Nuova politica, impresa e lavoro alle prese con la quarta via…

Personalmente ho avuto la fortuna di conoscere e di collaborare con ottimi manager e importanti imprenditori. Da alcuni di loro ho imparato molto. Non solo sul piano professionale.

Come manager mi sono formato in Danone negli anni in cui il gruppo alimentare francese risentiva ancora profondamente della guida e del pensiero di Antoine Riboud.

Rileggere oggi le parole che questo grande imprenditore pronuncio davanti al MEDEF (la Confindustria francese) nel 1972 a Marsiglia fanno riflettere per la loro attualità. “Noi dobbiamo sforzarci di ridurre le disuguaglianze eccessive in materia di condizioni di vita e di lavoro e saper così rispondere alle aspirazioni profonde dell’uomo. Il ruolo dell’imprenditore c’è e ha senso se sa rispettare i valori di tutte le componenti dell’impresa. Il ruolo e la responsabilità dell’imprenditore assumeranno una nuova dimensione se saranno sempre più sottoposti a due criteri di valutazione: la realizzazione degli obiettivi economici nel rispetto del volere degli azionisti, del contesto ambientale ed economico nel quale l’azienda opera e, contemporaneamente, se realizzeranno gli obiettivi umani e sociali dei propri collaboratori”.

Per alcuni, oggi, questa impostazione è figlia del passato, per altri pura fantascienza. Per me è una impostazione che, al contrario, ritorna prepotentemente di grande attualità.

Certo le condizioni sono cambiate così come è cambiata la stessa azienda che fu di Antoine Riboud in cui si sono avvicendati manager che hanno faticato a condividere e a seguire fino in fondo le idee del fondatore soprattutto quando l’azienda si è dovuta misurare con la Borsa e con i processi di mondializzazione del suo business. La semina ha comunque prodotto buoni frutti.

Ma proprio la globalizzazione con le conseguenze economiche e le reazioni negative che ha prodotto in molti Paesi, con gravi rischi per il tessuto democratico nel quale ci siamo formati, riporta in primo piano la necessità di ricostruire nell’impresa, nel territorio e nel contesto socio economico nel quale l’azienda opera quei valori che sono alla base della condivisione, della corresponsabilità e quindi di autentica convergenza sugli obiettivi.

Ma questa nuova condivisione (dei rischi e delle opportunità di un’impresa) si realizza se il fattore lavoro viene rispettato, valorizzato, retribuito correttamente. Se il lavoratore si sente parte dell’impresa nella quale porta il suo contributo e se il suo diritto di associarsi liberamente in un sindacato gli viene riconosciuto.

Una globalizzazione dove c’è spazio solo per chi vince non solo è un rischio per la democrazia ma non può interessare neanche ai veri imprenditori.

Per questo vedere i soliti “grandi” noti più per la capacità a socializzare le loro perdite che per essere protagonisti di veri successi imprenditoriali, correre al tavolo di Obama, non può che suscitare evidenti perplessità.

L’ex Presidente americano, il premier canadese Trudeau, il futuro Presidente Francese Macron a cui si è unito l’attuale segretario del PD Renzi, si propongono come sintesi di un nuovo pensiero globale. Un pensiero che fa dell’ambiente, dei diritti dell’uomo, della pace e del sostegno di chi, nella globalizzazione resta indietro, i suoi pilastri di fondo.

Fa bene Di Vico oggi sul corriere ( http://bit.ly/2qczp7I ) ad intuire e suggerire che solo una profonda contaminazione tra la cultura da cui partono i nuovi liberal e la proposta cattolica più attenta al mutamento sociale può produrre nuovi scenari.

Così come la convergenza e l’assunzione di responsabilità diretta tra il mondo dell’impresa e del lavoro che, insieme, possono contribuire alla costruzione della cosiddetta quarta via perché consapevoli che la politica non può essere caricata in esclusiva di soluzioni che sono sempre meno alla sua portata.

Al di là della Francia o di quanto prevedibilmente potrà succedere negli altri Paesi Emmanuel Macron conferma l’esistenza di una speranza possibile. Oltre le culture tradizionali del 900 di destra e di sinistra qualcosa sembra muoversi.

