Tu chiamalo, se vuoi, welfare dei consumi…

Difficile trovare chi passi una o più domeniche a osservare i frequentatori di un outlet o di un centro commerciale. Pero sarebbe particolarmente istruttivo  per comprendere le dinamiche sociali.

Così come sarebbe interessante imparare ad osservare i comportamenti dei frequentatori, spesso i più anziani, di un supermercato quando entrano in un punto vendita con un volantino spiegazzato in mano frutto di attente comparazioni su cui sono evidenziati le promozioni.

E come si dirigono con grande determinazione al lineare dove il prodotto è esposto per acquistarlo. E poi, lasciato il primo supermercato, raggiungano il concorrente meno distante dove trovano in promozione un altro prodotto. E così per ore. Il CENSIS lo chiama in modo un po’ borghese il “welfare dei consumi”.

Per le fasce più deboli è, da molto tempo, uno dei tanti modi per far quadrare i conti. Nei paesi dell’est, prima della caduta del muro, era normale partire alla mattina con la borsa vuota e girare alla ricerca di prodotti a buon mercato.

Succede, oggi, anche da noi. La GDO è quindi anche un grande ammortizzatore. Prodotti a buon mercato, luoghi di relazione e mete di relax domenicale. Molti, però, non lo vogliono vedere. Tutti i tentativi di innovazione del marketing nella Grande Distribuzione si sono arrestati davanti al “volantino” e alle tradizionali “raccolte a punti”. Ci sarà un motivo.

Certo ci sono innovazioni. Anche importanti ma il prezzo, la promozione, lo sconto sono ancora elementi importantissimi per molti. Osservare come un pensionato o una massaia capiscono, appena varcata la soglia del supermercato, se quel mese l’insegna punta a fare fatturato o a difendere i margini è fantastico.

Nel primo caso entra e compra nel secondo esce e va altrove. Intercetta tutti i trucchi che i manager commerciali dell’azienda mettono in atto per nascondere le loro politiche. Le stesse insegne vanno spesso in missione dai concorrenti per carpirne e anticiparne le mosse. In una importante catena milanese la vicinanza alle date di scadenza veniva talmente tenuta sotto controllo dai dipendenti stessi per accaparrarsi la merce che sono stati costretti a chiudere alla vendita interna.

Non sono solo i consumatori a tenere sotto controllo le promozioni. Anche i dipendenti cercano di inserirsi. Poi ci sono i furti. O come si preferisce chiamarle: “le differenze inventariali”. Protagonisti clienti e dipendenti stessi. Il numero è altissimo ma si preferisce non parlarne.

Esiste un mondo particolare che ruota intorno e dentro i punti di vendita. I centri commerciali sono, da un certo punto di vista, mete sempre ambite. D’estate per l’aria condizionata, d’inverno per guardare negozi. Nella stagione dei saldi per comprare cercando, a tutti i costi, l’affare.

Negli outlet si affiancano diverse tipologie. Italiani in gita festiva e stranieri portati con il pullman a cui non ha alcun senso spiegare che alcune date sarebbero off limits per i sindacati perché non ritorneranno più una seconda volta.

L’indagine del censis proposta da Di Vico sul corriere (  http://bit.ly/2uLvcYo ) ci racconta anche di una parte del Paese costretto alla sobrietà per necessità, in perenne movimento per scelta, attrezzato per evitare i prodotti civetta che cercano di distrarlo per portarlo fuori strada.

Mi viene da pensare ai tassisti prima dell’uso del navigatore. Conoscevano le vie di Milano con una precisione incredibile. Lo stesso vale per il consumatore costretto alla sobrietà dallo scarso reddito.

Si orienta tra migliaia di referenze, Sa dove acquistare il fresco e il freschissimo migliore, così come la carne e il pesce. Sa dove andare e come orientarsi nei differenti punti di vendita. Conosce tutti i punti deboli e le strategie delle diverse insegne. Ne segue le mosse. Spesso le anticipa.

È vero. Tradisce immediatamente l’insegna al primo segnale di modifica della politica commerciale. Domeniche, festività e h24 non sono fissazioni dei manager delle catene. Fanno parte ormai delle dinamiche dei comportamenti di acquisto.

E c’entra poco indagare su cosa succede nel resto del mondo. In giro per punti di vendita alla ricerca di occasioni si va quando si ha tempo. E se il reddito disponibile non è quello tedesco o quello francese la scelta è obbligata.

La Grande Distribuzione è in evidenti difficoltà. I costi crescono, i margini sono difficili da incrementare, i modelli organizzativi sono radicati, l’innovazione è complessa. Addirittura lo è più di quella possibile per un piccolo esercizio commerciale. Dai discount ai centri commerciali passando dai negozi di vicinato agli outlet e agli specializzati tutte le catene sono impegnate quotidianamente per rispondere ad un consumatore che, è vero come ha confermato il Censis, è tutto meno che fedele.

Però non conosco nessuna insegna che non investa in formazione, sviluppo e crescita del personale più di ogni realtà analoga in altri settori ben più quotati. E che direttamente o indirettamente non cerchi di rispondere a questa popolazione in perenne cammino con risposte concrete e politiche specifiche.

E questo nonostante la crisi dei consumi e la difficoltà a raggiungere i propri obiettivi di vendita.

Puo esistere la fiducia in azienda?

È interessante la domanda che il professor Michele Tiraboschi ha posto a margine del dibattito scatenato dalla proposta delle associazioni dei medici di lasciare ai singoli lavoratori l’obbligo di autocertificazione dei primi tre giorni di malattia nella PA.

La stragrande maggioranza dei partecipanti alla survey si è dichiarata contraria. I medici, dal canto loro, preferiscono chiamarsi fuori anziché spingere il lavoratore a riflettere sull’effettiva necessità del ricorso alla malattia soprattutto in presenza di  una frequenza di richeste quantomeno sospette. 

La malattia breve è stata da sempre grande fonte di abusi nelle aziende pubbliche e private. In alcune realtà fuori controllo venivano chiamate ironicamente, dagli stessi lavoratori,  “ferie INPS” per sottolinearne la facilità di utilizzo. E sono stati motivo di grandi contenziosi con i medici e con gli uffici preposti ai controlli.

Nel terziario certi comportamenti tipici dei primi tre giorni di malattia hanno determinato la necessità di concordare un sanzionamento preciso nel contratto nazionale. 

