Sindacalismo Confederale e Trio Metal…

L’augurio di Dario Di Vico affinché i tre segretari dei metalmeccanici possano contaminare l’intero sindacalismo confederale italiano è certamente un buon viatico. Viene da un profondo e navigato esperto di cose sindacali che non ha mai perso la speranza di vedere un sindacato nuovo all’altezza delle sfide contemporanee e future.

Giuseppe Sabella, fresco autore di un libro interessante sul recente contratto dei metalmeccanici e quindi conoscitore delle vicende della categoria, conferma l’ascesa “nell’Olimpo” del primo dei tre: Maurizio Landini segretario generale della FIOM CGIL.

La personalità di quest’ultimo, la sua sovraesposizione mediatica, il suo appartenere ad un stirpe in via di estinzione di sindacalisti aggressivi ma pragmatici lo rendono un candidato perfetto.

Secondo l’ex sindacalista Giorgio Cremaschi, però, “la FIOM e il suo gruppo dirigente hanno ricevuto un ritorno di immagine che ha finito per supplire alle difficoltà dell’agire concreto”. Qui sta il punto.

Landini ha dalla sua la firma dell’ultimo contratto nazionale. Un fatto importante ma affatto decisivo nei confronti di colleghi CGIL che magari non hanno l’immagine pubblica del segretario della FIOM ma i loro contratti li hanno sempre firmati senza grandi problemi né con le rispettive controparti né con CISL e UIL di categoria.

Né hanno cercato di imporre lezioni di galateo sindacale alle altre categorie. Landini è un sindacalista vero. Senza aggettivi. Su questo non c’è alcun dubbio. Non è un estremista, non è un moderato, non è un burocrate. Negozia, vince o perde, ma negozia.

Federmeccanica lo ha capito benissimo ed è anche per questo che si è arrivati alla firma del contratto nazionale. E i risultati (bulgari) della consultazione la dicono lunga sul clima interno dell’ultima vera “legione” rimasta.

Al di là degli equilibri interni tre ostacoli sono presenti sul suo cammino. Innanzitutto la vicenda FCA. Non tanto perché la FIOM si è messa fuori gioco da sola ben prima del suo arrivo al vertice della categoria e deve, in qualche modo, rientrare in partita, quanto perché gli impegni assunti dal vertice aziendale in termini di occupazione e di rilancio non sono lievi né certi e quindi abbisognano di un sindacato unitario, non rancoroso né con lo specchietto retrovisore.

In secondo luogo perché la gestione del contratto nazionale sarà ancora più ardua e sfidante del risultato raggiunto con la firma, per i suoi contenuti innovativi.

In terzo luogo la carta dei diritti e il conseguente rapporto con CISL e UIL. Il cambiamento culturale, lessicale perfino antropologico messo in atto da Marco Bentivogli e dalla FIM sposta ben più in alto l’asticella del confronto costringendo la CISL confederale a delle scelte importanti in direzione ben diversa sulle quali anche la UIL non potrà che convenire. E questo si riverberà necessariamente sulla CGIL e sui suoi propositi di marcia solitaria.

Tre sfide che determineranno il posizionamento definitivo del più grande sindacato confederale in una direzione collaborativa, partecipativa e europeista, oppure lo costringeranno ad una deriva minoritaria come quella che ha coinvolto la CGT francese che ha dovuto cedere il passo alla CFDT in termini di peso e rappresentanza complessiva.

Maurizio Landini in CGIL non troverà lo stesso clima che è riuscito ad costruire in FIOM. Se non altro perché salvo rarissimi casi (Carniti, Trentin e Camusso pur con diverse caratteristiche) i metalmeccanici non hanno mai avuto grande fortuna fuori dalla loro categoria. Così come in politica. È chiaro che Landini entrerà sicuramente con autorevolezza nel nuovo ruolo. Starà a lui e a chi lo sostiene riflettere sul futuro della CGIL del dopo Camusso.

A quest’ultima checché ne pensino i detrattori non si può rimproverare quasi nulla. Riconsegnerà al suo successore una CGIL al centro della scena, più forte di quando l’ha ereditata e ringiovanita nei suoi quadri dirigenti. Ma evidentemente più debole nelle imprese e con proposte che se non trovano compagni di viaggio nelle altre confederazioni rischiano di portare al suo isolamento.

A favore di Landini c’è che anche prima del contratto dei metalmeccanici la situazione in categoria era molto simile e lui l’ha affrontata e superata. Lì ha però trovato Marco Bentivogli e Rocco Palombella che del trio metal costituivano un duo già ben affiatato e sperimentato.

Vedremo se l’evoluzione nel nuovo incarico sarà propedeutica ad un cambiamento vero che contribuirà a dare un diverso orizzonte al sindacalismo confederale e se saprà muoversi con la necessaria pazienza e capacità di mediazione che, spesso, i metalmeccanici con le altre categorie non hanno mai avuto….

Grande Distribuzione. Anche IKEA alza la posta…

Un’altra dimostrazione importante di come si muovono le imprese multinazionali del settore della Grande Distribuzione è rappresentata da IKEA.

A fine maggio l’annuncio. Jesper Brodin succederà a Peter Agnefjall a partire da settembre come CEO di IKEA. 48 anni, in azienda dal 1995, avrà la responsabilità di 350 store, 45 shopping center in cui lavorano circa 140000 dipendenti distribuiti in poco meno che 30 Paesi.

Una importante scelta di crescita interna. La strategia di espansione tradizionale impostata da Agnefjall sul mercato cinese, indiano e il rafforzamento delle vendite on line proseguirà senza sostanziali cambiamenti.

Brodin, da parte sua, conosce molto bene l’azienda ed è un esperto di acquisti, logistica e nuovi mercati e darà un forte impulso alla diversificazione. In una recente intervista ha dichiarato di avere diversi nuovi progetti da lanciare. La parola d’ordine del colosso partito da Almhult in Svezia nel 1958 è: multicanalità.