Non necessariamente contro la migliore destra o la migliore sinistra anch’esse in fase di ripensamento e rinnovamento. Staremo a vedere.

Non sarà certo una traiettoria lineare né scevra da contraddizioni profonde. Però è una interessante e nuova direzione di marcia da esplorare.

Skills mismatch and labor market di Stella Sassi

We must produce more, produce better and innovate more: this warning, also expressed by the Governor of the Bank of Italy, is confirmed by the analysis of the evolution of the relationship between supply and demand.

The lower ability to promote and absorb the medium-high skills shows all the difficulties of an economy that does not grow because it does not innovate and, for this reason, does not adequately reward the best skilled people.

From all observers emerges that the baggage of knowledge soft and hard and skills are a major economic factor: the present socio-economic situation confirms the centrality of the “human capital paradigm”.

However, the approach to human capital must consider its multiple nature, which concerns skills, experiences, attitudes and flexibility. Formal qualification and formal skills are very important, but they do not exhaust and explain all the aspects related to the “capital” that every person owns or can possess.

Measuring the performance of the skills is not easy, and furthermore it is evident that in Italy where the productive fabric is formed by a high prevalence of micro enterprises and manufacturing sector with a low share of human capital does not always show the right propensity for technological and organizational innovation.

This leads to a labor market where “skills performance” is less dynamic and it rewards workers and companies less than it does in other European competing countries.

Studies on the Italian skills mismatch show the consequences of these static nature and delay in comparison to other Member States, such as overqualification or inadequate level of remuneration for those with a higher level of skill set.

There is the insufficient effort in Italy to match highly specialized professions with high levels of education. This however, does not prevent two coinciding phenomena: higher skills reduce the risk of unemployment and also gender gap between men and women in accessing opportunities.

Even in the South of Italy, during the years of crisis, it was observed a sharp rise in the number of unskilled unemployed, while it grew the employment share of highly skilled workers.

It is also important to notice that long-term unemployment rose sharply amongst the group of low skilled workers.
The need for (continuous) upgrading of the skill level in most occupational fields threatens the labor market position of low-skilled workers who are crowded out of their traditional occupational domains.

This means that low-skilled workers are either locked up in poorly paid elementary jobs with flexible contracts that further weaken their labor market position or crowded out of employment entirely. A similar argument applies to female employees who have spent considerable periods outside the labor market to care for their children and to older employees who have outdated skills.

Many policy makers and experts argue that low-skilled workers can also benefit from the changes in the demand for skills if they receive additional training.
Participation in training may be of great relevance to increasing the labor market participation of low-skilled workers in general and of older low-skilled workers in particular.

Many studies in the field of human capital theory find that investments in the skills of workers have a positive effect on their productivity. These skills can be acquired in several ways. Both initial education and post-initial training (“lifelong learning”) contribute to a worker’s human capital.

There are various ways of post-initial learning: Workers may increase their human capital by participating in formal training courses, but also ‘learning-on-the job’ or experience appear to play a major role in acquiring the skills that are relevant for a worker’s productivity.

Other possible stimuli for improving the willingness of firms to invest in training of low skilled workers are tax discounts or exempts on training expenses, subsidized vocational training programmes, paid training leave, tax levies that oblige employers to spend a certain percentage of their total wage bill in training, or training funds from employees, employers, and public sources.

Finally, it is important to be aware of the spillover effects of R&D policy on the labor market position. As particularly in the first ‘innovation’ stage of the life cycle of a new technology the relative demand for high skilled workers will be the largest, it might be argued as suggested by Sanders years ago, that European governments might save on the tax money spent on programmes to stimulate the labor market position of the lower skilled workers, when R&D policies in Europe might be more targeted on the development of existing technologies, instead of the current focus on basic research.

Dove può portare la strategia della CGIL?

Ieri c’è stata una importante mobilitazione della CGIL che viene sottovalutata nei commenti della stampa di oggi. Una manifestazione finalizzata a capitalizzare una vittoria importante (dal loro punto di vista) e a serrare le fila del primo sindacato italiano in un contesto politico e sociale estremamente complesso.

Non dobbiamo dimenticare che il definitivo affermarsi dei pentastellati e dei sovranisti sul piano dell’opposizione politica al sistema toglie inevitabilmente spazio di manovra a tutta quell’area che si muove a sinistra del Partito Democratico.