Il tema della fiducia in azienda va quindi visto oltre l’utilizzo improprio di un diritto contrattuale o delle reazioni di diverso segno che provoca tra imprese e sindacati. Se non altro perché non si approderebbe a nulla. La domanda di Tiraboschi però va oltre i tre giorni di malattia.

Se il rapporto tra la gerarchia aziendale e il lavoratore resta quella del 900 fordista, con tutti i suoi controlli e le sue sanzioni, come è possibile parlare di smart working, lavoro ad obiettivi condivisi e prestazioni, anche a distanza, con risultati concreti e misurabili?

In questo senso è giusto chiedersi se può esistere la fiducia nella cultura aziendale. Se per fiducia intendiamo un generico affidamento che ha a che fare con l’esecuzione di un compito assegnato, di un progetto o di un obiettivo credo di sì. In genere è un affidamento sempre accompagnato da tempistiche, verifiche e controlli vari che consentono a chi deve gestire il rapporto di lavoro di avere sempre un riscontro sullo stato di avanzamento dell’impegno assegnato.

Un luogo di lavoro non determinato a priori può modificare la sostanza dell’affidamento? Credo di no. Non esistendo più, un indirizzo civico definibile del lavoro  questo determinerà inevitabili conseguenze in termini di orario (sostanzialmente auto-determinato), controlli (che diventano tecnologici e di risultato) e strumenti. L’affidamento non cambia sostanzialmente.

Anche perché il luogo di lavoro, fabbrica o ufficio, smetteranno di essere luoghi isolati ma diventeranno nodi del IoT. L’Internet di ogni cosa, in cui ognuno è un sensore che fornisce dati alla rete che collegherà persone, imprese, reti, enti pubblici, scuole. Temo che, al contrario di quello che si è portati a pensare, la tecnologia consentirà maggiori controlli sul lavoro, sulla produttività anche individuale, sia in presenza del collaboratore in un reparto o in un ufficio tradizionale che a migliaia di chilometri di distanza. Quindi il problema diventerà qual’è il livello legittimo di controllo potendo, potenzialmente, essere molto più opprimente e invasivo di oggi. E fatto magari da macchine e non necessariamente da persone.

Forse, per questo, è un errore confondere questo generico affidamento tipico di ogni organizzazione con un idea di fiducia vera e propria che resta altra cosa. Questa si, di difficile introduzione nella cultura aziendale. Al di là della legittima divergenza di interessi tra lavoratore e impresa altri problemi rendono difficile un rapporto totalmente trasparente.

Ad esempio un buyer della Grande Distribuzione può realizzare gli obiettivi assegnati in qualsiasi luogo con grande professionalità ma, per l’azienda, controllarne l’operato e la correttezza negoziale a 360 gradi resta fondamentale. E questo vale per molte attività dove il risultato è solo una variabile tra le tante.

Il limite nel dibattito di oggi è che rischiamo di concentrarci troppo sugli aspetti connessi alla maggiore libertà e fattibilità di esecuzione rispetto a ciò che sono le conoscenze attuali piuttosto che concentrarci sulle potenzialità trasformatrici della tecnologia in termini di qualità e sofisticazione, anche dei controlli stessi.

Personalmente credo che lo smart working renderà il lavoratore più produttivo e anche più responsabile. E anche l’azienda dovrà “rassegnarsi” ad una maggiore sensibilità. Questo contribuirà a creare un rapporto di lavoro più adulto, meno dipendente dalle paturnie dei capi ma, non per questo, meno controllato.

Lavoro agile e lavoro 4.0 in molte attività determineranno condivisione sugli obiettivi e maggiore autonomia consentendo forti aumenti di produttività individuale e collettiva non necessariamente collegata ad un miglioramento della qualità del lavoro. Sicuramente ad una maggiore complessità subordinata a continui aggiornamenti.

Stefano Venturi CEO di HP ci ricorda che “La prossima rivoluzione digitale avrà forme e dimensioni che fatichiamo ancora a concepire, ma di certo permeerà i nostri business e trasformerà il modo in cui lavoriamo e viviamo”.

Ha sicuramente ragione. Credo che su questo occorra concentrarsi per riuscire ad anticipare i fenomeni e a guidarli anche nell’interesse del mondo del lavoro e dell’impresa.

Luxottica e il totalismo aziendale

Fa bene Dario Di Vico a rilanciare il modello Luxottica. L’Italia del lavoro nero, dei contratti nazionali non firmati, dei licenziamenti via sms, dei furbetti del cartellino e degli scioperi del venerdì ha anche bisogno di campioni positivi.

E Luxottica è un campione positivo. Il voto molto alto (8,6 su di una scala da 1 a 10) nell’indagine interna, i cui risultati sono stati resi pubblici in questi giorni, lo testimonia. E Leonardo del Vecchio fa bene ad esserne orgoglioso.

È un welfare particolare, diverso da tutti gli altri. Innanzitutto è sinonimo di Luxottica. È la prima cosa che viene in mente quando si pensa a quell’azienda. Prima ancora della sua produzione per la quale quell’impresa è conosciuta in tutto il mondo.

Ed è sinonimo di un territorio, il Veneto, che mantiene, nonostante tutto, un livello di coesione sociale, di etica del lavoro e del fare impresa che ha la sua forza nella comunità che ne consente l’insediamento e lo sviluppo.

Luxottica non poteva nascere, e diventare ciò che è oggi, se fosse nata altrove. Leonardo del Vecchio ribadisce spesso che più che l’aspetto meramente economico e strumentale è il legame emozionale con l’azienda e il senso di comunità che genera a fare la differenza.

Ecco, Luxottica è l’espressione più positiva e territoriale di quello che il prof. Zamagni definisce “Totalismo aziendale” la capacità cioè di un’azienda di includere una leadership forte, valori che hanno le loro radici nel territorio, un consenso pressoché totale e risposte concrete ai bisogni.

La preoccupazione di Zamagni è che questa coesione sociale e questa identificazione nel leader, se generalizzata e priva di contrappesi mette però in discussione il concetto stesso di democrazia. Che non può fermarsi davanti ai cancelli di un’impresa come se fossimo nel secolo scorso.

Nel caso di Luxottica il “totalismo aziendale” lo troviamo nella sua accezione positiva e condivisibile, nella sua rappresentazione territoriale e sociale, meno nel caso di molte multinazionali dove, lo stesso, si materializza attraverso uno scambio asimmetrico che chiede adesione valoriale e culturale a prescindere in cambio “solo” dell’orgoglio di appartenenza.