La diversificazione per Ikea è un punto importante della strategia di crescita. I conti della multinazionale svedese dell’arredamento sono positivi e dichiarano un utile netto in rialzo del 20% a 4,2 miliardi di euro nell’esercizio 2015-2016. In 10 anni il fatturato è, di fatto, raddoppiato. In Italia continua a crescere: il bilancio 2016 registra infatti ricavi in crescita del 4,5% rispetto all’esercizio precedente.

Ikea Food fattura €1,7 miliardi di fatturato nel mondo. In italia +5,9% con 97 milioni di euro (pari al 5,7% del fatturato dell’azienda). Quindi è un colosso anche della ristorazione con progetti di crescita importanti. Anche in Italia.

A Piacenza ha creato un polo distributivo che serve l’Italia e tutti i Paesi che ruotano intorno al Mediterraneo. L’azienda ha capito benissimo che una logistica efficiente e all’avanguardia può diventare un vero e proprio valore aggiunto in sé se sa mettere al centro i bisogni e le esigenze del cliente.

Il deposito IKEA è uno snodo fondamentale per le merci. È un’altra prova che i confini tra settori perdono di importanza. La logistica diventa sempre più un fattore chiave del successo di un’azienda.

Tra l’altro, l’Italia, è stata scelta dal Quartier Generale per testare la formula del “pick-up & order point”. Negozi più piccoli con assortimento selezionato e, attraverso l’e-commerce, più attenzione ai tempi e alle necessità dei consumatori.

Va sottolineato che secondo un’analisi condotta da Ernst&Young nel 2013 la filiera complessiva di Ikea in Italia generava 21.000 posti di lavoro (tra diretti e indiretti), un valore aggiunto totale pari a 1 miliardo di euro e circa 300 milioni di contribuzione fiscale.

Quindi Ikea come Amazon punta decisamente ad uno sviluppo orizzontale. Logistica, e-commerce integrato, maggiore penetrazione nelle città con negozi più piccoli e, nel food, ristoranti di nuova generazione. E continua l’espansione nel far east..

Anche da noi un futuro di consegne H24 in posti prestabiliti gestiti direttamente dal cliente che supererà le formule contrattuali tradizionali e una forte integrazione con il territorio (IKEA è, tra l’altro, il più grande compratore di mobili italiani).

Infine, come caratteristica importante grande rispetto per le risorse umane, welfare aziendale spinto e lotta decisa alle discriminazioni non solo di genere come ha recentemente dichiarato la responsabile risorse umane del gruppo internazionale.

È un modello profondamente diverso sul piano della gestione dei collaboratori da quello proposto da Amazon ma la direzione di marcia, la centralità dell’insegna, la qualità del servizio al cliente, la piattaforma logistica e l’on line come strumento di successo rappresentano, sostanzialmente, gli stessi drivers su cui puntare nei prossimi anni.

La Grande Distribuzione con lo specchietto retrovisore..

Il dibattito recente, seguito all’acquisizione di Whole Foods da parte di Amazon dimostra ancora una volta i ritardi culturali del dibattito tra i responsabili  delle nostre imprese della Grande Distribuzione. Almeno per quello che è comparso su Twitter.

Solo Andrea Guerra di Eataly e  Mario Gasbarrino CEO di Unes tentano di guardare oltre la siepe. Whole Foods era ed è un’ottima azienda che ha semplicemente sbagliato il suo ultimo piano di sviluppo. Ha problemi organizzativi e logistici e ha una cultura interna e di rapporto con il territorio interessante e particolare. E clienti evoluti.

Amazon ha problemi di marchio (Amazon fresh ricorda un dentrificio), non ha un know how specifico, ha una logistica efficiente (of course), una scarsa cultura del lavoro e una ossessione per il cliente.

Sono quindi evidenti sia la strategia di Amazon sul nuovo marchio e i rischi di una integrazione tra due realtà così diverse dove pare sia già in discussione il CEO e fondatore di WF John Mackey.

Da noi il dibattito prevalente si ferma alla convinzione che il negozio fisico resti centrale. Ha ragione Gasbarrino, qualcuno continua a scambiare il dito con la luna.

Promozioni, strategie incentrate quasi esclusivamente sui costi, marketing novecentesco, hanno prodotto insegne tutte uguali. Anonime. Capisco i CEO che devono mostrarsi comunque contenti per non irritare soci e proprietà ma il futuro è altrove.

La Grande Distribuzione Organizzata che ha saputo mettere in discussione le rendite della Produzione e dell’Industria, che ha messo in ginocchio il piccolo dettaglio e che in Italia ha promosso e difeso liberalizzazioni di orari e aperture e innovato il rapporto con i consumatori, oggi viene messa essa stessa in discussione.

Così come l’industria allora ne aveva sottovalutato il potenziale di forza così oggi avviene, quasi per la legge del contrappasso, un fenomeno altrettanto importante indotto dalla globalizzazione.

I confini stanno cadendo come sono  caduti i confini tra logistica e trasporti e come stanno  cadendo tra industria e terziario. C’è chi li anticipa, chi li osserva e chi li subisce.

Il mix piattaforme digitali e logistiche planetarie scardinerà  vecchi stereotipi costringendo al ripensamento e all’integrazione orizzontale un intero comparto.

Altro che Amazon che necessitava solo di negozi fisici! Certo che è anche così ma era ed è il marchio l’obiettivo con il conseguente know how interno.

È veramente come se Apple decidesse di comprare Tesla! Mi immagino, in quel contesto, la faccia che farebbero i vari VW, Ford, FCA, ecc.

Capisco il silenzio di Walmart, Carrefour, Rewe e altri player mondiali che adesso dovranno studiare le contromosse. Detto questo è ovvio non sarà una strada in discesa né per Amazon né per WF. Né solitaria.

Ma oggi ci confrontiamo con la “mossa del cavallo” non con una normale acquisizione, seppur importante.

Grande distribuzione. Adesso cambia tutto…..

L’offerta cinese agli eredi di Esselunga probabilmente sarà respinta. Se vera, è comunque molto più alta del valore dell’azienda stessa. Difficile capire se è più importante la notizia dell’offerta cinese o il rifiuto di chi, in questo momento, vorrebbe provare a gestire un business nel quale, Esselunga, è ancora un punto di riferimento.