Da noi come altrove in Europa, lo scontro che tende a prevalere è tra populismi vecchi e nuovi e establishment sotto il cui ombrello si riparano e convergono non solo tutti coloro che hanno un interesse economico ma anche chi ha paura di perdere ciò che ha, chi crede nel gradualismo riformista e nell’Europa e chi teme che i “nuovi barbari” siano pericolosi a prescindere.

Questo determina che la maggioranza degli elettori in quasi tutti i Paesi, probabilmente Italia compresa, sembri non cercare avventure né rivoluzioni. Inoltre il prevalere dei pentastellati, sopratutto nelle nuove generazioni, rende sempre più lontana e impalpabile quest’area politica che non riesce neanche a convergere su di un progetto unitario credibile.

C’è una eccezione, da non sottovalutare, che mantiene un forte potere di attrazione e di ricomposizione sociale: la CGIL. Di fronte al rischio di essere spinta verso l’estremismo sociale e sindacale su cui si stava avventurando la FIOM del primo Landini o di restare ferma al palo per la difficoltà di concordare strategie e iniziative con CISL e UIL, la CGIL sembra aver imboccato un percorso su di un doppio binario.

Attrarre e coprire essa stessa una forte iniziativa sul terreno sociale (referendum, carta dei diritti, manifestazioni di organizzazione), cercare accordi sui contenuti con CISL e UIL, nelle categorie, con la contrattazione o, direttamente insieme a loro, nei confronti delle organizzazioni datoriali e delle istituzioni.

L’obiettivo di questa iniziativa politica a geometria variabile è contendere il campo ai pentastellati in tema di opposizione all’establishment, consentire ai resti della sinistra un tempo sufficiente di ricostruzione e ricomposizione di un’area politica di impronta socialdemocratica e arrivare così uniti al prossimo congresso.

Susanna Camusso consegnerebbe così al suo successore una CGIL decisamente rinnovata nei gruppi dirigenti, protagonista sulla scena sociale, punto di riferimento per una nuova sinistra più vicina ai Sanders, ai Corbyn e ai Melanchon che ai più moderati Schulz, Renzi e Macron.

Non dimentichiamo che l’aveva ereditata in pessime condizioni da Guglielmo Epifani. Divisa, messa in un angolo da CISL e UIL e dagli accordi separati, frustrata al suo interno per la debolezza di proposta e di iniziativa.Tenuta a distanza dal PD già ben prima che lo stesso si lanciasse nella disintermediazione renziana.

Nessuna forzatura sui contratti nazionali né con le organizzazioni datoriali con cui si sono siglati accordi importanti, hanno rappresentato il primo giro di boa.

La vittoria a tavolino sui quesiti referendari, il secondo. La CGIL ha capito benissimo che, oggi, non è in grado di fare forzature né mobilitazioni nelle imprese. Poche risorse disponibili, investimenti ai minimi storici, strategie di coinvolgimento del capitale umano che tendono ad escludere il sindacato. Tipologie contrattuali sufficientemente lasche, soprattutto sui giovani. Troppo forte il divario di forze in campo.

Ma ha capito benissimo la fragilità della politica e delle istituzioni in difficoltà ad affrontare le priorità con risorse scarse e sotto tiro dei pentastellati, le difficoltà interne allo stesso Partito democratico e la confusione che regna nella destra italiana.

L’assenza di CISL e UIL completano il quadro. Così come ha capito benissimo che può tentare di aggirare il terreno minato rappresentato dalle imprese così come ha fatto sui voucher grazie anche al situazione di evidente stallo della stessa Confindustria.

La riuscita di questa strategia non è scontata. Innanzitutto perché le sinistre sociali e politiche tradizionali sono in crisi in tutta Europa. Lo scontro tra populismi e establishment nazionali, tutt’altro che terminato, trascina altrove il malcontento di una parte consistente del potenziale bacino di riferimento.

Lavoro, immigrazione, crisi economica sono temi che spaccano e le cui difficili risposte, tutte ancora da individuare, sono terreno fertile per i demagoghi di turno. E, su questi temi, la CGIL viene percepita, fuori dal suo recinto organizzativo, come rappresentante di una parzialità autoconservativa e difensiva quindi incapace di contribuire a individuare risposte complessive credibili.

