L’insostenibile leggerezza delle discussioni sul Jobs Act…

Un milione… il suocero di Bellavista, interpretato da Aldo Tarantino in quel film memorabile dedicato alla grandezza della napoletanità si svegliava dal suo torpore solo quando qualcuno intorno a lui pronunciava quel numero. “Un milione…” poi ritornava in trance.

Nel 1917 la penna di Sergio Tofano disegnava, per il Corriere dei Piccoli “il signor Buonaventura” anche lui alla ricerca del “Milione”. Un milione. Un numero indiscutibile utilizzato per certificare un successo.

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Grande Distribuzione. Un riposizionamento sempre più necessario

Non si può dire che in tutti questi anni di “marcia in solitaria” e di sovraesposizione delle ragioni della Grande Distribuzione il comparto ne abbia tratto beneficio.

I nuovi insediamenti sono sotto tiro dalle amministrazioni locali, le aperture festive e le rimodulazioni degli orari vengono sempre più contestati mentre la concorrenza della rete h24 saccheggia vendite e margini.

Sul piano sociale l’immagine di lavoro povero e sotto pagato cresce nella opinione pubblica e l’incapacità di rinnovare un contratto su misura ha segnato un declino che sembra inarrestabile.

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Nel Paese dei disuguali di Dario Di Vico

Quello che abbiamo lasciato alle spalle è noto ma è difficile intravedere ciò che ci aspetta. Viviamo una transizione dove il 900 con le sue aspettative e le sue “conquiste” sembra sbriciolarsi sotto i nostri occhi.

Tra ascensori sociali che si sono delocalizzati, corpi intermedi in affanno, classe operaia stretta tra élite 4.0 e neo lumpenproletariat, la società post industriale nella globalizzazione si delinea e produce nuove opportunità ma anche nuove disuguaglianze.

Spesso gli osservatori, vecchi e nuovi, con la loro Polaroid d’antan faticano a raccontare la realtà perché la velocità del cambiamento del contesto è maggiore della velocità con cui le persone e le organizzazioni tradizionali sembrano in grado di reagire e adattarsi al nuovo che avanza. Nascono nuovi attori mentre, inevitabilmente, ne soccombono altri.

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Arginare il dumping e la proliferazione dei contratti si deve e si può.

Il 26 settembre Confcommercio con Filcams CGIL, Fisascat CISL e Uiltucs UIL hanno sottoscritto un accordo integrativo del contratto nazionale in essere che ne ribadisce la centralità, fissa una nuova data, al marzo del 2018, della tranche di 16 euro sospesa nel novembre del 2016 e proroga la data di scadenza dello stesso al 31 luglio 2018.

Già questo, di per sé, rappresenterebbe un passaggio importante, unico nel suo genere, di capacità di governo di un contratto nazionale utilizzato per qualche milione di lavoratori.

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BIG. Giovani e manager, uniti si vince…

“Uniti si vince”. Uno slogan sessantottino sempre valido. Esprime una verità inoppugnabile e cioè che solo insieme si può affrontare e superare un ostacolo, una difficoltà superiore alle forze di una singola persona.

Lo stesso dibattito in corso sull’alternanza ha rilanciato anch’esso il tema della collaborazione, della necessità di una visione comune, tra mondo della scuola e mondo aziendale.

Purtroppo ha messo la sordina ad un altro problema altrettanto importante: il ruolo e il contributo che i giovani possono portare nelle nostre aziende. Soprattutto quei giovani, e sono tanti, che vogliono darsi da fare.

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Alternanza scuola lavoro. Operaio sarà lei!!!

“Siamo studenti, non siamo operai” è uno slogan pessimo e quindi ha fatto bene Marco Bentivogli a prenderne le distanze immediatamente dopo la conclusione delle manifestazioni contro l’alternanza scuola lavoro.

Dario Di Vico oggi sul Corriere sostiene, a ragione, che negli anni 70 molti giovani vedevano al contrario, proprio negli operai, un punto di riferimento della loro voglia di cambiamento.