Se escludiamo la possibilità che venga formata una cordata italiana interessata all’acquisto e che, altri player del settore, siano disposti a competere con una offerta stratosferica dobbiamo prendere atto che la partita sui futuri assetti della Grande Distribuzione in Italia, ma anche in Europa, è ripresa con vigore.

Dall’altra parte dell’oceano Amazon risponde con una mossa a sorpresa. L’acquisto di Whole Foods per la modica cifra di 13,7 miliardi di dollari. Oggi Andrea Guerra Presidente Esecutivo di Eataly, sul Sole 24 Ore, rilancia il ruolo della sua azienda, sostenendo l’importante intuizione Farinettiana e cioè che nel lungo periodo paga di più il marchio delle promozioni. E che l’operazione Amazon ne sarebbe, in parte,  la dimostrazione plastica.

Ė vero. La vera novità, però,  alla base di questa importante acquisizione, da sottolineare, è che non esistono più confini settoriali insuperabili. Né rendite connesse al presidio, più o meno importante, di un solo settore.

Se la GDO ha fatto la sua fortuna negli ultimi 50 anni proprio perché intermediava in un luogo fisico determinato ciò che  l’industria food e non food proponeva, oggi quel luogo non è più esclusivo ma integrabile attraverso una logistica sofisticata che modella sulle esigenze del consumatore, attraverso la rete, produzione, stoccaggio, consegna e consumo. E, con Amazon, si predispone a farlo a livello planetario.

E da qui nascono due nuove esigenze che impattano pesantemente sul settore della grande distribuzione non solo italiana. La prima è che la forza del distributore tradizionale perde di importanza e quindi va ripensata, la seconda è che i centri commerciali devono essere anch’essi riprogettati alla radice trasformandosi in luoghi di svago ecdi intrattenimento dove c’è “anche” la vendita tradizionale ma alla cui redditività provvedono sempre più una pluralità di attività.

Amazon ci dice due cose. Il negozio tradizionale (piccolo o grande che sia) pur indispensabile va ripensato completamente in chiave digitale. L’integrazione on line e off line, su cui si sono stanno concentrate le riflessioni compatibiliste oggi più avanzate è già, di fatto, superata. Il centro della scena sarà presidiato dalle piattaforme digitali e di movimentazione delle merci.

La credibilità del marchio poi potrà  farà la differenza. Ci saranno marchi ombrello il cui compito sarà quello di dare una credibilità nuova sia al luogo fisico che virtuale attraverso portali che venderanno esperienze ed emozioni costituite da cibo, viaggi, intrattenimento, abbigliamento, ecc. riservate a target specifici gestiti attraverso i big data. In questo contesto, anche il lavoro si trasformerà radicalmente. Da un lato tutto ciò che è informazione, supporto e consulenza al consumo diventerà sempre più importante. Dall’altro si consolideranno un insieme di lavori a basso contenuto professionale (caricamenti, movimentazione, controllo, consegna, ecc.).

Così come cadranno i confini tra settori, inevitabilmente cadranno i confini tra attività impiegate nei centri commerciali. Quindi tra inquadramenti, livelli retributivi e professionalità impiegabili. E tra lavoro autonomo e dipendente.

Ovviamente in questo articolo il Sole 24 Andrea Guerra tira soprattutto acqua al suo mulino. Eataly ha bisogno di affermarsi nella sua intuizione anche per il futuro collocamento in Borsa. È però chiaro che siamo agli albori di una vera rivoluzione importante tanto quanto quella che è avvenuta in Francia alla fine dell’800 con la nascita di Bon Marché o in Italia con i fratelli Bocconi.

La GDO tradizionale non è preparata a questo ripensamento profondo né in Italia né in Europa. Salvo pochi lodevoli e artigianali tentativi (ad esempio, Carrefour, Unes, Eataly) che comunque segnalano una disponibilità positiva  a rimettersi in discussione la GDO europea è complessivamente ferma a formati e modelli del 900.

Certo gioca al mantenimento dello status quo una fase di transizione che si preannuncia lunga e, tutto sommato gestibile da un management abbastanza tradizionalista, soprattutto in Italia che però potrebbe garantire la sopravvivenza ai diversi operatori in campo spostando il traguardo un po’ più in là. Ma per quanto?

Una cosa però è certa. La sontuosa offerta cinese a Esselunga non sarà replicabile per lungo tempo. Oggi il suo format è probabilmente un modello esportabile, quindi appetibile. Ed è tuttora un’azienda di prim’ordine. In più gli imprenditori cinesi sono sempre costretti ad esagerare quando entrano in un mercato per dimostrarsi credibili.

Al di là però delle dichiarazioni di rito della proprietà di Esselunga di cui occorre prendere atto non vorrei essere nei panni di chi, a fronte di questa offerta, deve respingerla con forza mentre contemporaneamente deve concludere una difficile trattativa con tutti gli altri eredi in campo. Una decisone difficile che deve tenere conto di una cultura costruita sui successi di Bernardo Caprotti, di un management serio e impegnato a gestire questa fase e di tutti i ventitremila collaboratori coinvolti.

Accodarsi “pigramente” ai COBAS non è più un destino ineluttabile..

Dario Di Vico, anche questa volta, ha centrato il problema e… l’avverbio.  A parte i disagi provocati dallo sciopero dei trasporti di ieri due dati dovrebbero far riflettere.

Dopo la batosta dell’Alitalia il sindacato confederale del settore trasporti continua “pigramente” a subire l’iniziativa dei COBAS. Nessuna battaglia politica, nessuna presa di distanza, nessun contrasto vero. I riflettori oggi sono tutti su questa agitazione. È normale. Però non è tutto qui. Purtroppo.

I COBAS hanno anche rilanciato sulla logistica. È lì, e non altrove, che c’è in corso una battaglia sindacale vera. L’obiettivo è la titolarità della rappresentanza dei nuovi “ultimi”.

Preso tra voucher, congressi e Jobs Act il sindacato confederale sembra distratto altrove. Pubblico impiego, trasporti e logistica rappresentano il luogo ideale per tentare di mettere in discussione i tradizionali equilibri di forza. COBAS e altre formazioni lo hanno capito benissimo.