Zamagni ci spinge a riflettere sulla (da lui ritenuta) pericolosità di questi modelli. Soprattutto sulla esclusione di contrappesi veri. Siamo di fronte ad una delega in bianco, ben riposta nel caso di Leonardo del Vecchio, ma nelle sue mani esclusive.

I sindacati, in queste realtà, suggeriscono, propongono, associano anche iscritti ma in una logica, però, assolutamente disintermediata e subalterna. L’azienda parla al singolo lavoratore, lo ascolta, lo gestisce. Al sindacato non resta che fare il verso alla direzione risorse umane.

È un modello che sta crescendo anche altrove nel nostro Paese. L’azienda si apre al mercato, al consumatore, al contesto esterno ma costruisce un sistema di valori, risposte e comportamenti chiuso al proprio interno. Chi li condivide, cresce. Ne beneficia in diversi modi, chi non li condivide è meglio che lasci.

Il sindacato, preso ad inseguire i problemi nelle imprese che collassano o che vengono rivoltate da riorganizzazioni, crisi e ristrutturazioni, non dedica abbastanza tempo e riflessioni nelle realtà che sono ormai oltre le “colonne d’Ercole”. Spesso le giustifica acriticamente.

La filosofia e la natura concreta del “patto di fabbrica” proposta dal Presidente di Confindustria sta tutta qui. Quali contrappesi possono giustificare una adesione ad un modello che rischia di chiudersi in sé stesso?

Ai corpi intermedi spetta trovare risposte praticabili. Ovviamente ci sono dei bilanciamenti possibili. Un antidoto è il welfare contrattuale e la contrattazione aziendale o territoriale. Il modello sostanzialmente proposto dai metalmeccanici. Di difficile attuazione però in altri comparti.

Un secondo antidoto è l’individuazione di forme di partecipazione concreta. Diretta, in azienda, in forme o modelli da definire o attraverso forme di bilateralità efficaci in grado di rispondere ai bisogni dei lavoratori e delle imprese. Fuori dall’azienda stessa.

In terzo luogo assumendo il mercato del lavoro (e non solo la singola azienda) come il luogo dove l’apprendimento e la formazione continua possono trovare le risposte necessarie al percorsi professionali delle imprese persone anticipando e supportando le inevitabili transizioni. Ben oltre, ad esempio, la logica attuale dei fondi interprofessionali.

Su questi temi la riflessione nei corpi intermedi è ancora carente. Una cosa però è chiara. Se il sistema non evolve verso un modello effettivamente improntato alla (vera) corresponsabilità ci troveremo inevitabilmente di fronte ad un bivio.

Da un lato le aziende che, potendoselo permettere, sviluppano al proprio interno condizioni favorevoli e condivise direttamente con i lavoratori come Luxottica. Disintermediando il rapporto con le rispettive rappresentanze.

Dall’altro aziende che, in forza, del loro appeal di marchio o di mercato o semplicemente per l’asimmetria nei rapporti di forza forzeranno verso modelli che escludono qualsiasi coinvolgimento positivo.

In mezzo, dove ci sono la stragrande maggioranza delle nostre imprese, il nulla.

Lo sciopero? Meglio abolirlo…

Durante e dopo uno sciopero dei trasporti al massimo si apre un dibattito. Chiacchiere. I giuslavoristi dicono cosa si potrebbe fare, si intervistano i cittadini infuriati, si mostrano le file interminabili in attesa di mezzi sostitutivi.

Tutti concordano che quello sciopero sarebbe stato meglio non farlo. Ma che nulla e nessuno lo avrebbe potuto impedire se indetto nel rispetto della legge.

Soprattutto se il sindacato promotore, pur insignificante, sul piano organizzativo ha ottenuto adesioni significative.

Sono esattamente 27 anni che ci si occupa del problema. Prima di quella data ci si accontentava dell’autoregolamentazione. Che naturalmente non funzionava.

Checché se ne pensi se il problema resta come aggirare il dettato costituzionale temo sia solo tempo perso. Con le leggi attuali il diritto di aderire o promuovere uno sciopero resta un diritto individuale.

Se il sindacato che lo indice riesce, ad esempio, a paralizzare i trasporti di una città o addirittura di un Paese significa che riesce a convincere i lavoratori ben oltre il proprio perimetro organizzativo.

E se lo promuove nel rispetto della legge c’è poco da fare. Ha ragione Marco Bentivogli “certi scioperi sono il miglior attacco al diritto di sciopero”. È così.

Nel 2017 siamo ancora qui. A chi non piace lo sciopero (comunque) diventa motivo di attacco ai sindacati. A tutti i sindacati. I sindacalisti seri, quelli che ne conoscono l’importanza, le conseguenze e il costo per i lavoratori non sanno bene che dire.

Personalmente credo che lo sciopero abbia fatto il suo tempo. Soprattutto da quando se ne sono impadroniti categorie privilegiate o altre che operano in mercati protetti, pubblici o parapubblici.

Lo sciopero dei bikers di Foodora al contrario ha suscitato solidarietà. Quel giorno almeno. Per come è concepito oggi, per come è indetto e gestito, lo sciopero procura danni economici essenzialmente a chi vi partecipa.

La retorica sindacale non lo ammetterà mai ma è così. I sindacati confederali, anche per questo, li indicono con grande parsimonia. Fare un passo in una nuova direzione significa individuare nuove regole per la risoluzione dei conflitti.

Non basta voler abolire gli scioperi. Occorre trovare risposte alle ragioni che li generano. Innanzitutto affrontando il nodo del peso dei sindacati certificandone la reale rappresentatività.

In secondo luogo prima della proclamazione andrebbe indetto un referendum. In terzo luogo la nuova regolamentazione dovrebbe tenere conto della avvenuta proliferazione delle sigle ben maggiore di quelle che, negli anni 90 hanno ispirato la legislazione in vigore. Infine occorrerebbe individuare forme di arbitrato che consentano di non far marcire i problemi e quindi di fornire alibi o strumentalizzazioni alle formazioni minoritarie. Definendo bene anche le materie di pertinenza.

Certo fra qualche giorno e fino al prossimo sciopero tutto sarà dimenticato. Per molti esperti della materia è la migliore soluzione. Parlare d’altro. È un grave errore. Oggi i mezzi pubblici li usano proprio le persone più deboli.

Lasciare che pensino che un autista dell’ATAC sia un nemico e come lasciargli pensare che anche un immigrato lo sia. È molto pericoloso.

