancarlo Nicosanti Monterastelli e il Dg Maria Bruna Olivieri, mentre l’astensione è arrivata da Daniele Pelli. L’hanno giudicata  “congrua”, Laura Cavatorta, Stefano Meloni, Alessandra Stabilini, Giuseppe Nisticò, Sales and Customer care Director di Iliad Italia e Benedetto Levi, CEO di iliad Italia.  Questi ultimi, hanno fatto di necessità virtù, sottolineando che l’offerta “si colloca nella parte bassa della forchetta di valori individuati e non cattura pienamente le potenzialità dell’azienda”.   Questo primo risultato interlocutorio era  prevedibile. Senza accordo l’alternativa è, ovviamente,  andare a una conta “sul campo”.

Il Board ha poi rilevato altre criticità in riferimento alle informazioni fornite dai francesi “circa le motivazioni dell’offerta, i programmi futuri e le eventuali operazioni straordinarie successive all’offerta stessa, confrontati con gli obiettivi strategici avviati e perseguiti dal gruppo Unieuro e comunicati al mercato”. Difficile però pretendere in questa fase un dettaglio maggiore.  Gli stessi sindacati di categoria sono preoccupati “per la mancanza di informazioni e per le possibili conseguenze di tale operazione per le lavoratrici e i lavoratori di Unieuro spa”. “Filcams Fisascat e Uiltucs ritengono che l’eventuale acquisizione possa minacciare gravemente la continuità dell’attuale perimetro aziendale e occupazionale di Unieuro in Italia, minandone l’autonomia gestionale”, da qui una urgente richiesta di incontro. pastedGraphic.png“Appare a maggior ragione preoccupante dal punto di vista commerciale, il fatto che tra i soci di Fnac-Darty figura con oltre il 20% Ceconomy AG, gruppo che controlla Mediamrkt/Saturn, marchio già presente in Italia con insegna MediaWorld e principale competitor di mercato nel nostro Paese”, proprio di Unieuro. “Si ritiene pertanto indispensabile, a tutela degli oltre 5000 dipendenti della Società in Italia, che Unieuro spa ponga in essere tutte le iniziative utili a garantire, in questo contesto, la continuità aziendale e la salvaguardia integrale dell’occupazione, a partire dal personale di Sede, oltre che di tutta la rete vendite”.

Il piano di Fnac Darty (insieme al veicolo di investimento Ruby Equity, a sua volta controllato da Daniel Kretinsky) è già scritto. Iliad e l’asset manager Amundi cedono le loro quote (oltre il 17%) a quelle già possedute da Fnac Darty (4,4%) portando l’Opa ad oltre il 20%. Tanto Fnac Darty, quanto Iliad e Amundi (controllata da Crédit Agricole) sono tutte e tre francesi. In Unieuro manca un azionista di maggioranza visto che il primo socio è il magnate delle tlc, anch’esso francese, Xavier Niel con il 12,1% mentre il figlio del fondatore, Giuseppe Silvestrini, ha il 6,1%. Il resto è parcellizzato fra azionisti con quote sotto il 5%. L’offerta è oltremodo interessante per i piccoli azionisti soprattutto perché nei piani del gruppo francese c’è prima il delisting di Unieuro dalla Borsa di Milano e quindi possibili operazioni straordinarie di fusione e ristrutturazione con il veicolo finanziario Holdco detenuto al 51% da Fnac e per il 49% da Ruby.  Leggi tutto “Unieuro. A Forlì tirano la corda senza però spezzarla..”

Lidl. Una borsa cornetto. Come far parlare di sé a fin di bene…

Lidl è il prototipo dell’insegna moderna. Difficile non definirla così essendo tra le realtà più reattive al contesto esterno del comparto. Sia che si parli di valorizzazione della filiera agroalimentare italiana nel mondo, di impegno nel recruiting puntando a nuovi standard nel rapporto tra giovani, mondo della scuola e opportunità di crescita professionale o di innovazione nella sostenibilità dei punti vendita l’azienda tedesca si segnala sempre come profondamente diversa dai competitor.