Purtroppo i sindacati confederali continuano a osservare da spettatori la scena mettendo in campo attori di secondo piano. Inconsistenti sulla vicenda Alitalia, “pigri” mentre gli scioperanti prendono i cittadini per il collo, fuori gioco domani. Lo “schiaffo alla democrazia” viene anche da qui. Troppo facile per la CGIL cercare nemici solo altrove.

La stagione congressuale della Cisl, purtroppo, non ha detto quasi nulla su questo punto. Giuseppe Sabella fa bene a valorizzare ciò che i congressi di FEMCA e FIM hanno saputo mettere all’ordine del giorno. Sono segnali importanti. Il sindacato confederale deve però saper ritrovare una strategia unitaria che faccia chiarezza su determinati temi.

Fortunatamente AnnaMaria Furlan ne ha preso rapidamente le distanze: “Non è abusando di uno strumento così importante e delicato come lo sciopero nei servizi pubblici che si portano a casa risultati. Anzi e’ l’esatto contrario: si danneggia l’immagine del sindacato e si portano a casa solo difficoltà inutili per la gente e per gli stessi lavoratori”.

Il congresso confederale della CISL offre una grande opportunità ad Annamaria Furlan. Non lasciare isolato il pragmatismo sindacale di Marco Bentivogli, continuando l’operazione trasparenza e pulizia interna non fermandosi davanti alla forza economica e alla numerosità di alcune categorie e riposizionare, così, la CISL sul piano politico e sociale completandone il ridisegno organizzativo.

Sull’altra sponda la CGIL oggi porta in piazza la sua forza ma anche tutta la fragilità di una posizione sempre più condannata a interpretare un ruolo politico e di perno sociale di una sinistra vecchia e prevedibile circondata dalla diffidenza di generazioni sempre più lontane.

Oggi in campo, insieme alla CGIL, si ritrova una sinistra “neo paternalista” che insiste nell’offrire ai giovani di oggi soluzioni troppo semplici a problemi complessi. Propone i soliti “draghi invisibili” da combattere e liquida con troppa disinvoltura ambiguità, responsabilità e complicità delle generazioni precedenti, e quindi anche del sindacato e dell’intera sinistra, sulle speranze e sul futuro di questa generazione.

È vero che Susanna Camusso deve innanzitutto tenere insieme il suo popolo in un momento di grande smarrimento della sinistra (non solo in Italia) ma farlo su di un obiettivo di fatto secondario limitandosi ad offrire una sponda al rancore antirenziano e un punto di coagulo dell’estremismo salottiero mettendo a repentaglio un disegno unitario ben più importante resta un azzardo pericoloso.

Farlo subito dopo che i COBAS hanno buttato benzina sul malessere del Paese lo è ancora di più. E non sarà facile per Camusso rimarcare l’abisso morale e politico che separa (fortunatamente) la CGIL da queste formazioni distruttive e minoritarie.

Nel movimento sindacale c’è in corso una evidente battaglia politica sull’egemonia  dagli esiti incerti. I contratti nazionali hanno segnato un possibile percorso che però non è affatto scontato.

Ci sono ritardi, interessi e storie personali, ambiguità, resistenze, furbizie che, ad esempio, il percorso congressuale della CISL non ha sciolto completamente e che sono presenti, purtroppo, in tutto il sindacalismo di matrice confederale e che rischiano di rallentare i cambiamenti necessari e urgenti.

La giornata di ieri pur con il suo carico negativo e passatista ha mostrato però segnali che vanno colti. Chi sta dalla parte dei cittadini non è affatto un crumiro sempre e comunque così come chi sta “pigramente” dalla parte dei colleghi che interrompono un servizio pubblico di venerdì non è sempre e comunque, un “collega che sbaglia”. E questo è un importante passo in avanti…

Contratto Federdistribuzione. Forse è arrivato il momento di cambiare musica…

Credo sia rimasto solo il Ministro del Lavoro Poletti e qualche suo fedelissimo dirigente ad attendere fiducioso la firma di quello che avrebbe dovuto essere il quarto Contratto nazionale della Grande Distribuzione firmato da Filcams CGIL, Fisascat CISL, e Uiltucs UIL con Federdistribuzione.

Anche l’ultimo tentativo di trovare una soluzione sembra sia fallito. Probabilmente Federdistribuzione tenterà adesso di “allungare il brodo” suggerendo alle aziende di erogare una nuova tranche e rendendosi disponibile (a parole) alla prosecuzione del confronto con lo scopo di “distrarre” il ministro del lavoro che, peraltro, non sembra essere particolarmente interessato. Anche le “sue” cooperative hanno la loro vertenza in alto mare. E questo, lavoratori coinvolti a parte, conviene a tutti.

La firma, data per imminente in diverse occasioni continua a non esserci. E difficilmente potrà esserci come sostengo fin dall’inizio di questa lunga telenovela. Federdistribuzione, anche se non lo ammetterà mai, si è trovata (o si è messa da sola), tra l’incudine e il martello.

Pur non avendo un know how negoziale particolarmente sofisticato, ha pensato possibile evocare una specificità di comparto su cui far convergere le imprese associate senza valutare gli interessi spesso divergenti degli amministratori delegati delle singole realtà aziendali.

Sempre disponibili quando c’è la possibilità di non aumentare il proprio costo del lavoro, meno quando ci sono da condividere soluzioni particolarmente innovative. Nessuno, in sostanza, si vuole esporre. Venuta meno l’importanza del collante associativo, come obiettivo in sé, è rimasta sul tavolo la distanza sugli aspetti economici.

È stata probabilmente una ingenuità quella di pensare di poter ottenere un contratto nazionale in dumping avallata solo dal vago impegno di qualche dirigente sindacale di categoria particolarmente favorevole alla moltiplicazione dei contratti.

Fallito il “blitzkrieg” datoriale ma constatata contemporaneamente la scarsa conflittualità sindacale, il secondo assalto è stato condotto mettendo in campo nuovi protagonisti anche perché, nel frattempo, Confcommercio aveva firmato il suo contratto.