Tanta acqua è passata sotto i ponti da allora e molti di quegli operai oggi hanno i loro nipoti che, partecipando e condividendo gli slogan di queste manifestazioni, ne rifiutano lo stile di vita, sentono lontano e ostile quel mondo che le generazioni precedenti hanno costruito, hanno un’idea del lavoro lontana anni luce dalla realtà.

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ILVA un inizio per certi versi sconcertante…

Ci sono aspetti nella vicenda ILVA che appaiono indubbiamente sconcertanti per chi, interessato, osserva da fuori. Il dibattito sembra concentrato su due punti: il numero degli esuberi e le condizioni di ripartenza per chi resta.

La strategicità o meno di quelle produzioni per il nostro Paese, Il piano industriale, la ricaduta sulle attività economiche legate all’ILVA (forniture e servizi) , gli aspetti ambientali in termini qualitativi e temporali, gli investimenti per riqualificare siti e persone, restano ancora sullo sfondo.

“Nessuno sarà lasciato a casa” è il mantra adottato. Un messaggio già poco rassicurante per chi lavora in quelle fabbriche figuriamoci per chi vive e lavora grazie a quelle fabbriche.

Un altro dato sconcertante è che molti dei soggetti in campo si sovrappongono al sindacato. La politica, perennemente in campagna elettorale, ma anche alcuni esponenti del Governo che, in questo modo, rischiano di abdicare ad un ruolo indispensabile di mediazione che sarà comunque necessario per chiudere una vicenda così complessa.

AM InvestCo ha le idee chiare. Nel forum sui trasporti di Confcommercio a Cernobbio il CEO Europe Aditya Mittal non si è nascosto dietro un dito. Ha sottolineato le potenzialità dell’azienda, l’equilibrio da individuare con tutti gli stakeholder e le comunità coinvolte, la volontà di andare fino in fondo.

La trattativa è sicuramente partita con il piede sbagliato ma una cosa appare chiara: i potenziali acquirenti non hanno l’anello al naso. Né sono disponibili a perdersi dentro le fumisticherie della politica nostrana.

Se equivoco c’è stato, il Ministro Calenda ha fatto bene a tenere il punto e ad evitare un confronto con i sindacati che avrebbe solo fatto esacerbare ulteriormente gli animi. Il confronto adesso può ripartire senza pregiudiziali. Né sui numeri, né sulle condizioni di ripartenza.

La priorità va data al piano industriale e alla sua credibilità in un contesto globalizzato. Ai tempi di implementazione, agli investimenti necessari sugli impianti e sulle risorse umane, alle ricadute sull’indotto e sui servizi.

Parallelamente dovrebbe svilupparsi un confronto con il Governo sulle attività che impegneranno gli esuberi, la loro riqualificazione e il loro reddito. E quindi le garanzie sull’ambiente e il contesto perché tutto si tiene.

Il sindacato ha davanti un compito molto difficile. Deve, come sempre, saper “guardare l’albero, immaginando la foresta”, capire la consistenza e l’affidabilità dell’interlocutore, individuare soluzioni che convincano i lavoratori coinvolti ma anche le comunità locali e tenere a bada le incursioni della politica.

Sicuramente ha nel Ministro Calenda un alleato importante. Non già per quello che è avvenuto nei giorni scorsi ma perché, a mio modesto parere, interpreta un ruolo nuovo moderno ed efficace di difesa degli interessi nazionali in un contesto globalizzato.

L’azienda, dal canto suo, deve decidere, su cosa giocare le sue carte e se, questo investimento, giustifica alcune mediazioni, comunque indispensabili. La partita è troppo importante.

Una cosa però è certa. Il negoziato avviene in un contesto dove tutti i soggetti seduti a quel tavolo hanno forza, credibilità e determinazione ad andare fino in fondo. Soprattutto il sindacato.

Dopo la firma del contratto dei metalmeccanici una prima prova decisiva di unità e di visione del futuro. Staremo a vedere.

ILVA. Un negoziato simbolico.

Ha regione chi dice che la vicenda ILVA (ArcelorMittal/Marcegaglia) parte con il piede sbagliato.

Forse figlia di una cultura che pensa che una drammatizzazione iniziale possa favorire ruolo e accordo sindacale ma che rischia di non aver capito il contesto nel quale questo negoziato si svilupperà.