A lungo andare non ci guadagna nessuno. Neanche la democrazia di cui la nostra Costituzione con l’articolo 40 è uno dei baluardi più importanti.

L’impresa e il lavoro 4.0 hanno ancora bisogno dell’inquadramento professionale? (2)

Fuori dalle aziende e dalla scuola c’è chi si sta addestrando, a sua insaputa, per il lavoro di domani. Sempre più ragazzini maneggiano tablet, smartphone e altri sofisticati aggeggi elettronici che li formano nell’utilizzo pratico delle nuove tecnologie, nell’accettarne interattività e vincoli e, soprattutto, li spingono a considerare il tempo messo a disposizione come una variabile assolutamente ininfluente.

Restare connessi è normale e scontato. Lo si fa per un obiettivo o uno scopo. Oppure per restare in attesa di obiettivi e scopi altrui. Spazio, tempo e distanza contano sempre meno. Conta la connessione. O c’è o non c’è.

L’azienda di domani, in parte, funzionerà anch’essa così. I più giovani non lo sanno ancora ma, più che digitali, stanno diventano compatibili. Tecnologia sofisticata e connessa che trasmette disposizioni, tempi di esecuzione, modalità applicative.

L’input, in questo contesto, può generarsi ovunque. Così come il controllo e le comunicazioni. Quindi, tre pilastri dei modelli contrattuali del 900, fordista e di quello attuale post fordista, verranno in parte (ovviamente non dappertutto) rimessi in discussione: il tempo, la distanza dalla gerarchia e dai colleghi, il posto di lavoro.

L’orario di lavoro, la sua retribuzione, il luogo dove la relazione con il capo e con i colleghi si manifestano, la distanza e le modalità da dove vengono impartiti criteri e disposizioni di lavoro potranno essere completamente stravolti.

L’azienda tenderà a chiudersi dentro un perimetro fisico e virtuale ben definito proponendo al suo interno valori, linguaggi, modalità di crescita, di comportamento e di coinvolgimento.

Pensare che, in questa situazione, possa restare inalterato o quasi il solo contenitore contrattuale mentre cambia il lavoro, le sue modalità e l’intero contesto relazionale spingerà inevitabilmente imprese e lavoratori a mettere in soffitta sia gli strumenti che i sostenitori degli stessi.

Innanzitutto perderà sempre più di significato la tipologia del lavoro. Tempo indeterminato, tempo determinato, professional, temporary, somministrato, ecc. sono termini destinati a trasformarsi in parole prive di significato concreto.

D’altra parte se viene meno il concetto di orario di lavoro tradizionale diventerà, al contrario, molto importante ciò che si realizza in quel tempo, la sua produttività e quindi il suo riconoscimento economico. Questo comporta che, oltre alla tipologia, anche il relativo inquadramento rischierà di perdere progressivamente di significato.

È il valore del lavoro richiesto ed effettuato, i suoi scostamenti da determinati standard (tutti da ridefinire) che costituiranno l’elemento centrale. Sopratutto se il luogo di lavoro non sarà identificabile in modo tradizionale. Ma anche colleghi e gerarchia potranno essere in più luoghi.

Già oggi buona parte della produzione, di ciò che costituiscono le diverse componenti del prodotto finale di un’azienda, vengono fatti fisicamente altrove. Decine di migliaia di aziende interagiscono tra di loro all’interno di filiere globali.

Fino ad ora, la globalizzazione ha consentito alle imprese di decentrare, delocalizzare e integrare il lavoro di cui avevano bisogno. Queste hanno “approfittato” del costo del lavoro altrui, non hanno ancora “stravolto” il lavoro in sé.

Stiamo entrando in una fase in cui la digitalizzazione e la tecnologia potranno consentire di farlo comprendendo anche forme di un lavoro volontario e semi gratuito che, già oggi, non viene percepito come tale. Così come forme di lavoro povero accessorio o di supporto tipico della cosiddetta economia dei lavoretti.

D’altra parte non stiamo assistendo solo al declino del fordismo ma anche a quello di capitalismo industriale-finanziario, che ha dominato gli ultimi due secoli (che tuttora occupa ancora uno spazio consistente) e dall’affermarsi di una nuova oligarchia a livello planetario che quindici anni fa non esisteva caratterizzata da ingenti disponibilità finanziarie, una enorme velocità nelle transazioni e nelle trasformazioni logistiche, produttive, organizzative conseguenti.

Aziende come Google, Amazon, Alibaba, ecc.,ci mostrano una velocità di sviluppo e una capacità di assorbimento e di ridisegno di business tra loro molto diversi, sconosciuti fino a poco tempo fa ma spingono inevitabilmente anche tutte le altre a abbattere i confini settoriali,  integrare le attività, trasformare il lavoro necessario.

Da un lato le piattaforme logistiche e digitali imporranno una sempre più accentuata automazione di molti lavori. Dall’altro la cosiddetta “gig economy” si diffonderà sempre più acquisendo forme nuove, crescendo di peso così come crescerà la condivisione di prodotti, servizi, esperienze. Ma anche di lavori. Alcuni lavori resteranno sostanzialmente di stampo tradizionale. Altri si “frantumeranno” in più attività dove l’input del secondo sarà l’output del primo.

Gli individui si appoggeranno ad organizzazioni e/o piattaforme in grado di supportarli e di fare rete che renderanno necessario un welfare completamente diverso da quello di oggi perché dovrà rispondere a percorsi professionali inframezzati da interruzioni frequenti, mancanza di reddito e di contribuzione, anni sabbatici, periodi formativi, transizioni, allungamento della vita lavorativa ma con maggiori problemi di salute, ecc.

I contratti e quindi i riferimenti sociali e culturali che dovranno accompagnare questi passaggi, non perderanno di utilità ma diventeranno ancora più importanti proprio per evitare un decadimento progressivo delle regole alla base del rapporto di lavoro gestibili (forse) sul piano organizzativo ma ingestibili sul piano politico e sociale.

I sindacati, datoriali e dei lavoratori, potranno assumere, se lo sapranno comprendere per tempo, un ruolo fondamentale nel definire ambiti e contenuti richiesti, i nuovi luoghi del confronto, le necessarie tutele, nel saperle modificare o adattare con cadenze molto più ravvicinate di oggi, nel supportare i singoli dall’alternanza scuola lavoro fino alla pensione, nel saper costruire un welfare adeguato. Soprattutto una formazione continua di qualità.