Due problemi di non facile soluzione sono fermi sul tavolo: il costo complessivo e le condizioni di un eventuale rientro nel fondo EST gestito da Confcommercio e CGIL, CISL e UIL di categoria dedicato al welfare sanitario.

Anche su questi punti, pur insufficienti di per sé a giustificare un ulteriore contratto nazionale, l’intesa si è dimostrata comunque impraticabile. La firma poi del protocollo sulla rappresentanza tra Confcommercio e CGIL CISL e UIL con gli impegni reciproci contenuti, sottoscritti proprio per impedire situazioni di dumping contrattuale, ha definitivamente stravolto il contesto rendendo di fatto, impossibile a chiunque, ottenere un risultato economico sostanzialmente diverso dai contratti nazionali di riferimento.

D’altra parte pensare che Confcommercio possa accettare di sostenere sulle sue sole spalle un impianto contrattuale importante e costoso per le sue imprese mentre “lontano dagli occhi” sindacalisti di vecchia impostazione insieme ad altre associazioni datoriali sottoscrivono tranquillamente accordi in dumping è un po’ difficile da pretendere.

E adesso cosa può succedere? Ovviamente nulla. Le aziende della GDO sanno benissimo che fino a Natale possono tranquillamente tirare a campare senza particolari problemi. Il sindacato di categoria, d’altro canto, non è in grado di esprimere nulla di incisivo.

Una prova di realismo da parte delle aziende più disponibili a non trascinare fuori tempo massimo la vertenza sarebbe quella di applicare il contratto in essere firmato da Confcommercio a fronte di precise contropartite da individuare.

Alcune aziende lo stanno già facendo dietro le quinte. Le più strutturate e con problemi veri dovrebbero muoversi cercando di individuare seriamente garanzie, bilanciamenti, tempi, modalità, contenuti. Credo sia interesse di tutti superare questa impasse.

Non sarà sufficiente l’erogazione unilaterale di una tantum a fine luglio da parte delle imprese né i continui equilibrismi di una parte del sindacato a concordare una via di uscita onorevole. Machiavelli ricorda sempre che non si può essere innocui al Popolo e di sollievo al Principe.

Sul versante politico il Ministro Poletti dovrà, prima o poi, rispondere della latitanza del suo Ministero. Su quello sindacale, probabilmente, si cercherà comunque di forzare la mano sul piano legale. Ma ne vale la pena?

Forse occorrerebbe prendere atto della situazione cercando, insieme (Confcommercio, Federdistribuzione, sindacati di categoria) una strada diversa da quelle percorse fino ad oggi che tenga conto del mutamento profondo dello scenario.

Ma anche musica e suonatori dovrebbero cambiare. L’interesse delle aziende e dei lavoratori del settore, i costi relativi e quindi l’entità degli aumenti e della sua distribuzione possono trovare una risposta percorrendo strade in linea con gli accordi firmati da Confcommercio con CGIL, CISL e UIL.

Ci sono diverse ipotesi percorribili e in linea con quanto richiesto (in termini di costi) dalle principali aziende del settore. Basta volerlo approfondire seriamente senza continuare a guardare il contesto dal proprio buco della serratura.

È chiaro che c’è un problema economico serio per le imprese della GDO. Nessuno lo nega. Occorre avere più coraggio e più consapevolezza in funzione di dove si vuole o si può arrivare. Più che cercare sponde inutili nel sindacato in una logica (questa si) da bottegai del secolo scorso le imprese dovrebbero guardare ai problemi che hanno di fronte a 360 gradi.

Le risposte esistono. Basta volerle trovare. Scegliere di non fare nulla, isolerà ancora di più le aziende della Grande Distribuzione che non lo meritano. E questa è una deriva che sarebbe meglio evitare. Da parte di tutti.

Riflessioni sulle leadership…

L’assemblea annuale di Confcommercio, al di là dell’attualità dei contenuti proposti dalla  relazione, ha riportato sotto i riflettori l’importanza della leadership nelle dinamiche politiche e sociali attuali.

La standing ovation finale riservata al Presidente Carlo Sangalli dal “suo popolo” ne ha segnalato plasticamente l’attualità e l’importanza . Lo stesso Carlo Calenda (indubbiamente un leader di nuovo conio e spessore) che aveva recentemente duettato con Vincenzo Boccia nella assemblea di Confindustria si è misurato, con diversa considerazione, sia con la platea attenta ed esigente di Confcommercio che con il “suo” Presidente cogliendone la differenza sostanziale tra i due mondi.

Ryszard Kapuściński, scrittore polacco autore dell’interessante “In viaggio con Erodoto”, racconta che T.S. Eliot nel saggio su Virgilio del 1944, mette in guardia contro un tipo particolare di provincialismo, quello del tempo.

“Nella nostra Epoca in cui la gente tende sempre di più a confondere la saggezza con il sapere e il sapere con l’informazione, e in cui cerca di risolvere problemi esistenziali in termini meccanicistici, nasce un nuovo tipo di provincialismo che forse merita un nome nuovo.

È un provincialismo relativo non allo spazio bensì al tempo, che considera la storia una pura e semplice cronaca degli accorgimenti umani i quali, una volta compiuta la loro funzione, sono finiti nella spazzatura. Un provincialismo secondo il quale il mondo sarebbe una proprietà esclusiva dei contemporanei dove la continuità con il passato non esiste. Dove l’esperienza non detiene quote di mercato.

Conclude Kapuściński: “Esistono quindi i provinciali dello spazio e i provinciali del tempo. Basta un mappamondo per dimostrare ai primi quanto siano ciechi e fuorviati dal loro provincialismo; basta una pagina di storia per dimostrare ai secondi che il presente è sempre esistito”.

Vecchie e nuove generazioni si sono sempre affrontate per poi passarsi, al momento giusto, il testimone. Nella politica, l’età non è mai stata, di per sé, un’elemento di garanzia. Anzi. L’età non conta, ad esempio, per Bernie Sanders, senatore del Vermont dal 2007 che con i suoi 76 anni nella corsa alla Casa Bianca è riuscito a trascinare l’entusiasmo dei giovani democratici americani.