Nel 2022 il 13% delle esportazioni totali di frutta e verdura del Paese vede Lidl protagonista. Il 4,5% di tutto l’export food & beverage italiano (The European House Ambrosetti). Sul recruiting grazie alla collaborazione con diversi Istituti Tecnici Superiori e AHK-Italien, la Camera di Commercio Italo-Germanica, Lidl Italia ha lanciato un percorso retribuito di studio duale per diventare Assistant Store Manager in 2 anni. Al termine dei quali oltre all’entrata in azienda viene conseguito un doppio titolo: il Diploma ITS di Assistant Store Manager (livello 5 del Quadro Europeo delle Qualifiche) e il Certificato della Camera di Commercio Italo-Germanica per il profilo tedesco di riferimento, che attesta le competenze professionali pratiche acquisite on-the-job che ha un valore internazionale sul mercato del lavoro. Sul tema della sostenibilità l’inaugurazione del nuovo Lidl di Villafranca di Verona, il salto di qualità nella ricerca di materiali costruttivi e rispetto del territorio è significativo. 

Tutto questo dimostra un dato molto semplice: competitività, innovazione e modernità non si misurano solo sugli scaffali come si è sempre scelto di fare nel comparto. Lidl quindi ha deciso di interpretare  un ruolo molto più ampio sul piano politico e sociale e di rapporto con il contesto. Sul piano comunicativo alcune scelte non solo da noi ma anche a livello internazionale  “out of the box” hanno contribuito a caratterizzarne l’immagine esterna. La scelta di diventare Partner Ufficiale delle Qualificazioni Europee e di Uefa Euro 2024 lasciando dopo otto anni la sponsorizzazione della nazionale italiana ad Esselunga  si è dimostrata una scelta azzeccata visti, tra  altro,  i deludenti risultati della nostra squadra. Così come lo stesso “strappo” sul rinnovo del CCNL, fondamentale per provocare un’accelerazione al negoziato.

E così dopo le scarpe e i maglioni natalizi Lidl lancia un’iniziativa il cui ricavato sarà interamente devoluto ad un ente benefico per l’infanzia inglese. La National Society for the Prevention of Cruelty to Children, nata originariamente come Liverpool Society for the Prevention of Cruelty to Children nel 1883. La loro lotta ha portato alla creazione delle prime leggi a tutela dell’infanzia nel Regno Unito diventando un punto di riferimento imprescindibile nella protezione dei più piccoli nell’area britannica. Leggi tutto “Lidl. Una borsa cornetto. Come far parlare di sé a fin di bene…”

Adam. L’AI serve il caffè al bar. Per ora da Walmart..

Personalmente pensavo fosse il the, dopo l’acqua, la bevanda più consumata al mondo. Ho da poco scoperto che è il caffè. Solamente l’Italia ne importa ben circa 2 miliardi a valore all’anno. Alcune recenti statistiche dimostrano come la famiglia italiana consumi annualmente circa 38/40 kg di caffè. In testa, come principale consumatore di caffè, c’è  il nord Europa. I termini di fatturato annuo: 6,6 miliardi di euro. È il valore di tutti i caffè espressi che sono venduti nei bar d’Italia ogni 365 giorni. La cifra viene riportata da uno studio de “Il sole 24ore”. Lo studio entra più nel dettaglio, riportando come i 149.000 bar sparsi per l’Italia servono in media 175 tazzine di caffè per ogni giorno (il conteggio è stato realizzato escludendo un giorno alla settimana, considerato di chiusura).

Naturalmente il numero di espressi serviti in una giornata varia di parecchio a seconda della tipologia di bar. Nielsen ha evidenziato come in Italia non si possa proprio fare a meno del caffè, evidenziando come ogni italiano beva ogni giorno 1,5 tazzine di caffè espresso e come l’80% degli italiani non sappia rinunciare a questo piacere. Il caffè dei brand italiani è importato anche in Francia, Germania, USA, Austria e Russia. Analizzando il consumo di caffè a livello mondiale il primo posto spetta agli USA con 400 milioni di tazze di caffè consumate ogni giorno, anche se sono molto diverse dalla tazzina di espresso consumata al bar a cui siamo abituati. Per fare un espresso o un cappuccino servono 7 grammi di caffè, quindi, con un chilo di caffè e calcolando gli sprechi  si fanno 130 tazzine. E presto la tazzina costerà 2 euro. Una discreta  fetta del fatturato totale del bar dell’angolo. (Dati elaborati dall’Ufficio studi della Federazione italiana pubblici esercizi). Va però poi considerato che il maggior costo di un bar è il personale. E quindi l’innovazione tecnologica e organizzativa è destinata a battere lì. 