Da un lato una fabbrica/città (seppure con altre sedi territoriali importanti), vittima di un paradosso inestricabile perché, così com’è, non si va da nessuna parte ma, senza quella azienda, non si arriva da nessuna parte, almeno per le prossime due generazioni. Una città che, oggi, non è solo l’ILVA, naturalmente, ma che non è assolutamente in grado di fare a meno dell’ILVA in termini di attività economiche, lavoro, e reddito disponibile.

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La contrattazione aziendale tra passato e futuro.

Come Direttore Risorse Umane non ho mai conosciuto un CEO che non vivesse con fastidio un incontro con i sindacati a qualsiasi livello. Se proveniente da un altro Paese e con ancora una scarsa conoscenza della lingua italiana, alla curiosità iniziale di sentirsi protagonista di un evento per certi aspetti straordinario, subentrava sempre la difficoltà di comprendere la necessità di un confronto con tre o più “estranei” su argomenti ritenuti, a suo parere, di esclusiva competenza aziendale. Lo stesso per molti imprenditori. Soprattutto di PMI. Ovviamente non nei convegni o nei confronti pubblici dove ha sempre dominato il “politicamente corretto”.

Per i sindacalisti è generalmente diverso. Ogni incontro è fonte di confronto, apprendimento e di stimolo ad entrare nel merito delle problematiche aziendali.

Ho sempre pensato che, pur nel rispetto di un rito novecentesco che prevede tempi e modalità standardizzati, parlarsi, confrontarsi su posizioni diverse è un esercizio utile e importante.

Un’azienda è  anche il “clima” che vi si respira.

E ho sempre ritenuto un errore considerare inutile un confronto costruttivo con un interlocutore che rappresenta un punto di vista spesso sottaciuto dalla gerarchia al vertice aziendale. Un punto di vista che se compreso e gestito per tempo può evitare errori di gestione delle risorse e quindi inutili ricadute negative sul business.

È indubbio che, parlando di luoghi del confronto, la contrattazione aziendale sembra rappresentare l’uovo di Colombo. Impresa e lavoro si parlano e si confrontano laddove si crea la ricchezza. Cosa ci può essere di più razionale? Quindi un contratto nazionale leggero e poi ciascuno libero di costruire, in ogni realtà, un proprio vestito su misura. Facile a dirsi, difficile a farsi, nel nostro Paese. La storia e i pregiudizi, pesano.

Nel secolo scorso erano sostanzialmente i sindacati ad avere l’iniziativa. La contrattazione aziendale, situata temporalmente tra un contratto nazionale e l’altro tentava di migliorarne il contenuto o di anticiparne, su alcuni temi, il rinnovo successivo.

Ha funzionato fino a quando le aziende, incalzate dai problemi di contesto, hanno preso coscienza della propria capacità di replicare sullo stesso terreno e hanno cominciato a “pretendere” contropartite che, via via, hanno messo in discussione il ruolo stesso del sindacato interno o esterno come interlocutori negoziali.

E cosi le tradizionali piattaforme sindacali hanno lasciato campo libero a vere e proprie “contro piattaforme” aziendali di segno opposto che hanno trasformato la contrattazione aziendale da “integrativa” in “concessiva” o addirittura “restitutiva” fino a perdere di significato in rapporto al vecchio modello sindacale che l’aveva generata.

L’elemento interessante su cui riflettere oggi è proprio costituito dalla fine sostanziale di quel modello rivendicativo che si basava, di fatto, sulla possibile sovrapposizione di due livelli (nazionale e aziendale) considerandoli aggiuntivi e non integrativi o, addirittura, alternativi.

Nelle PMI la contrattazione era (ed è) quasi esclusivamente di tipo collettivo (nazionale e territoriale a macchia di leopardo). Le medio grandi, al contrario, non si sono certo fermate in attesa della definizione di un ipotetico nuovo modello occupando, autonomamente, lo spazio lasciato libero. Attraverso approcci specifici, culture interne, gestioni personalizzate hanno assunto, ingaggiato, promosso iniziative dotandosi di sofisticate politiche di sviluppo individuali e collettive.