Oppure per James Corbyn che ha conquistato il Labour Party dopo i 65 anni in alternativa agli eredi di un mostro sacro del revisionismo socialdemocratico come il giovane (a suo tempo) Tony Blair ed è riuscito a rimontare in modo impressionante su Theresa May.

Giovani e meno giovani se le sono sempre cantate e suonate. Quando il democristiano Mariano Rumor lancia “Terza Generazione”, ad esempio, era poco più che trentenne così come quando Forlani, De Mita o Craxi, sotto i quaranta, tentarono, a volte con successo, altre volte meno, di scalare i rispettivi partiti hanno sempre posto al centro anche la questione generazionale. Con tutta la strumentalità del caso.

Per non parlare del mondo delle imprese dove i passaggi generazionali sono a volte traumatici e spesso mettono a rischio migliaia di posti di lavoro. Marco Bentivogli della FIM CISL con una dura quanto azzeccata metafora sui cosiddetti “figli di papà” trasmette un sentimento purtroppo diffuso: “I padri, pancia a terra in officina mentre i figli pancia al sole a Formentera”. Non è sempre così, fortunatamente.

La giovane età, in sé, non è mai stato un fattore di successo. Anzi, aver vissuto solo il presente non abilità ad alcuna corsia preferenziale per affrontare il futuro. L’esperienza, la capacità di non farsi abbagliare dal nuovismo e di saper dosare e affrontare i rischi di una decisione sono fondamentali per chi ha ruoli di leadership vera.

Un altro elemento determinante che non ha alcuna relazione con l’età è la capacità di parlare al cuore della propria gente più che alla testa, tipica dei leader consumati. In tempi di imbonitori e di venditori di fumo cinici e spregiudicati l’aver vissuto e condiviso storie personali ed esperienze di vita fa ancora la differenza. E questa non si improvvisa.

Oggi in politica, nelle associazioni e nelle imprese c’è, al contrario, carenza di leadership vere, forti e visionarie. C’è spesso una esagerata presenza sui media, tanta comunicazione unilaterale, scarsi risultati concreti. In questo modo, però, le leadership si logorano velocemente e indeboliscono le loro organizzazioni o i movimenti che le esibiscono.

La disintermediazione assume una sua ragion d’essere anche a causa di queste fragilità. Ed è stata ridimensionata  nel nostro contesto anche perché si è trovata di fronte movimenti radicati e leader riconosciuti.

Eppure le leadership longève restano punti di riferimento fondamentali in una società complessa. Napoleone definiva i leader “commercianti di speranza”. Io la trovo una definizione stupenda. I grandi imprenditori o i manager di imprese globali guidano, ingaggiano e trascinano migliaia di persone pur di differenti nazionalità e radici indicando strategie, unificando linguaggi e culture. Questo è possibile solo coinvolgendo i propri collaboratori attraverso momenti specifici, forme sofisticate di comunicazione e sapendo creare momenti di condivisione collettiva.

Nonostante questo le aziende sono però molto meno complesse delle associazioni di rappresentanza e dei partiti, che, a differenza delle imprese stesse, devono (necessariamente) fare i conti anche con il consenso democratico, quindi con opinioni diverse, correnti organizzate, localismi, gruppi di interesse che rendono le leadership ancora più determinanti per governarli.

Da qui nasce l’importanza delle squadre che si costruiscono intorno alle leadership che ne possono potenziare ruolo e carisma oppure offrirne una immagine a volte inconsistente o sbiadita. Per queste ragioni le grandi organizzazioni politiche e sociali tendono a creare rapporti di fiducia e di stima nel tempo nei confronti del proprio leader oltre la qualità delle squadre di vertice stesse. È questo che da la cifra del loro successo.

Le  leadership vere ciascuno se le tiene strette riproponendole nel tempo. Peter Duker ci ricorda che “I leader più in gamba non pronunciano mai la parola io. Non lo fanno non perché si sono esercitati a non dire io ma perché, semplicemente, non pensano in termini di io ma di noi, in un’ottica di squadra”. Ed è questo che crea fiducia, rispetto, identificazione e continuità nel tempo. Ed è quello a cui si è assistito e respirato nell’auditorium di via della Conciliazione intorno al Presidente di Confcommercio Carlo Sangalli.

L’importanza del congresso della FIM CISL per la CISL..

Il congresso dei metalmeccanici della CISL conclude una fase e ne apre una nuova. Il contenuto del libro scritto da Marco Bentivogli “Abbiamo rovinato l’Italia?” e la firma del nuovo CCNL avevano segnalato un inizio di saldatura tra teoria e pratica.

L’idea di un sindacato autorevole, in grado di uscire dalla gabbia del 900, post ideologico ma ancorato a valori sani, affatto superati. Il congresso ha confermato e rilanciato questa impostazione. Intorno alla FIM CISL si sta radunando un mondo interessante, vivace, intellettualmente stimolante che propone un concetto di “comunità in cammino” dove il lavoro, nella sua accezione più moderna, diventa obiettivo, misura e senso.

Dove non c’è più spazio per la demagogia né per la vecchia retorica sessantottina. Dove la vita sociale e la democrazia non si fermano davanti ai cancelli dell’azienda ma ne diventano parte integrante in termini di diritti ma anche di doveri. Dove la realtà va cambiata vivendola e non trasformandola in un eterno drago invisibile da combattere.

Lo stesso slogan “Indipendenti ma non indifferenti” segnala la volontà di instaurare un rapporto adulto e pragmatico con la politica fatto di convergenze sulle risposte necessarie al futuro del Paese. Senza sconti ma senza pregiudizi ideologici.

Non c’è dubbio che la FIM CISL conferma e mette a disposizione dell’intero movimento sindacale, ma anche delle sue controparti, nuove strade da esplorare che pongono la responsabilità e la crescita della persona umana al centro della società e dell’impresa.

La novità è che, finalmente, questa puntigliosa rivendicazione non è accompagnata dalla solita saccenza sindacale di chi si sente depositario della ragione assoluta condita da insopportabili atteggiamenti predicatori destinati a lasciare il tempo che trovano.