E così mentre i portoghesi superano gli israeliani e la stessa Amazon Go sulle casse automatiche e, in Italia, Esselunga schiera il suo “cobot” in grado di comporre e proporre assortimenti di insalate e simili in tempo reale a Mind, Walmart consente una  sperimentazione ai suoi franchisee Ghost Kitchen/One Kitchen di cibo in-store presenti nei Pdv. Richtech Robotics Inc., un’azienda del Nevada fornitrice di robot basati sull’intelligenza artificiale, ha annunciato l’installazione del suo avanzato sistema robotico per bevande, ADAM, presso Ghost Kitchens International Inc. (“Ghost Kitchens”) a Dawsonville, GA. Ghost Kitchens ha un modello di business distintivo e innovativo che coinvolge marchi di ristoranti nazionali e locali che non hanno una sede propria ma utilizzano un’unica cucina per cucinare per il mercato locale e delle consegne a domicilio. Le cucine in stile “Ghost” stanno consolidando il loro posto nel panorama alimentare, fornendo fino all’8,3% delle vendite dei ristoranti negli Stati Uniti. Leggi tutto “Adam. L’AI serve il caffè al bar. Per ora da Walmart..”

L’inflazione cala ma i prezzi non scendono e pochi si accorgono che il clima è cambiato..

La GDO italiana l’ha svangata a suo tempo con il cosiddetto “patto anti inflazione”. Il conto del “caro carrello”, che comunque è stato salato, lo hanno pagato in contanti i consumatori (e, in parte,  volumi di vendita della GDO). Le responsabilità sono state recapitate, dalla politica, ad un altro indirizzo. Il problema sembrava ormai alla spalle. Non è così. Skrinflation e greedflation hanno  accompagnato la riduzione dell’inflazione confondendo i consumatori e lasciando loro la convinzione che in molti ci hanno marciato e ci stanno ancora marciando. E il problema è tutt’altro che archiviato. Non solo da noi.

La Food Industry Association è intervenuta duramente in risposta a Kamala Harris appena incoronata alla convention di Chicago come candidata del Partito Democratico. La sua Presidente Leslie G. Sarasin ha dichiarato: “ È l’inflazione, non certo nostre presunte speculazioni sui prezzi, che ha causato aumenti dei prezzi tra i beni di consumo”. E ha aggiunto che le discussioni sui prezzi degli generi alimentari dovrebbero “rimanere radicate alla  realtà e ai dati, piuttosto che oggetto di  speculazione  politica”.

Kamala Harris ha presentato un programma economico definito «aggressivamente populista» dal Washington Post. L’economia e l’inflazione sono priorità per i cittadini americani. Harris incolpa gli imprenditori e i retailer di ricercare profitti scaricandoli sui portafogli dei consumatori e del reddito degli agricoltori. Il cosiddetto price gouging. Se eletta, ordinerà alla Federal Trade Commission di lavorare con i procuratori generali degli Stati per perseguire speculatori di ogni genere, comprese le catene di supermercati e le grandi aziende agroalimentari che controllano le forniture alimentari. Kamala Harris vuole che l’agenzia si concentri sull’arresto dei prezzi alle stelle della carne, la cui produzione  (manzo, pollo, tacchino e maiale) è controllata da poche aziende. Farà anche in modo che la FTC combatta le mega-fusioni e acquisizioni che limitano la concorrenza.

A febbraio, la FTC si è formalmente opposta alla mega-fusione di due tra le più grandi catene di supermercati del paese, Kroger e Albertson’s, tra gli applausi della National Consumers League e della United Food and Commercial Workers, che annovera tra i suoi membri lavoratori del settore alimentare, addetti alla lavorazione della carne e lavoratori degli allevamenti intensivi di pollame. La FTC si è anche rivolta al tribunale per bloccare l’accordo da 24,6 miliardi di dollari, che secondo l’agenzia riduce la concorrenza per i consumatori e i posti di lavoro per i lavoratori. Le udienze della corte federale su tale causa inizieranno il 26 agosto a Portland, Oregon. Leggi tutto “L’inflazione cala ma i prezzi non scendono e pochi si accorgono che il clima è cambiato..”