Per tutto questo non ci sarà  un’ora “X”. Dovranno coesistere sistemi misti, inclusivi possibilmente condivisi in considerazione della lunghezza della transizione necessaria e della posta in gioco. Questo presuppone una maggiore focalizzazione del rapporto di lavoro sui risultati, sulla qualità e sulla quantità della redistribuzione della produttività tra impresa e lavoro, sul coinvolgimento, sull’attualizzazione delle tutele che sono ancora più necessarie. È sempre meno sul tradizionale inquadramento professionale e sulle liturgie ad esso collegate.

Così come sposta sempre più  l’attenzione del percorso di crescita del lavoratore, dall’azienda al mercato del lavoro. Con tutto quello che questo consegue in termini di diritto soggettivo alla formazione. E questa è l’unica strada percorribile dalle parti sociali alternativa all’affermarsi di forme di “totalismo” aziendale che, altrimenti si consolideranno inevitabilmente puntando a individualizzare i rapporti di lavoro all’interno di regole sempre più lasche determinate dalla debolezza del sindacato.

Non ci sarà quindi un prima e un dopo per il lavoro 4.0. Ci saranno scelte o non scelte che indicheranno o meno una direzione di marcia. E responsabilità da assumersi.

L’importante, però sarà, mentre si andrà a costruire il primo passaggio nel deployement dei contratti attuali, già oggi indispensabile, riflettere su ciò che avviene nelle realtà più tecnologiche e innovative sul piano organizzativo e relazionale. Perché comunque vada, è lì che andremo a finire.

Confindustria e sindacati, uno stallo prevedibile

L’accordo alla fine si farà. Non è questo il punto. Siamo ancora ai preliminari perché la materia è complessa e gli interessi in campo sono di difficile composizione.

Non è comunque un negoziato facile e Confindustria non può non continuare ad insistere per tentare di raggiungere un’intesa. Il Presidente Vincenzo Boccia ci ha messo la faccia fin da subito.

Il Patto di fabbrica è la riaffermazione di una primazia della Confederazione sul sistema delle relazioni industriali che non può (dal suo punto di vista) essere messo in discussione. Sono cambiati i tempi, sono cambiati i pesi specifici ma le relazioni sindacali italiane hanno storicamente sempre avuto in Confindustria il soggetto che dava le carte.

Oggi non è più così. Non lo è nelle loro federazioni di settore dove tutti si sono mossi in ordine sparso. Non lo è a livello confederale dove Confindustria ha sempre dettato le regole del gioco ma non ha mai avuto un contratto nazionale suo, non lo è più neanche a livello di leadership sull’intero sistema perché Confcommercio e le associazioni degli Artigiani che rappresentano insieme la stragrande maggioranza delle imprese del Paese si sono mosse autonomamente e hanno già raggiunto accordi significativi con le stesse controparti.

Il Sindacato non ha fretta e quindi spinge sui contenuti proprio laddove Confindustria è più debole. Questa asimmetria negoziale ribaltata è una sorta di legge del contrappasso. Da un lato una Confindustria indubbiamente meno forte sul fronte imprenditoriale cerca un’intesa con una controparte che ne annusa le difficoltà e quindi alza la posta.

Il patto di fabbrica resta un’arma a doppio taglio. Può assorbire il sindacato in una logica aziendalista o rilanciarne il ruolo negoziale proprio laddove è più debole. Quindi gli impegni, le parole utilizzate e lo scambio politico non può essere inconsistente o pericoloso per i confederali. Soprattutto dopo la firma di tutti i contratti nazionali.

D’altra parte il Presidente di Confindustria sa che non può mettere in difficoltà le sue imprese associate scaricando loro addosso un modello contrattuale, che rischia di aggiungere costi e vincoli che oggi non hanno. E di ridare ruolo al sindacato anche laddove non lo esercita da molto tempo soprattutto nelle imprese fuori dai radar della politica che sono la stragrande maggioranza.

Il suo resta un progetto ambizioso. Rilanciare una primazia in una fase dove l’industria, i suoi valori e la sua cultura sono declinanti per rimetterla al centro delle politiche del Paese, rimettere Confindustria in gioco dopo le difficoltà interne non ancora superate, mettere un freno all’espansione di Confcommercio e degli Artigiani sul terziario innovativo, e dare un segnale di governo forte all’intero sistema industriale e ai suoi settori.

Per il sindacato è una partita altrettanto importante. Le difficoltà di Confindustria e la sua determinazione a raggiungere comunque un’intesa spingono i confederali ad alzare decisamente la posta. Sul tavolo c’è l’esigenza, legittima, di pesare, una volta per tutte, anche gli interlocutori datoriali.

Così come, più che l’adozione di un modello precostituito c’è l’esigenza di individuare una soluzione innovativa che sostenga lo sviluppo della contrattazione decentrata, che faccia chiarezza sulla filosofia di fondo del patto di fabbrica e che metta un freno sia alla numerosità dei contratti che ai rischi di dumping che ne derivano. Welfare e bilateralità possono ovviamente aiutare a definire il perimetro ma è su un punto preciso che la proposta verrà misurata.

Il patto di fabbrica presuppone un coinvolgimento dei lavoratori laddove il lavoro cambia e la produttività si crea e laddove i reciproci comportamenti sostengono o deprimono le sfide di business su cui sono impegnate le nostre imprese.

Se questo è chiaro non lo sono altrettanto le contropartite per il sindacato. Almeno fino ad oggi. Il rinvio a fine luglio serve per permettere ad entrambe le parti di completare una riflessione sulle esigenze altrui.

È una buona cosa. Vedremo se sarà sufficiente a chiudere la partita.

Inquadramento contrattuale. Sarebbe ora di metterci mano. (1)

Mettere mano all’inquadramento contrattuale, definito negli anni 70 del secolo scorso, non sarà cosa semplice. Il rischio che si renda la materia, aleatoria e discutibile, è molto alto pur convenendo tutti che si tratta ormai di un modello datato sicuramente da cambiare.

E da questo punto di vista le aziende preferirebbero non correre rischi inutili. Due aspetti importanti vanno considerati. Il primo relativo ai limiti già oggi presenti e che cercherò di trattare in questa prima parte. Il secondo relativo al futuro, ormai sempre più prossimo quando, grazie alla tecnologia e alle nuove leve lavorative, luoghi e tempo di lavoro, perderanno sempre più di significato. Argomento che cercherò di trattare in un secondo momento.