Al contrario è una disponibilità da condividere, modellare e costruire, insieme, nell’interesse dell’impresa, del lavoro e di ciò che ci sta intorno. In questo senso un congresso sindacale utile, importante e diverso da tutti quelli celebrati in questa fase dalle altre categorie cisline.

E qui forse sta il punto vero sul quale focalizzare la riflessione nei prossimi giorni. Quanto emerso dal congresso della FIM CISL in termini di profondità e chiarezza non ha nulla da condividere con la tradizionale retorica congressuale uscita dalla stragrande maggioranza degli  altri congressi di categoria.

Se togliamo il congresso della FEMCA CISL e poco altro che hanno confermato una tradizione collaborativa e riformista già nota, nessun altro congresso ha proposto alcunché di rilevante o che verrà ricordato dai posteri.

Annamaria Furlan ha, davanti a sé, un compito ingrato al suo congresso. Scegliere contenuti e qualità continuando fino in fondo la trasformazione della CISL che ha iniziato all’insegna della trasparenza e in questo modo riposizionare definitivamente l’intera CISL proiettandola nel futuro o restare ferma subendo le logiche interne di conservazione orami evidenti in molte categorie.

Lo scontro, più o meno esplicito, emerso anche dall’unico punto abbastanza criptico (visto dall’esterno) della relazione di Marco Bentivogli sulle vicende interne tra le categorie industriali e nei rapporti con la Confederazione non ha chiarito in modo univoco la direzione di marcia forse con lo scopo di consentire al congresso confederale il compito di trovare le sintesi necessarie.

Non sarà un passaggio di poco peso. La CISL è in evidenti difficoltà di ruolo e di proposta. Da un lato la CGIL ha già individuato una direzione di marcia che la pone al centro dell’iniziativa ma che rischia, se condivisa, di portare l’intero convoglio confederale, su di un binario morto.

Dall’altro lato il “dopo Bonanni” si sta rivelando molto più complesso del previsto. Il ritorno sulla scena di una CISL protagonista e propositiva resta però fondamentale.

Annamaria Furlan, in questi mesi si è mossa abbastanza bene affrontando alcuni nodi in modo risoluto. Per questo il congresso confederale sarà, da questo punto di vista un passaggio molto importante. Staremo a vedere.

Il paradosso dei metalmeccanici

Mentre la Politica si interroga sul migliore sistema elettorale possibile i corpi intermedi si ripropongono, da diversi punti di vista, all’attenzione del Paese.

Confindustria ha detto la sua nella sua ultima assemblea rimettendo al centro del dibattito l’idea di un “Patto di scopo” come contributo importante alla soluzione dei problemi del Paese a cui seguiranno le proposte di altre organizzazioni datoriali a cominciare da Confcommercio che domani affronterà la sua assemblea annuale.

Sul fronte sindacale, va in scena, oggi, il congresso dei metalmeccanici della CISL. Anche su questo versante ci sono segnali di una rinnovata volontà di riposizionamento strategico dopo la firma dei grandi contratti che hanno dimostrato una vitalità interessante, soprattutto nel comparto industriale.

Il congresso della FEMCA CISL ha confermato la volontà di questa organizzazione di continuare a rappresentare un importante punto di riferimento nel panorama sindacale. È un comparto che, unitariamente, ha sempre avuto una vocazione riformista e ha saputo sempre trovare pragmaticamente tutto ciò che si è reso necessario per governare l’innovazione, i cambiamenti organizzativi e culturali che hanno attraversato il settore.

I suoi dirigenti in tutte e tre le organizzazioni sono sempre stati personaggi sobri, in grande sintonia con i propri rappresentati, poco disponibili a strappi e avventure. Da sempre contrappeso politico e sindacale alla esuberanza dei metalmeccanici. Fondamentale il loro ruolo nelle rispettive organizzazioni confederali.

È però indubbio che, al di là dei propri recinti organizzativi, qualcosa si sta muovendo. In tutte e tre le confederazioni. Difficile prevedere se e dove approderanno le scelte che, dopo la firma dei contratti, hanno ripreso a segnalare crepe tra la CGIL e le altre organizzazioni.

Un dato però è certo. Il congresso che si apre oggi è da seguire con interesse. Non per l’esito che è ovviamente scontato e che si concluderà con l’elezione di Marco Bentivogli come leader indiscusso della categoria ma per capire se il sindacato che verrà delineato dallo stesso Bentivogli saprà guardare oltre la categoria ponendosi come punto di riferimento per un rinnovamento sindacale di cui ne ha bisogno il Paese.

E non lo dico pensando alla sola strategia della CISL che è oggi evidentemente abbastanza difficile da decifrare come alternativa ad una CGIL che, al contrario, sembra essere in ben altra situazione ma pensando alla novità rappresentata da un sindacato che tanto ha dato (nel bene e nel male) nella costruzione del modello precedente e che oggi è in grado di contribuire in modo altrettanto importante a delineare le nuove sfide, i contenuti e le forme organizzative necessarie a realizzarli.

Dalla FIM CISL oggi ci si aspetta molto. Il loro rinnovo contrattuale, la tenuta delle intese unitarie, i tempi legati all’innovazione e ai nuovi livelli contrattuali hanno trovato un nuovo punto di riferimento sia nel sindacato sia nella rispettiva controparte datoriale. E non era facile prevederlo.

La volontà di cambiare quando si manifesta proprio laddove il cambiamento è ancora più necessario ha molte più possibilità di tradursi in fatti concreti rispetto a dove le parole servono solo a mascherare un istinto gattopardesco e di conservazione della propria poltrona. Per questo a noi spettatori non resta che il compito di augurare a Marco Bentivogli e ai suoi metalmeccanici un grande in bocca al lupo per la loro assemblea.

Abbiamo bisogno tutti che sia un momento vero, profondo e sentito di cambiamento perché è destinato a produrre conseguenze un po’ su tutto il sistema. L’asticella va alzata per ciascuno di noi. Oggi più che mai. Per questo il congresso della FIM CISL è diverso dagli altri.

Nel panorama generale a loro è assegnato il ruolo della “goccia che fa traboccare il vaso”, un atto a volte incomprensibile e inaspettato ma nel quale, è sempre nascosto ogni vero cambiamento.