I top manager USA (e non solo) preferiscono la scrivania…

Secondo Reid Hoffman, co-fondatore di LinkedIn l’orario di lavoro tradizionale dalle 9 alle 17 potrebbe diventare obsoleto entro il  2034 (https://bit.ly/3XegGYz). Questa sua previsione è basata su una serie di valutazioni dei fattori tecnologici e culturali che stanno trasformando il panorama del lavoro. Per ora più di una previsione la definirei una profezia che prefigura uno scenario tutt’altro che rassicurante. Il tira e molla planetario sullo smart working ne è un esempio evidente. Il caso più recente coinvolge addirittura Walmart negli USA. L’azienda continuerà a consentire al personale di lavorare da remoto, purché sia in ufficio per la maggior parte del tempo. E questo sta succedendo un po’ dappertutto, nelle grandi aziende americane e non solo.

Il messaggio  esplicito che accompagna questa decisione è di una chiarezza estrema. Se il lavoro può essere svolto da remoto tanto varrebbe trasferirlo in India o altrove dove costa meno. Un messaggio che non si presta ad interpretazioni. In apparente contraddizione Walmart mette sul piatto un investimento di  oltre 1 miliardo di dollari nella costruzione di un campus all’avanguardia presso la sua sede di Bentonville, in Arkansas, per rendere il lavoro il più piacevole possibile. Ovviamente l’approccio dell’azienda guarda al contesto.

Walmart sta affrontando un ambiente competitivo incredibilmente impegnativo. L’azienda di Betonville ha di fronte diverse  sfide. Innanzitutto difendere la sua leadership. Amazon, Kroger e ALDI USA stanno cercando di aumentare la loro quota di mercato. Addirittura Temu e TikTok, potrebbero entrare anche loro nel mercato del food. In secondo luogo servono ingenti investimenti sul versante della tecnologia.  L’intelligenza artificiale, la robotica, la logistica autonoma e l’evasione automatizzata degli ordini in negozio sono la nuova realtà con cui confrontarsi. Walmart ha quindi deciso che le priorità impongono ai dipendenti di ritornare in ufficio. Compresi i lavoratori dei piccoli uffici incentrati sulla tecnologia a Dallas, Atlanta e Toronto a cui viene chiesto di trasferirsi in altri hub centrali come nella sede centrale di Bentonville, Arkansas, così come Hoboken, New Jersey e la California settentrionale.

Secondo i sostenitori di questa decisione  l’azienda si deve concentrare su sé stessa e sui clienti. Il lavoro da remoto non è ritenuto compatibile con la sua cultura organizzativa e manageriale. Walmart si sente  in “guerra”  e “pretende” una sintonia totale intorno al suo modello di impresa. Il ridimensionamento dello smart working o meglio, del remote working, sta però lasciando il segno. Non solo negli USA. Chi ha sentenziato troppo rapidamente sul  tramonto del concetto di  luogo di lavoro, di possibile  superamento del tempo e degli spazi tradizionali, visto lo scenario innescato dalla pandemia ha però lavorato di fantasia. La realtà si è rivelata molto più banale. La stragrande maggioranza delle aziende e dei top manager non erano e non sono  preparati a questo cambio, che è innanzitutto  culturale. Leggi tutto “I top manager USA (e non solo) preferiscono la scrivania…”

Couche Tard ritorna in campo e prova ad acquisire Seven Eleven

Le grandi fusioni preoccupano ovunque Governi e politica. Kamala Harris la candidata democratica alle prossime elezioni di novembre negli USA non solo ha incolpato gli imprenditori e i retailer di ricercare profitti anche a costo dei portafogli dei consumatori e del reddito degli agricoltori ma nel suo programma vuole che la Federal Trade Commission combatta le mega-fusioni e acquisizioni che, a suo dire,  limitano la concorrenza. A febbraio 2024, la FTC si è formalmente opposta alla mega-fusione di due delle più grandi catene di supermercati del paese, Kroger e Albertson’s, tra gli applausi della National Consumers League e della United Food and Commercial Workers, che annovera tra i suoi membri lavoratori del settore alimentare, addetti alla lavorazione della carne e lavoratori degli allevamenti intensivi di pollame.

Nel frattempo le operazioni vanno avanti. Mars ha dato il via all’acquisizione Kellanova (https://bit.ly/3WL3vwz) e in questi giorni i canadesi di Alimentation Couche Tard tramite Circle K si sono fatti avanti per conquistare la catena concorrente Seven Eleven, nata in America ma, dal 1999, controllata da una holding giapponese, con un’offerta “riservata, non vincolante e preliminare” di 31 miliardi di dollari.  Seven Eleven gestisce oltre 85.000 negozi in tutto il mondo. Alimentation Couche-Tard  oltre 16.700 in 31 paesi. I dettagli della proposta  non sono stati divulgati.