L’art. 2095 del Codice Civile, definisce “categorie legali” le quattro tipologie di lavoratori subordinati (dirigenti, quadri, impiegati e operai) mentre i diversi contratti hanno assegnato nel tempo, livelli, declaratorie, mansioni e qualifiche.

Di conseguenza l’appartenenza di un lavoratore ad una categoria, livello o qualifica, stabiliti nella contrattazione collettiva, determina, in buona parte, lo status aziendale e il trattamento economico-normativo applicato.

I contratti nazionali, nel tempo, hanno cercato di aggiungere senso e contenuto alle quattro tipologie previste dalla legge definendo, intorno ad esse, mansionari, automatismi, scale parametrali, ecc. A volte anche livelli aggiuntivi.

Nelle intenzioni sindacali questi sforzi hanno sempre puntato a creare le condizioni per una possibile crescita professionale continua dei lavoratori privilegiando, ovviamente, l’aspetto collettivo. Quindi la mansione in sé, semmai collegata all’anzianità, mai la qualità della prestazione e/o il suo mantenimento o la sua manutenzione nel tempo.

Per le imprese, che hanno sempre teso ad investire selettivamente sulle risorse umane, l’obiettivo è sempre stato quello di avere certezze sui costi e la corrispondenza tra declaratoria e lavoro effettivamente svolto. Ovviamente con l’intento di valorizzare la qualità della mansione, le capacità e le competenze personali richieste in rapporto agli obiettivi aziendali. Quindi privilegiando esssenzialmente l’aspetto individuale.

Gli esperti di organizzazione in azienda, nel tempo, hanno dovuto necessariamente declinare nuove terminologie, range retributivi, pesature di posizioni e ruoli specifici per cercare di gestire, contemporaneamente al necessario rispetto dei sacri testi negoziati con il sindacato, il mercato di riferimento, i linguaggi nuovi e gli inquadramenti aziendali riconoscibili e confrontabili nelle diverse realtà e in differenti Paesi, adatti a gestire la motivazione, il merito, il mercato e sviluppare il talento, che poco si conciliavano e si conciliano con la cultura tayloristica imperante nei dettati contrattuali o nell’aridità lessicale del codice civile.

E, per questo, l’utilizzo, a volte a proposito, ma spesso anche a sproposito, della lingua inglese ha dato un contributo significativo per aggirare numerosi ostacoli. Ovviamente la tradizionale cultura contrattuale di stampo fordista ha lasciato irrisolti due problemi. Innanzitutto la rigidità del sistema. Indipendentemente dal contesto economico e temporale in cui il lavoratore opera, è stata sempre prevista solo la possibilità di crescere o, al massimo, di non decrescere economicamente e professionalmente.

In altre parole il minimo tabellare, contrattualmente definito, salvaguarda il reddito raggiunto dal singolo lavoratore al di là del contenuto della mansione effettivamente svolta in un dato momento e del tutto indipendente dalla qualità della prestazione.

Questa impostazione che ha indubbiamente garantito il lavoratore fino a pochi anni fa, oggi, in caso di crisi aziendale o anche semplicemente a seguito dell’allungamento della vita lavorativa, rischia di ritorcersi contro il lavoratore stesso. O almeno di renderlo più debole ed esposto alla concorrenza dei lavoratori più giovani in azienda sul piano dei costi ma anche per la scarsa impiegabilità sul mercato del lavoro.

Collegato a questo diventa fondamentale il tema della formazione continua e della necessità che questa sia funzionale al mantenimento e all’arricchimento della professionalità del singolo, in azienda, ma anche in rapporto al mercato del lavoro con cui il lavoratore si dovrà, sempre più, misurare. Il secondo problema è dato dalla relazione tra inquadramento e costo del lavoro complessivo.

L’azienda oltre a dover gestire un carico fiscale e contributivo eccessivo spesso sconta un disallineamento tra inquadramento contrattuale e mansione effettivamente svolta dal singolo lavoratore. Disallineamento non facile da risolvere. Le stesse recenti innovazioni del Jobs act sul tema del demansionamento non hanno risolto il problema e quindi, sul punto, non è cambiato sostanzialmente nulla. Anzi. L’idea stessa che si possa abbassare l’inquadramento formale del lavoratore ma non la sua retribuzione la dice lunga sull’approccio utilizzato.

Le imprese in passato hanno mascherato questa esigenza di “svecchiamento” complessivo legato ai costi con procedure di mobilità ad hoc e interventi “spintanei” almeno fino a quando questo è stato possibile, spesso concordandole con i sindacati. La carenza di risorse pubbliche e la modifica dei requisiti pensionistici hanno riaperto il problema nella sua dimensione reale di cui, i cosiddetti “esodati”, hanno costituito solo la punta dell’iceberg. Troppo vecchi per restare in azienda, troppo giovani per andare in pensione.

Le proposte di intervento a sostegno del reddito degli over 50 e gli scivoli per i lavoratori a pochi anni dalla pensione segnalano la persistente urgenza del problema e la necessità di trovare risposte differenti. Quindi di riprendere il tema del demansionamento effettivo.

La possibilità di formarsi e di riposizionarsi professionalmente nella impresa e sul mercato è un passaggio ineludibile ma questo impone di affrontare con urgenza il tema delle politiche attive e della qualità della formazione a completamento del Jobs act. Esiste indubbiamente un problema di approccio culturale che coinvolge le imprese e che riguarda la necessità di ritornare a considerare importante e ineluttabile l’impiegabilità degli “over” ma esistono anche problemi legati ai costi, alla flessibilità e alla rigidità dell’inquadramento contrattuale che non possono essere scaricati esclusivamente sulla singola azienda e quindi, di converso, sul singolo lavoratore.

Rivisitare i vincoli di legge e l’inquadramento con l’obiettivo di separare ciò che è destinato a tutelare una sorta di reddito minimo da ciò che può modificarsi (in su o in giù) in campo professionale nel tempo e ciò che deve essere messo in rapporto ai risultati aziendali significa spingere in direzione di un maggior coinvolgimento dei lavoratori sulla loro maggiore responsabilizzazione nel lavoro, sull’andamento economico e, contemporaneamente, far crescere nelle persone una maggiore consapevolezza della necessità di continuare a formarsi.

Per questo la rivisitazione dell’inquadramento professionale è necessaria. Lo è ancora di più se la consideriamo una leva determinante del cambiamento culturale dei lavoratori e delle imprese.

Per un vero patto di fabbrica.