Come si può chiedere un aumento di stipendio?

Nel 2010 la casa editrice Einaudi ha pubblicato uno scritto di Georges Perec, definito, qualche anno prima, dalla critica francese «il racconto esilarante di una corsa ad ostacoli, di comici rimbalzi e appuntamenti mancati».

Il titolo: “L’arte e la maniera di affrontare il proprio capo per chiedergli un aumento” recentemente rilanciato da Fabio Savelli sulla Nuvola del Lavoro del Corriere. Con una ironia pungente Perec, scrittore molto interessante purtroppo scomparso giovanissimo, pone un tema rilevante.

Oggi, è ancora sufficiente “prendere il coraggio a due mani, alzarsi dalla scrivania e andare dal proprio capo con una richiesta di aumento retributivo” così come è stato per buona parte del 900?

Assolutamente no.

Il risultato sarebbe quasi sicuramente un garbato quanto netto rifiuto con tutto il seguito di rancori e frustrazioni inevitabili.

Nel mio lavoro di DIrettore Risorse Umane ho avuto la possibilità di esercitare entrambi i ruoli. ho richiesto riconoscimenti economici (non sempre con successo) e, per funzione aziendale, ho dovuto ascoltare le richieste di colleghi e collaboratori. Dalla mia esperienza ho tratto alcune riflessioni che vorrei condividere.

Le persone, anche se hanno raggiunto un certo livello di integrazione in azienda, faticano a parlare di sé, del proprio stipendio, delle proprie aspirazioni professionali o dei propri interessi. A volte si lamentano con i colleghi e attendono che, prima o poi, le Direzioni Risorse Umane o il proprio capo, si ricordino di loro.

Le aziende, in genere, hanno una loro politica retributiva annuale nella quale occorre sapersi inserire positivamente e al momento giusto. Le aziende più strutturate propongono un incontro di valutazione e sviluppo almeno una volta all’anno ed è un momento importante, formale, da non sottovalutare.

Saper rappresentare le proprie esigenze, formative e professionali o chiedere un adeguamento retributivo fa parte del set di competenze necessarie nel mondo del lavoro di oggi. Per farlo occorre possedere buone capacità negoziali, intraprendenza, conoscenza del contesto, giusta ambizione, determinazione. Ma anche saper gestire una possibile sconfitta, reagire positivamente e rapidamente, trarne insegnamenti utili. Tutte capacità che si possono apprendere senza particolari problemi.

Per questo non è affatto un momento da banalizzare. Va preparato nei minimi particolari. Come se si dovesse incontrare, da candidato per una nuova posizione di lavoro, un head hunter professionista.

L’interlocutore aziendale che ci si troverà davanti, in genere, non è uno sprovveduto. Conosce le politiche retributive dell’azienda, l’organizzazione nel suo insieme, i tempi, le eventuali modalità di erogazione, la valutazione vera sul contributo e sul peso specifico del richiedente.

Per queste ragioni la richiesta di incontro deve essere innescata da una ragione professionale oggettiva. Almeno nelle intenzioni. Un attività seguita che dimostra una maggiore copertura del ruolo, un contributo importante al lavoro del team, un progetto andato a buon fine.

Scelto il motivo, l’incontro dovrà essere richiesto in modo formale. Non si può discutere di sé in coda ad una riunione o in presenza di altri! L’ordine del giorno dovrà essere preannunciato e motivato dall’esigenza di potersi confrontare con chi è preposto, per ruolo, a farlo. Meglio, se possibile, concordare anche il tempo a disposizione.

La prima parte del confronto dovrà essere dedicata alla presentazione di sé, delle proprie aspettative professionali, del proprio contributo ai progetti e ai risultati aziendali. In sostanza occorre dedicare una parte del tempo a sottolineare l’importanza del proprio investimento personale nell’azienda e dei risultati realizzati come conferma della propria crescita.

Questa fase non deve essere un monologo né contemplare rivendicazioni passate o lamentele inutili ma neppure richieste precise. Deve semplicemente sollecitare un dialogo e, possibilmente, una condivisione dell’interlocutore sui fatti.

Attenzione! Solo se questa fase sarà sviluppata correttamente e completamente si potrà passare alla fase successiva: quella delle richieste specifiche. Chiarita l’asimmetria nei comportamenti tra impegno personale e riconoscimento dello stesso occorre dimostrarsi aperti a soluzioni differenti, distribuite nel tempo, sia sul piano quantitativo che qualitativo lasciando all’interlocutore aziendale la possibilità di riflettere e, eventualmente, di controbattere con argomentazioni nel merito delle problematiche poste.

Questa è la fase dove la conoscenza del contesto, la capacità negoziale e la determinazione possono giocare un ruolo decisivo. Da entrambe le parti. A questo punto le carte saranno tutte sul tavolo.

L’interlocutore aziendale può decidere di avanzare una soluzione di compromesso, proporre di valutare la richiesta all’interno di future politiche retributive e di sviluppo o rispondere negativamente. Il richiedente avrà, innanzitutto, chiara la valutazione che l’azienda (o il proprio capo) ha di lui quindi la convenienza o meno ad investirci passione ed energia, in futuro. O cercare un altra sfida sul mercato.

Nello stesso tempo, l’azienda, forse per la prima volta, si sarà potuta fare un’idea diversa del collaboratore, del suo approccio da professionista e delle sue capacità. Qui sta il vero salto di qualità. Far percepire ai responsabili aziendali (capo o DHR) la presenza di un collaboratore professionale, attento ai propri interessi e disponibile a rimettersi in discussione. Ma anche esigente e, perché no, dotato di una giusta ambizione. Il mercato del lavoro richiede sempre più soggetti con queste caratteristiche.

Crescere in azienda significa anche saper giocare le proprie carte e sapersi far valere. Per questo un colloquio serio e argomentato, se preparato e gestito bene, sarà stato comunque positivo e utile. Soprattutto per consolidare e sviluppare la propria capacità di interagire con interlocutori interni o esterni all’azienda a tutela dei propri interessi economici e professionali.