In risposta, Seven & I ha dichiarato  che il suo consiglio di amministrazione ha formato un comitato speciale per condurre una “revisione rapida, attenta e completa” della proposta. “Né il consiglio di amministrazione né il comitato speciale hanno preso alcuna decisione in questo momento per accettare o respingere la proposta di ACT, per avviare discussioni con ACT o per perseguire qualsiasi transazione alternativa”, ha scritto la società in una dichiarazione pubblicata online. L’azienda ha affermato di essere concentrata sul raggiungimento di una transazione “reciprocamente accettabile” che andrebbe a vantaggio dei clienti, dei dipendenti, dei franchisee e degli azionisti di entrambe le aziende. “Non vi è alcuna certezza in questa fase che si raggiungerà un accordo o una transazione”, ha scritto la società, aggiungendo che per ora non saranno rilasciate ulteriori dichiarazioni sulle discussioni in corso. ACT ha già tentato di acquistare Seven & i Holdings in passato: il quotidiano giapponese The Nikkei ha riferito che la società canadese aveva contattato l’operatore giapponese 7-Eleven per un’acquisizione già nel 2020.

Da noi Couche Tard è un nome che dice poco o nulla. Predilige, di fatto, un formato  di prossimità, mini market con un numero di prodotti limitato. Aperti fino a tardi e, in genere, parte delle stazioni di servizio (una specie  di Autogrill sui generis). Basti ricordare che oltre il 70% delle loro vendite in Quebèc è rappresentato dal carburante, motivo quest’ultimo, per comprendere la ragione di questi tentativi di  diversificazione del business. Il petrolio rappresenta circa il 70% del fatturato e il 40% dei margini della realtà canadese che quindi sa bene che, il suo, è un business che rischia di trasformarsi in un futuro non troppo lontano in un handicap, anche per l’avanzare dell’elettrico. Per questo cerca di anticipare i cambiamenti necessari e far evolvere il proprio modello di business. Leggi tutto “Couche Tard ritorna in campo e prova ad acquisire Seven Eleven”

Grande Distribuzione. Aumentano i punti vendita, diminuiscono i consumi alimentari

Chi più chi meno,  siamo circondati da punti vendita di ogni tipo. Se prendiamo ciò che è emerso nell’ambito del progetto Urban Pulse 15 del Centro studi delle Camere di Commercio Guglielmo Tagliacarne, in collaborazione con Il Sole 24 Ore il 39% dei cittadini italiani ha già oggi punti vendita di alimentari sotto casa. Sia della GDO (iper e supermercati, discount e minimarket) che del piccolo commercio al dettaglio (panifici, macellerie, pescherie, fruttivendoli, e così via). Ad aggiudicarsi la classifica delle città che hanno la possibilità di raggiungere un punto vendita alimentare a piedi, è il Mezzogiorno con ben 14 città tra le prime venti. Le più lontane dall’obiettivo sono invece Belluno, Rieti, Udine e Treviso, dove solo 1 cittadino su 4 può raggiungere a piedi il supermercato.

C’è quindi ancora spazio di resistenza per il piccolo commercio e per la prossimità GDO, franchisee, discount, ecc. e contemporaneamente la necessità di ripensare i punti vendita più grandi al di fuori di quel raggio. Mentre gli esperti continuano a riflettere sui tradizionali  formati distributivi e le loro peculiarità il consumatore va dove gli conviene. E se può risparmiare sulla spesa,  sul tempo per gli acquisti  e sulla benzina, lo fa volentieri. C’è però, come sostiene Andrea Meneghini, in atto un cambio definitivo del concetto di vicinato, e questo cambio passa soprattutto per un travaso del fatturato da un cluster all’altro. Nel caso della Grande distribuzione, ovvero iper e supermercati, discount e minimarket è Torino a detenere la percentuale maggiore di residenti (80,8%) servita da un supermercato entro i 15 minuti. Segue Milano (75,9%), Pescara (75,5%) e Livorno (71%). Diverso è però il rapporto tra centri città e hinterland delle stesse. La grande distribuzione vince nelle aree metropolitane, mentre il commercio al dettaglio si piazza meglio nelle aree extraurbane e soprattutto nel Sud.