In secondo luogo il rapporto con CISL e UIL confederali che rischia di ritornare conflittuale pur scontando l’evidente vuoto di iniziative e di proposte di queste ultime. La fine della stagione degli accordi separati è avvenuta più per decisione esterna che per scelta consapevole delle tre organizzazioni e poteva essere propedeutica ad un nuovo scenario di unità e di convergenza di tutto il mondo della rappresentanza. Convergenza fondamentale per rilanciare il Paese. Così, però, non è stato. Quella idea, ad oggi, sembra tramontata.

La sensazione è che, vincolate CISL e UIL ad una unità di azione “minima” e ingoiando qualche rospo di merito nelle categorie la CGIL sia riuscita a blindarsi nel suo perimetro proponendosi come soggetto politico autonomo. La scelta sui referendum, sulla carta dei diritti, sul ripristino dell’art. 18 vanno certamente in questa direzione.

La gestione del referendum Alitalia, da questo punto di vista, fornisce un elemento interessante di riflessione. All’Alitalia la CISL si è predisposta, fin dall’inizio, con generosità ma anche con ingenuità a far da supporto al Governo e ad un management poco credibile rinunciando a costruire un rapporto vero con i propri iscritti, la UIL si è trovata, addirittura, il suo sindacato di categoria che ha lasciato libertà di voto (quindi libero di remare contro) mentre la CGIL, unica ad aver ben percepito il disastro che si stava consumando, si è defilata in quelle ore cruciali evitando di esporsi e allineandosi alle altre sigle confederali, senza però forzare alcunché.

E il giorno dopo, preso atto del risultato, ha lasciato ad altri rimpianti e autocritiche cercando di rientrare in gioco con la proposta di coinvolgimento della cassa depositi e prestiti.

Infine ma non meno importante il rischio che gli effetti concreti di questa strategia, dove i confini tra iniziativa politica e sindacale sembrano scomparire, contribuiscano a indesiderabili vittorie politiche altrui.

La profondità e la lunghezza della crisi economica e il distacco percepito tra la narrazione dell’establishment e la realtà hanno scavato un solco tra rappresentanti e rappresentati che tutti cercano di riempire con i loro contenuti.

C’è chi lo fa aggiornando o rilanciando tesi e strumenti del passato e chi cercando di cavalcare le onde di un futuro comunque complesso per il mondo del lavoro e per le forme di rappresentanza.

Il forte ridimensionamento della sinistra tradizionale francese, italiana e inglese è sotto gli occhi di tutti. Sanders e Corbyn portano, in parte, la responsabilità di aver tirato la volata a Trump e alla Brexit.

L’assenza di una sinistra tradizionale in Italia dotata di una forza elettorale vera e propria rischia di mettere tutta questa responsabilità sulle spalle della CGIL che in questo modo si trova inevitabilmente  fuori da confini strettamente sindacali.

E su questo, credo, il dibattito preparatorio del prossimo congresso, dovrebbe giocare la vera partita.

Non sparare sul (nuovo) CNEL…

Nel far west faceva bella posta sul pianoforte nei saloon il cartello: ” non sparate sul pianista”. Si voleva metterlo al sicuro dalle risse e dai duelli che avvenivano quotidianamente.

Oggi, al contrario si spara su tutto ciò che si muove. Il CNEL così come l’abbiamo conosciuto prima del referendum abrogativo è morto. Non serve ricordarlo.

Il suo past President ha cercato di farlo rivivere provocatoriamente rivendicando addirittura il moto popolare che ne avrebbe impedito la sua abrogazione. Non scherziamo.

Quel CNEL è morto veramente. L’esito referendario ce ne ha riconsegnato i resti di quello che le parti sociali, almeno le più attente, avevano lasciato sul campo ritirandosi.

Indicarne Tiziano Treu come Presidente è una mossa del Governo, che condivido. Treu voleva abolire “quel” CNEL, non lo spirito positivo che lo aveva fatto inserire nella Costituzione.

Ha l’esperienza e una storia in grado di reggere l’onda d’urto dei leoni da tastiera. Certo, ha votato SI come più modestamente il sottoscritto e come tanti che volevano spazzare via un carrozzone costoso è inutile.