L’idea è comunque da sottoscrivere. Impresa e lavoro collaborano a tutto campo con un obiettivo preciso: aumentare la produttività, affrontare l’innovazione e i cambiamenti necessari, crescere professionalmente e costruire un welfare moderno e inclusivo.

Il patto di fabbrica può produrre tutti questi effetti positivi e quindi fa bene il Presidente di Confindustria Vincenzo Boccia ad insistere. Per il sindacato potrebbe rappresentare un passo decisivo e definitivo.

Passare, in azienda, da una logica negoziale tradizionale laddove le condizioni, la forza o la capacità del sindacato esterno lo consente ad una logica collaborativa a tutto campo.

C’è però un paradosso. Le aziende si dichiarano pronte e disponibili ma il sindacato ha molti dubbi sulla concreta fattibilità dell’operazione così come proposta. Il sindacato, da parte sua, si dichiara pronto e disponibile ma le aziende hanno molti dubbi sulla concreta fattibilità con questo sindacato.

La contrattazione aziendale di questi ultimi decenni è stata caratterizzata, per dirla con il professor Baglioni, da un modello “partecipativo concessivo”. Urgenze, contenuti, problematiche sono stati posti sostanzialmente dalle aziende.

Salvo in alcune vertenze importanti dove il sindacato ha schierato gli uomini migliori e si è assunto responsabilità pesanti. Non sempre condivise a livello unitario.

Riorganizzazioni, tagli, commesse da gestire, ecc. Il sindacato ha però, quasi sempre, giocato di rimessa. Non è un caso che, le imprese stesse hanno, negli anni, depotenziato i loro ruoli negoziali tradizionali.

Oggi gli addetti alle relazioni sindacali, anche di alto livello, in azienda contano molto poco a differenza che in passato. Quindi, nelle intenzioni e fino a prova contraria, il “patto di fabbrica” confermerebbe questa asimmetria di potere.

Due aspetti importanti potrebbero bilanciare il sistema. L’estensione della contrattazione territoriale laddove quella aziendale non è praticabile e l’introduzione di modelli relazionali di concreta corresponsabilità. O per dirla come la direbbe un sindacalista, di “Partecipazione”.

Non è un caso che su questi due punti, Confindustria non è molto disponibile. Difficile darle torto. Oggi la contrattazione aziendale non supera il 5/6% delle imprese con una tendenza a decrescere. Si va dal 2/3% del terziario al 25/28% dei metalmeccanici. Nelle PMI è praticamente inesistente.

Ampliarla, in assenza di relazioni sindacali diffuse e costruttive sia al centro che in periferia potrebbe essere addirittura controproducente. Inoltre il territorio è un punto di riferimento solo per i lavoratori coinvolti e solo per alcuni comparti. Infine, cosa da non sottovalutare, Confindustria non ha alcun disponibilità ad estenderla o peggio a renderla obbligatoria al di fuori di chi gli conferisce un mandato. Il rischio associativo è evidente.

Sul tema della partecipazione e del coinvolgimento dei sindacati le aziende sono, nella quasi totalità, nettamente contrarie. Qualche passo avanti si potrebbe fare indicando delle sperimentazioni reversibili, individuando come in alcuni comparti (vedi chimici e alimentaristi) settori specifici, materie prioritarie, formazione congiunta, condivisione di informazioni, sistemi premianti, ecc. che indichino una concreta direzione di marcia.

Però su questo punto occorre essere chiari. Non bastano generiche affermazioni di alcuni sindacalisti e neanche di tutto il sindacato confederale per aprire scenari nuovi. La cautela, non solo di Confindustria, è assolutamente comprensibile.

Il sindacato, però, se dovesse decidere di rinunciare a questa prospettiva, corre dei rischi. Le aziende non si fermeranno, questo è chiaro. In assenza del “patto di fabbrica” le stesse recenti conquiste contrattuali rischiano di essere depotenziate.

E questo non sarebbe utile a nessuno. In molte imprese si sta affermando una doppia cultura. Ciò che è necessario e obbligatorio negoziare con il sindacato o discendente dalle leggi vigenti si applica. Ciò che è utile per costruire un coinvolgimento e un ingaggio dei collaboratori si gestisce con ben altra convinzione.

La parte più accorta del sindacato ha capito benissimo che nelle aziende c’è in corso da tempo una sua lenta e progressiva emarginazione. È indubbio, però, che la firma convinta di Federmeccanica con FIM, FIOM e UILM va in ben altra direzione.

E questo è un dato positivo a favore di quanti vorrebbero giocare la partita fino in fondo. Altri restano convinti che, prima o poi, le contraddizioni riemergeranno. E lo schema di confronto cambierà notevolmente.

In questo modo, però, si limitano a segare il ramo sul quale si poggia l’intero sistema. Non mi sembra una strategia accorta.

Congresso CISL. Il sindacato italiano tra castori e dighe…

I congressi restano un momento importante nella vita di una organizzazione sindacale. Certo, come per i cortei o i comizi rientrano anche in una liturgia tradizionale. Però riescono a far comprendere se dietro le parole, gli slogan, l’atteggiamento a volte esageratamente predicatorio nei confronti di tutti gli altri stakeholder c’è sostanza o meno. Se vivono concretamente la realtà o la interpretano in chiave di autoconservazione.

La CISL, tra l’altro, non sta attraversando affatto un momento facile. Schiacciata dalla CGIL, da un lato, ormai forte di una strategia chiara seppure di difficile attuazione e con una segretaria generale Annamaria Furlan che ha l’ingrato compito di completare i processi in corso di sburocratizzazione e di trasparenza e di riorientarne l’azione politica e sociale complessiva riaprendo un dibattito interno che si era spento anche per volontà esplicita dei suoi predecessori.

Su questo ci sono indubbi segnali incoraggianti di cambiamento. Lo si è ascoltato in alcuni congressi di categoria ma anche in alcuni congressi territoriali. Nella sua relazione introduttiva la Segretaria Generale, su alcune questioni di strategia non si è tirata indietro.

Due elementi importanti per il futuro delle relazioni sindacali. Innanzitutto il tema della partecipazione. Chiedere, come ha fatto, un intervento legislativo di sostegno alla materia è un fatto nuovo e importante.

Certo, la strada maestra è quella del confronto tra le parti, ma è indubbio che occorra accelerare su questo percorso se si pensa ad un futuro con un sindacato protagonista dello sviluppo delle imprese, del lavoro e del Paese.