“Contano anche le abitudini di consumo differenti – afferma Gaetano Fausto Esposito, direttore generale del Centro studi Tagliacarne – al Sud si predilige il negozio sotto casa e il rapporto con il negoziante, a cui viene chiesto di conservare il prodotto prescelto o di portarlo a casa. Un tipo di rapporto che, in un Paese che invecchia, sarà (forse) sempre più importante coltivare in futuro, ovunque”. Se la distribuzione alimentare svela una predominanza delle città del Sud, analizzando la situazione dal punto di vista dei servizi di pubblica utilità (scuole, ospedali e servizi di mobilità), il primato torna al Nord. Quindi il modello della “Città a 15 minuti” coniato dallo scienziato franco-colombiano Carlos Moreno, obiettivo di molti sindaci italiani di grandi città, per il commercio, non sarebbe particolarmente complesso da raggiungere. In buona sostanza, quasi ci siamo già.

Al di là dei giudizi sulla vivibilità delle realtà che vantano il primato un dato è certo: in alcune aree c’è una eccessiva sovrapposizione, in altre il piccolo commercio presenta i suoi limiti generazionali e le sue difficoltà di prospettiva ma regge, in altre ancora, i limiti strutturali dei formati maggiori e i luoghi dedicati allo shopping e all’intrattenimento  rischiano l’obsolescenza se non ripensati rapidamente. È così mentre Coldiretti, Confagricoltura e Confindustria (Union food)  si accapigliano su chi può vantare la rappresentanza della dieta mediterranea nel mondo, Confcommercio, l’altra grande delle big four  dell’associazionismo datoriale ci racconta che i consumi alimentari nazionali sono a dieta. E non da oggi. La tendenza al contenimento degli acquisti di prodotti legati all’alimentazione domestica copre un intero trentennio oggetto dello studio  e, semmai, si accentua, nel 2024. Leggi tutto “Grande Distribuzione. Aumentano i punti vendita, diminuiscono i consumi alimentari”

Mars punta alla crescita e acquisisce Kellanova.

C’è sicuramente un dato di complementarietà di business nella decisione. Non è però solo questo. Ma procediamo con ordine. Mars, produttore di M&M’s, sta acquistando Kellanova, il produttore di Cheez-Its e Pop-Tarts, per quasi 30 miliardi di dollari, ampliando notevolmente il numero di marchi posseduti. L’acquisizione fa parte del piano di espansione di Mars, che aveva annunciato l’intenzione di raddoppiare nel prossimo decennio il suo portafoglio, che comprende già 15 marchi, a cui ora si aggiungono brand come Pringles, Kellogg’s, Cheez-It, Pop-Tarts, Rice Krispies Treats e NutriGrain.

Con questa operazione, Mars assorbe un gruppo capace di registrare nel 2023 vendite nette per oltre 13 miliardi di dollari, con una presenza in 180 mercati e circa 23mila dipendenti. L’acquisizione amplia la portata di Mars nella categoria degli snack salati. Un business interessante. L’azienda possiede marchi come Combos e Uncle Ben’s, ma è principalmente nota per i suoi cioccolatini, caramelle e cibo per animali. Mars ha, tra i suoi prodotti M & M’s, Lifesavers, gomme da masticare Juicy Fruit e Skittles, oltre a cibi per animali Pedigree e Royal Canin. Le vendite di alcuni di questi prodotti, come la gomma da masticare, sono calate fortemente negli ultimi anni, mentre gli snack sono cambiati e  crescono.

Mars è cresciuta costantemente attraverso acquisizioni. È entrata nel settore degli alimenti per animali domestici nel 1935 con l’acquisto di un marchio di cibo per cani del Regno Unito e ha acquistato il marchio di gelati Dove nel 1986. Nel 2008, ha acquistato il business delle gomme da masticare Wrigley per 23 miliardi di dollari.  Mars è considerata una delle più grandi aziende produttrici di dolci e alimenti per animali domestici al mondo. Nelle sue attività di petcare, snacking e food, la società ha registrato, solo nel 2023, vendite nette per oltre 50 miliardi di dollari.