Non un luogo che, invece,  serve al Paese. Un luogo di confronto e di proposta per le parti sociali. Insieme.  Un luogo snello, senza costi eccessivi o inutili gettoni dove sperimentare concretamente forme di coinvolgimento e corresponsabilità nell’interesse del Paese.

Tiziano Treu è la persona giusta. Abbiamo veramente bisogno di luoghi seri, istituzionali, condivisi che offrano una chiave di lettura nuova e utile al futuro.

Per questo io gli auguro un grande in bocca al lupo per il suo lavoro. Ne avrà veramente bisogno.

Grande Distribuzione: una dannosa contrapposizione tra consumatori e lavoratori

Il sociologo Renato Curcio lo sostiene da molti anni. La persona resa “isterica” da un consumismo esasperato, soprattutto nei grandi centri commerciali, sarebbe diventata il nuovo nemico dei lavoratori del commercio del XXI secolo.

Dai nervosismi mentre fa la fila alle casse di un supermercato oppure quando si lamenta per il livello di servizio trovato o quando se la prende con la cassiera per un prodotto difettoso o scaduto.

La diagnosi è chiara. Consumatori e lavoratori del settore non possono che detestarsi. Il sindacato e le grandi imprese della distribuzione moderna ci hanno messo del loro, dagli anni 70 in poi, trasformando un negozio, piccolo o grande, poco importa, in una sorta di reparto intriso di cultura fordista con al centro il lavoro e il modello organizzativo, non il consumatore.

Personale valutato per il numero di pezzi passati alla cassa e non per la relazione con il cliente, provvedimenti disciplinari a getto continuo, pause indipendenti dall’afflusso di consumatori, tempo tuta, passaggi di livello automatici, mansionari e declaratorie studiati più per promuovere cause legali che per favorire la crescita professionale.

Un mondo autoreferenziale dove il cliente ha assunto, via via, un ruolo accessorio. L’espansione dei negozi e l’esasperata concorrenza sui prezzi e sui costi hanno ridato spazio di manovra alle imprese più attente, soprattutto multinazionali, spingendole alla creazione di un contesto nuovo, parallelo, completamente diverso fatto di giovani assunti inizialmente a tempo determinato e poi, confermati, flessibilità delle prestazioni, opportunità di carriera anche per giovani senza titoli di studio, formazione continua.

Un mondo nuovo che assumeva, via via, i valori e la filosofia delle aziende stesse e che tendeva, sempre più, a fare a meno del sindacato il quale, anziché comprendere il cambio di passo e accettare la sfida del cambiamento, si è limitato a difendere il perimetro dei propri iscritti tradizionali scavando così un solco profondo tra generazioni di lavoratori garantiti da regole sempre meno efficaci e di non garantiti fagocitati, su altri piani, dalle aziende stesse. Diventando così assolutamente marginale.

L’inutile contrapposizione sulle domeniche e sulle festività nasce in questo contesto. Oltre quattromila assunzioni, indotto escluso, hanno spinto i sindacati, locali e nazionali, a firmare decine di accordi aziendali in linea con le liberalizzazioni bersaniane e montiane poi con le formule più ardite in cambio di gettoni di presenza, assunzioni dedicate alle domeniche, volontariato, turnazioni, esenzioni per alcuni, ecc.)

Poi, però, è subentrato una sorta di ripensamento politico che ha disorientato gli stessi lavoratori del settore che, infatti, sono diventati sempre più impermeabili agli appelli alla mobilitazione sindacale.

Così come i consumatori. Il primo maggio l’autostrada Milano-Varese era al collasso all’uscita che porta al Centro commerciale di Arese. A Pasqua, l’outlet di Serravalle Scrivia ha raggiunto il top delle vendite nonostante le proteste di uno sparuto gruppo di sindacalisti alessandrini.

Media a parte, tutto sembrerebbe confermare, quello che ci dicono le survey sui consumatori e cioè che le aperture H24 e 365 giorni all’anno incontrano decisamente i favori del pubblico.

Quindi consumatori insensibili o lavoratori/consumatori anch’essi alla ricerca di opportunità di acquisto e di svago? Forse sarebbe il caso di riflettere.