La “corresponsabilità”, il “Patto di fabbrica”, l’idea stessa di collaborazione perderebbero significato se non in un quadro di forte condivisione dei rischi e delle opportunità che questo cambio di paradigma, anche culturale, impone.

Un altro passaggio importante è quello relativo alla tutela del lavoro in sé. Non  più legato al vecchio concetto di posto di lavoro. È una affermazione che cambia un tradizionale punto di osservazione sindacale.

Se le tutele si spostano dal luogo di lavoro alla persona occorre ragionare di politiche attive, di formazione, di welfare in modo nuovo. In questo senso la tipologia del rapporto, le vecchie tutele sia legislative che contrattuali perdono gran parte del loro significato.

E non è secondaria la differenza di linguaggio rispetto alla CGIL. Furlan parla di modernizzazione delle tutele del lavoro e non di trasferimento dei diritti dal luogo di lavoro al lavoratore come sostiene Susanna Camusso dimostrando, anche qui, una divaricazione di pensiero che non andrebbe lasciata cadere.

Vedremo in questa assise confederale fino a che punto potrà spingersi il Segretario Generale, quali leve avrà a disposizione per dare seguito alle decisioni, peraltro già assunte, sugli accorpamenti e sulla trasparenza e soprattutto con quali proposte si appresterà ad affrontare la difficile vertenza contrattuale del pubblico impiego dove la CISL dovrà dimostrare, più di altri, un rinnovata capacità di individuare obiettivi credibili, mediazioni ragionevoli e su questi coinvolgere i lavoratori del settore al servizio dei cittadini.

In questa opera di riorientamento e di innovazione organizzativa non sarà certamente sola. Potrà contare su quello che hanno prodotto tutti i congressi dalle aziende più piccole fino alle più importanti categorie. Ed è questo processo democratico che coinvolge decine di migliaia di persone in carne ed ossa che rende importante e unica la natura e l’esperienza sindacale italiana. Luciano Lama diceva: “I sindacati sono come i castori: li guardi e ti sembra che non stiano facendo niente. E, poi ti accorgi che hanno tirato su una diga”.

Ecco quello che sinceramente ci dobbiamo aspettare da un congresso sindacale è un dibattito franco, aperto e costruttivo.  Importante non solo per le persone che rappresentano ogni giorno ma anche per lo stesso sistema delle relazioni sindacali e per il futuro del nostro Paese.

Metalmeccanici, la via italiana alla collaborazione..

L’assemblea di Federmeccanica rappresenta un passaggio importante nella storia delle relazioni industriali del nostro Paese. Non solo per l’invito formale ai tre Segretari Generali dei metalmeccanici.

La presenza del Presidente di Confindustria Vincenzo Boccia, l’intervento del Presidente uscente Fabio Storchi e quello del nuovo Presidente Alberto Dal Poz, 44 anni, dimostrano che dietro il rinnovo contrattuale e gli impegni in quel contesto concordati c’è una strategia precisa.

Non solo e non tanto per la consapevolezza che in ottica industry 4.0 il ruolo della persona ritorna centrale per rimodellare l’impresa post fordista ma che questo ritorno di centralità non esclude affatto il sindacato. E che, con lo stesso sindacato protagonista (insieme a loro) della stagione della contrapposizione e dell’antagonismo, si può costruire, insieme, la nuova fase.

Il caloroso applauso riservato ai tre leader sindacali e l’attenzione dedicata ai loro interventi dimostrano che l’intenzione di volerci provare non è strumentale. L’enorme e convinto consenso al nuovo contratto espresso dall’insieme dei lavoratori rappresenta una aspettativa che, come ha sostenuto Landini nel suo intervento non deve andare delusa.

Così come Bentivogli e Palombella hanno giustamente indicato nella gestione del contratto stesso la prova del nove con cui misurare, concretamente, questo cambiamento.

Al nuovo Presidente di Federmeccanica non aspetta un compito facile in questo quadriennio. Queste aspettative devono tradursi in risposte concrete per i lavoratori ma anche per i propri associati che, in grande parte, si troveranno protagonisti di un confronto completamente diverso da quello a cui erano abituati.

E qui il ruolo della Federazione, sia a livello nazionale che territoriale sarà fondamentale. In altri comparti la centralità della persona e del lavoro avviene senza il sindacato (o, contro il sindacato).

Il professor Stefano Zamagni parla, in questo caso, di “totalismo aziendale”. Di una tecnica obiettiva e razionale e un insieme di strumenti e procedure per una gestione performante delle organizzazioni costruita intorno alla figura del leader, che coincide con il CEO, ad una richiesta di adesione a valori, cultura e atteggiamenti prodotti esclusivamente all’interno dell’impresa stessa.

Questi modelli, adottati sopratutto da gruppi multinazionali rischiano di determinare un rapporto di dipendenza fragile, esclusivo, di difficile compatibilità con tutti i fattori critici esterni, personali o collettivi, quindi fortemente totalizzanti.

Per questo è ancora più interessante la chiave di lettura dell’impresa che innova ma che coinvolge anche il sindacato proposta da Federmeccanica che ha le sue radici proprio nel contratto nazionale.

Perché è evidente che la prossima contrattazione aziendale dovrà condividere percorsi e risposte su due temi tipici del “potere” aziendale classico: la revisione dell’inquadramento e la traduzione concreta del diritto soggettivo alla formazione. Ed è su questi temi, che può riprendere colore e forma, il cosiddetto “Patto di fabbrica” del Presidente di Confindustria.

È chiaro che i riflettori di chi crede nel cambiamento e nell’innovazione, anche sociale, sono tutti lì. Mi sembra costituiscano un deciso passo in avanti rispetto alla tradizione dei chimici e degli alimentaristi dove, alla disponibilità dei sindacati di categoria, le rispettive associazioni datoriali devono gestire con maggiore cautela le contraddizioni al loro interno e quindi riservano a singoli gruppi o aziende il terreno della sperimentazione.

O nel terziario dove il sindacato si sta “suicidando” motu proprio per inadeguatezza complessiva confermando ancora una volta i propri limiti e rinunciando così ad opportunità di innovazione vera. Il messaggio, uscito ieri, è importante. Si fa sul serio e ognuno deve assumersi le proprie responsabilità.

A cominciare dalla gestione del contratto nazionale. Credo che tutti coloro che auspicano una svolta positiva e collaborativa delle relazioni sindacali non possano che essere soddisfatti. Adesso tocca ai protagonisti riprendersi la scena.