Con un patrimonio di 117 miliardi di dollari (dato aggiornato al 2 agosto 2024), la famiglia Mars risulta la seconda più ricca d’America, dietro solo ai Walton (Walmart) con un patrimonio di 267 miliardi di dollari. L’acquisto di Kellanova da parte di Mars dovrebbe concludersi nella prima metà del prossimo anno. Una volta completato, Kellanova diventerà parte di Mars Snacking. La sede centrale aziendale rimarrà a Chicago. Mars, con sede a McLean, Virginia, è una delle più grandi aziende private degli Stati Uniti. Leggi tutto “Mars punta alla crescita e acquisisce Kellanova.”

Il contributo della grande distribuzione a sostegno delle fasce più deboli

C’è una parte del mondo industriale che non si è limitata a banalizzare  il cigolante ”carrello anti inflazione” contestandone l’utilità ma, di fronte al perdurare dell’inflazione, ha deciso di aggirare l’ostacolo a proprio vantaggio.  Era chiaro che l’intervento del Governo e delle Associazioni che ne hanno condiviso la finalità non poteva essere risolutivo per un problema che ha origini ben più complesse ma l’obiettivo politico era comunque importante: segnalare all’opinione pubblica una preoccupazione comune, un impegno e una volontà condivisa.  Tra l’altro iniziative analoghe sono state messe in atto in altri Paesi europei.

Aggiungo che, per la GDO, era l’occasione di smarcarsi dalle accuse di essere, essa stessa, causa del problema e non possibile parte della soluzione. In realtà, chi non ha sottoscritto il patto, sapeva benissimo che, consumatori a parte, l’inflazione avrebbe potuto portare  vantaggi immediati ai conti delle imprese. E così sono state messe in atto altre due strategie che miravano a contenere la reazione dei consumatori traendone  il massimo vantaggio possibile in una condizione oggettivamente complessa. La descrivono bene due brutti termini inglesi: shrinkflation e greedflation.

La prima, banalmente punta a ridurre la quantità o qualità di un prodotto nella confezione senza che il suo prezzo però venga ritoccato. Il vantaggio supposto, da chi lo mette in pratica,  è che i clienti faticano a percepirne l’effetto. La seconda, detta greedflation, si basa sul banale aumento dei prezzi non necessariamente giustificati dall’inflazione. I consumatori tendono comunque a subirlo perché il clima determinato dagli aumenti dei prezzi in generale lo rende credibile. Semmai ripiegando su sostitutivi (vedi discount e MDD).

La morale di questa vicenda, lo sottolineo per chi è convinto che, passata la nottata, per la spesa quotidiana tutto tenderà a ritornare come prima, è che, non sarà affatto così.  L’uscita dalla pandemia, l’inflazione, le preoccupazioni per il contesto stanno agendo da acceleratore, modificando le abitudini di spesa e i consumi degli italiani. Aggiungo che l’inflazione, i suoi effetti sulla spesa delle famiglie e sulle scelte   dei consumatori, proprio grazie ai i comportamenti dei soggetti in campo, si sono inevitabilmente trasformati in uno grande spot a favore di discount e marca del distributore.  Un sostanziale autogol per l’industria di marca.

Banalizzato  il carrello tricolore, aumentati i prezzi e sgrammati i prodotti siamo arrivati ad oggi. Due dati su cui riflettere. Il primo è che sul tema della shrinkflation, nella GDO si è mossa con forza Carrefour  France e pochi altri. La maggioranza delle insegne ha preferito abbozzare per non sollecitare reazioni  da parte dell’industria di marca spingendola ad aumentare i prezzi e provocando così un danno ulteriore. Il secondo dato è che, attraverso  la greedflation, molte imprese hanno aggiustato i bilanci 2023.

Pochi lo hanno sottolineato, a parte la GDO, che pur protestando con i fornitori ha tentato di resistere in parte assorbendone i costi. ”Se non puoi convincerli (i consumatori), almeno confondili”, parafrasando la legge di Truman, sembra essere stata la tattica adottata da una parte dell’industria di marca e su chi l’ha seguita. Purtroppo a danno delle famiglie  e, di fatto, pure dei volumi di vendita delle insegne della GDO. Il Consiglio dei ministri, in ritardo  e con i “buoi ormai usciti dalla stalla”, ha  approvato il disegno di legge annuale per il Mercato e la Concorrenza introducendo una misura di contrasto al fenomeno della cosiddetta “shrinkflation” prevedendo  un obbligo di informazione a favore del consumatore attraverso l’apposizione di una specifica etichetta nel prodotto esposto. Leggi tutto “Il contributo della grande distribuzione a sostegno delle fasce più deboli”