Personalmente continuo a non afferrare cosa rende diversi un cinema, un parco di divertimenti, un outlet o un centro commerciale. Soprattutto quando queste opportunità convivono nello stesso luogo. E perché qualcuno mi dovrebbe dire quando e se andarci.

Trovo stravagante che il segretario generale della CISL suggerisca quando comprare un maglione, o i luoghi dove sarebbe meglio divertirsi come ha fatto in una recente intervista.

È veramente un Paese ben strano, il nostro. Se il problema fosse quello di regolamentare le chiusure, facciamolo dove ha senso farlo. Non certo in un outlet o in un centro commerciale che oggi hanno la stessa funzione (e dimensione) di un centro storico di una città: un luogo di divertimento e di relazione dove si fanno anche acquisti tradizionali.

Infine, la rete. Comprare al primo maggio “on the road” non sarebbe fair, “on line”, si. Non ho mai letto un solo invito del sindacato di categoria a non accendere il PC o il tablet nelle festività comandate. Laiche o religiose che siano. Sarebbe ridicolo.

In rete si fanno, legittimamente, promozioni, sconti e saldi h24 per 365 giorni all’anno da tutto il mondo. Zalando, ad esempio, ha in programma di aprire negozi fisici, Ikea ristoranti, Carrefour luoghi di intrattenimento innovativi. Starbucks, caffè. È un mondo in grande cambiamento.

È indubbio, però, che la rete resta un temibile concorrente della GDO. Non deve remunerare un investimento in immobili di decine di milioni di euro, promozioni e politiche commerciali complesse, negozi, spesso in franchising che devono smaltire prodotti e magazzini, lavoratori a cui va garantito un contratto nazionale. E soddisfare consumatori bombardati da offerte di ogni tipo.

Non c’è però alcuna ossessione da parte delle aziende, c’è la consapevolezza che occorre differenziarsi e differenziare brand e servizio. Alcune aziende hanno aperto a Pasqua e al primo maggio, altre no.

Più che obbligare le aziende ad aprire credo si debba lasciare loro la libertà di farlo. Così come il rapporto tra consumatori e lavoratori del settore in alcune realtà sta, fortunatamente, cambiando in profondità.

Ma, su questo, sono proprio le multinazionali che sperimentano i format più innovativi assumendosi anche i rischi conseguenti. Bisogna superare la logica che ha piegato le aziende solo sul versante dei costi che hanno fatto il loro tempo.

Manager sempre più qualificati, formazione comportamentale, addestramento continuo, crescita professionale e ricambio generazionale stanno portando i loro risultati.

Adesso è probabilmente arrivato il tempo in cui occorrerebbe intervenire sui modelli contrattuali per riportare al centro la qualità del servizio e del contributo che ciascun lavoratore può dare al successo della propria azienda offrendo al consumatore ambienti e opportunità di acquisto veramente innovativi.

Ma c’è un Macron in Italia?

Ad un passo dalle elezioni francesi e dopo il dibattito televisivo tra Le Pen e Macron i media italiani sembra abbiano rallentato la caccia all’identikit dei potenziali Macron e Le Pen italiani.

A destra il sosia c’è ed è Salvini. Anche lui, tra l’altro destinato ad un sostanziale ridimensionamento e ormai surclassato da una forma più moderna di populismo internettiano interpretata, sul suolo italico, dai pentastellati.

Per la maggioranza degli osservatori sono Renzi e Letta i due politici più segnalati per i loro punti di contatto con il probabile vincitore del ballottaggio francese.

Il primo come anticipatore di Macron attraverso l’idea (mai tramontata) del cosiddetto Partito della Nazione. Il secondo per la sua indubbia statura politica e la sua credibilità internazionale.

Entrambi però, a differenza di Macron, sono un prodotto della Politica le cui radici sono tutte nel 900. Quindi figli di una grande tradizione popolare che ne condiziona il pensiero ma, soprattutto, la conseguente incisività nell’azione di Governo.

Macron è, al contrario, un prodotto della globalizzazione sia per la sua provenienza che per il suo modo di pensare. È fuori dagli schemi destra/sinistra tradizionali, è un prodotto del nuovo capitalismo che guarda all’Europa in modo nuovo  ed è il segno della presenza di una diversa generazione di tecnocrati di nuovo conio e di spessore stanca della politica tradizionale e desiderosa di proporre un disegno riformista di grande respiro.