Hanno imparato a fare da sole disintermediando con le proprie organizzazioni datoriali e favorendo, di fatto, un’analoga disintermediazione dei singoli lavoratori con i loro sindacati.

Se non si parte da qui non si riesce a comprendere perché le aziende (imprenditori e manager) non sono disponibili a ripristinare un confronto ravvicinato  pur dinnanzi ad una rappresentazione nuova e positiva che oggi viene proposta dai media o dagli esperti esterni all’impresa.

Nel breve non c’è molto da dire; sta dominando la legge del pendolo che premia l’iniziativa aziendale e accentua l’emarginazione del sindacato. Detto questo credo però che, per le imprese, non sia, comunque, una politica lungimirante.

Da questo la mia convinzione che, oggi,  il contratto nazionale debba comunque mantenere una sua importanza (pur derogabile in ogni suo aspetto da accordi specifici) almeno fino a quando un meccanismo di dissolvenza concordato tra le parti consenta equilibri e luoghi di confronto differenti o integrativi.

Temo però che lo stesso, in futuro, sarà difficile mantenerlo nei rigidi confini categoriali che lo hanno delimitato nel novecento (soprattutto nel comparto industriale). Sia per quanto riguarda il welfare contrattuale dove le masse critiche saranno sempre più importanti, sia sui minimi nazionali e le normative dove le differenze tra settori tenderanno a scomparire. Così come sulle politiche attive e quindi sulla formazione.

La partita vera, credo, si giocherà inevitabilmente sulla futura struttura del salario perché saranno le quote della retribuzione imputate alla professionalità individuale, al contributo, sempre individuale, al risultato aziendale e al welfare che faranno la differenza da cui potrà discendere una nuova impostazione. Ed è in quel contesto che i livelli e i luoghi della contrattazione potranno trovare materie e ruoli concreti.

Tra l’altro, Gigi Petteni, segretario confederale CISL, ha aperto, se ho compreso correttamente, ad un modello dove potrebbe trovare spazio anche questo aspetto, pur all’interno di regole da definire. È un passaggio importante perché segnala che qualcosa si stia muovendo forse più concretamente che in passato. Staremo a vedere.

Decentrare la contrattazione? Il confronto continua…

Il recente intervento sul “Diario del Lavoro” di Gaetano Sateriale della CGIL è interessante perché prova ad esplicitare una ipotesi di strategia alternativa a quella proposta dal Presidente di Confindustria Vincenzo Boccia che, dal suo punto di vista, vede nell’azienda il luogo nuovo da costruire attraverso il cosiddetto “Patto di Fabbrica”.

Confindustria, checché se ne dica, non ha mai parlato di estendere ovunque la contrattazione aziendale ma, semmai, di valorizzarla laddove si manifesta o di renderla compatibile con un nuovo modello di contrattazione nazionale più leggero lasciando quindi maggiore libertà nelle singole imprese per muoversi su produttività e politiche retributive.

Recentemente il Governo Francese ha indicato una via che va in questa direzione e che ridisegna, di fatto, una nuova impostazione negoziale non più riconducibile a quella tradizionale. Un modello dove il sindacato, in sé, è meno presente e spinto inevitabilmente a ripensare ad un suo diverso posizionamento.

La contrattazione aziendale in Italia, come in Francia è assolutamente marginale e asimmetrica, soprattutto nelle PMI. Delle quote relative al nostro Paese (12,9% del totale, 17,9% nell’industria) citate forse in modo troppo ottimistico mell’articolo da Sateriale, occorrerebbe forse depurare tutto ciò che è strutturalmente “concessivo” o “restitutivo” e pesarne, a parte, la quota “promossa” motu proprio dal sindacato per valutare la dimensione e i contenuti di un possibile nuovo modello, in maniera più realistica.

Se a questo aggiungiamo che i recenti contratti nazionali sono stati rinnovati anche per una precisa volontà delle organizzazioni datoriali, il quadro che abbiamo di fronte presuppone una maggiore cautela nell’affrontare qualsivoglia cambiamento. E, soprattutto, che questo cambiamento non può prescindere dal contratto nazionale che pur messo in discussione da più parti mantiene una sua sostanziale validità.