La Francia delle banlieu, delle contraddizioni etniche, del terrorismo e del declino industriale si trova a dover fare i conti con un profilo di manager e di politico diverso dal passato. E questa Francia sembra essersi convinta di aggrapparsi a questo progetto e non a farsi attrarre dalla vecchia politica litigiosa e inconcludente seppur rappresentata dai Melanchon, dai Fillon o dalla Le Pen stessa.

Un Paese in crisi di identità che sceglie di raddoppiare la posta anziché accomodarsi nelle braccia del demagogo di turno o di chi rappresenta una onesta continuità con il passato.

E in Italia? Forse dobbiamo partire dal fatto che la matrice del nuovo modello di candidato francese è rappresentata da tre caratteristiche fondamentali: essere di nuova generazione, non provenire dalla politica tradizionale e possedere un CV professionale significativo. Se questo è vero non è difficile individuare, anche da noi, chi ha quel profilo.

Innanzitutto dobbiamo scartare chi è partito troppo presto come Stefano Parisi. Ottimo candidato ma divisivo sia a destra che a sinistra.

Poi chi ha un ottimo CV ma non le altre caratteristiche richieste come, a suo tempo, Giannino, o Boeri, o Passera ma anche lo stesso Sala. Anche Renzi, pur essendo di nuova generazione, manca comunque degli altri elementi della matrice. Così come Letta per gli stessi motivi. Due candidati che possono certamente rientrare in campo. Ma non in questo giro.

A questo punto ne resta solo uno: Carlo Calenda. Esponente della nuova generazione, ministro, scarsi contatti con la politica tradizionale e ottimo CV ne fanno un profilo di grande interesse con una biografia familiare e professionale di tutto rispetto.

L’Italia non è la Francia, questo è vero però è anch’esso un Paese che deve rassegnarsi all’idea che la “ricreazione” sta finendo e presto suonerà la campanella. La vicenda Alitalia e la prossima legge di stabilità, a mio parere, segneranno lo spartiacque tra il ministro Calenda e il PD.

Renzi, che lo voglia o meno, dovrà reggere, fino alle elezioni, uno scontro durissimo con Grillo e con Salvini. Dovrà rassegnarsi a spostare un po’ più a sinistra l’asse interno del Partito per tenerlo unito quindi difficilmente potrà essere il candidato premier al prossimo giro.

Per questo Carlo Calenda ha fatto bene a declinare l’endorsement di Berlusconi. Io credo che presto si farà da parte dall’attuale Governo per poter giocare al meglio le sue carte.

Per chi crede nella nuova Europa e nell’irreversibilità, pur riveduta e corretta, della globalizzazione è un punto di riferimento con tutte le caratteristiche necessarie.

Dovrebbe solo essere un po’ meno confindustriale nell’atteggiamento e nei giudizi perché va bene accusare il management Alitalia per l’arroganza e gli errori compiuti consentendo così  ai sindacati confederali di rientrare in gioco ma dietro a quei manager c’era anche un Consiglio di Amministrazione che ha approvato sistematicamente tutte le decisioni. E, in quel CDA c’erano anche persone con cui lui ha condiviso una parte del suo percorso. E su questo non può che esserci un giudizio altrettanto netto che non c’è ancora stato. Vedremo comunque le prossime mosse.

Si è però aperta una fase indiscutibilmente nuova della politica italiana dopo le primarie del PD. La legge elettorale (qualunque essa sia) ci consegnerà un Paese a cui un popolo disorientato e preoccupato assegnerà, ad una classe politica che crede nell’Europa e nella globalizzazione (seppur corretta),  l’ultima chance di successo ma gratificherà  i suoi avversari con un forte risultato.

Lo stanno facendo, i nostri cugini in Francia e, sarà così, molto probabilmente, anche in Italia. Per questo bisogna prepararsi per tempo evitando le nostre ridicole beghe da cortile. E questa, credo, sia l’unica cosa che non possiamo più permetterci.

 

 

Perché sceglierei Mauro Moretti

Premetto che non ho alcuna voce in capitolo. O meglio. Pago le tasse e quindi la vicenda Alitalia mi riguarda direttamente visto che sarò chiamato, seppur indirettamente, a contribuire una volta trovata una possibile via di uscita.