Proporre un decentramento a livello territoriale può funzionare in settori omogenei e legati al territorio meno laddove la competizione, come ad esempio nel terziario, non è riconducibile ad una provincia omogenea. E ciò che è omogeneo per il lavoro potrebbe non esserlo per la competitività delle imprese.

Inoltre la politica salariale oggi è saldamente in mano alle imprese. Una delle difficoltà del sindacato nasce proprio dal non essersi mai “specializzato in rivendicazioni salariali” come ammette Sateriale. A mio modesto parere, soprattutto sul piano qualitativo.

Temi come il merito, l’impegno, la disponibilità, la crescita professionale sul piano individuale sono sempre stati tenuti a debita distanza dal sindacato e lasciati completamente in mano all’impresa che li ha, prima teorizzati e poi tradotti in autonoma gestione delle risorse con percorsi di crescita, politiche retributive precise, oggettive e non necessariamente discriminanti, e che oggi, con il tramonto del modello tayloristico di cui si nutriva la vecchia impostazione rivendicativa collettiva, spuntano le armi a chi non è in grado di affrontarne la portata pur con tutte le contraddizioni del caso.

Questa è un epoca di “totalismo aziendale” come l’ha definita il prof. Zamagni. Un mondo, quello delle imprese, che tende a chiudersi dentro una sua cultura e suoi valori specifici, che assume logiche proprie e scarta inevitabilmente tutto ciò che non è ritenuto compatibile. Un mondo sempre più a-sindacale e non necessariamente antisindacale.

Un mondo, cioè, dove il sindacato non riesce più ad interagire né influire concretamente. Un modello, quindi, impermeabile dall’esterno. Almeno fino a quando, come nella Silicon Valley non supera determinate soglie di accettabilità o provoca crisi di rigetto.

Confindustria, dal canto suo, insiste nel vedere nel “Patto di fabbrica” una possibile convergenza nuova tra lavoro e impresa. Una convergenza che, però, non lascia spazio al vecchio modello rivendicativo sindacale. Il punto sta qui. Luoghi e pesi tra contratto nazionale e altri livelli vengono  semmai dopo. Sono i contenuti e la cultura che li promuove e li sostiene che determineranno o meno il modello ecwuindi il luogo di confronto. Non viceversa.

Il contratto dei metalmeccanici ha stabilito alcuni importanti principi. Innanzitutto che la ricchezza va creata prima di decidere come distribuirla. Il secondo che welfare e formazione saranno sempre più pilastri fondamentali che marcheranno per lungo tempo i nuovi territori da percorrere.

Il terzo principio, purtroppo, mantiene un’area di persistente ambiguità. Ed è proprio quello relativo alla qualità e alla estensione del necessario decentramento negoziale. Il sindacato, dal suo punto di vista, lo considera parte delle intese e nella logica stessa del contratto nazionale appena firmato.

Marco Bentivogli ha sottolineato spesso che produttività, salario aziendale, formazione e inquadramento professionale possono trovare risposte concrete solo ad un livello aziendale esteso e esigibile. Per le imprese, al contrario, continua a rappresentare una possibilità da esercitare solo laddove esistono le condizioni. Un’ambiguità di fondo, se dovesse essere confermata, non di poco conto.

Quello che è certo è che il nuovo modello non sarà più un prodotto preconfezionato su vecchie logiche. Né un diritto acquisito che riproduce su altri tavoli i difetti della contrattazione nazionale di vecchio conio. E questo è un percorso che il negoziato aperto a livello confederale con Confindustria non ha ancora sufficientemente chiarito.

Personalmente temo che sia la riproposizione di un modello contrattuale superato seppure spostato più vicino al territorio dove l’impresa agisce che un altro che, di fatto, opera una insistente “disintermediazione” nei confronti del sindacato non siano lungimiranti.

La polarizzazione del mercato del lavoro, se non gestita, non promette nulla di buono nel medio lungo periodo. Le notizie che provengono dalla Silicon Valley e dal sottobosco della logistica nazionale sono lì a dimostrare che i modelli totalizzanti o basati es lesivamente sui rapporti di forza non hanno vita lunga e rischiano di produrre contraddizioni e reazioni a catena.