Anche in questo caso, a mio parere, vale il consiglio dell’amico Becchetti che suggerisce di “votare con il portafoglio”. Personalmente è quello che vorrei fare.

Alitalia, così come l’abbiamo conosciuta, è morta. C’è una remota possibilità di rimettere in piedi un’azienda diversa ma utile al Paese? Se si, sei mesi di prestito non bastano. Però sono sufficienti per costruire un progetto serio, condiviso attraverso il quale confrontarsi con partner internazionali.

Oggi non è possibile così come non lo può essere con questo management vecchio o catapultato all’ultimo momento per gestirne l’agonia. Ma anche con un sindacato di categoria la cui credibilità è vicina allo zero.

Per ripartire da zero i messaggi devono essere chiari. Ai soci, ai lavoratori e al Paese. Soprattutto ai possibili investitori. Ci vuole un segnale di discontinuità molto forte. Mauro Moretti è, a mio modesto parere, la persona giusta.

Sa come si negozia con il sindacato, sa come affrontare i lavoratori soprattutto quelli che difendono privilegi improponibili, sa come affrontare i concorrenti. Soprattutto conosce il mondo dei trasporti e le possibili sinergie con Trenitalia.

Da quello che si legge il dissenso tra il segretario del PD Renzi e il ministro Calenda non sembra essere tattico. Il primo crede in un futuro di Alitalia come azienda. Il secondo, no.

Il primo sa che i sacrifici che devono essere chiesti sono molto pesanti e che per i sindacati non sarà facile seguirlo. Però ritiene che valga la pena giocare fino in fondo la partita. Anche per l’immagine del nostro Paese.

Il secondo, di scuola confindustriale, pensa che la partita sia già persa e quindi si preoccupa di gestirne i costi per il Paese per le possibili conseguenze economiche e sociali.

La scelta del commissario, credo, risentirà di queste posizioni. Renzi deve necessariamente riprendere in mano l’agenda politica e le priorità del Paese.

Di fronte ha Grillo che propone sostanzialmente che tutto resti com’è senza indicare chi dovrà pagarne il conto, l’attuale governo e i sindacati confederali che, senza un vero cambio di passo, possono solo balbettare.

Serve una svolta e serve chi può simboleggiarla. Altrimenti è meglio starne fuori. Nessuna partnership internazionale sarà possibile senza un forte committment politico.

Un eventuale nuovo progetto complesso travalica necessariamente i tempi di questo governo al contrario delle rassicurazioni ai lavoratori, ai clienti e agli investitori che devono essere immediate.

Certo non è un manager, seppur di qualità, che può, da solo, invertire la rotta di un’azienda ormai senz’anima e forse rassegnata ad un inevitabile destino.

Mi viene però in soccorso un vecchio proverbio arabo che recita: “tra morto e morto e sepolto c’è un’enorme differenza.” Forse è ancora il caso di provarci.

Politica e rappresentanza sindacale, due mondi profondamente diversi.

L’idea che i pentastellati possano lanciare un’OPA sul sindacato è tanto suggestiva quanto irrrealistica. E questo per una serie di ragioni oggettive.

Innanzitutto il nesso tra i successi dei grillini in politica e quelli che potrebbero ottenere nel mondo del lavoro, non regge. Sono due mondi che hanno, al di là delle suggestioni mediatiche, pochi punti di contatto. Basti pensare che sono rarissimi i dirigenti di un campo che riescono a imporsi nell’altro.

Ma c’è ben altro. Non tanto e non solo perché nel mondo del lavoro privato c’è un terzo incomodo, l’impresa (anche attraverso le sue associazioni), che non ha nessuna convenienza a privarsi del ruolo di un interlocutore che resta fondamentale, seppur fortemente ridimensionato rispetto al passato.

Lo dimostrano i contratti rinnovati in tutti i settori grazie (anche) alla lungimiranza delle aziende, e delle loro associazioni, che, proprio per contribuire ad evitare una rischiosa deriva populista, non hanno esitato a sottoscrivere cifre e testi impegnativi in momenti di crisi.

Lo dimostrano gli accordi firmati nelle singole imprese e le centinaia di intese che i sindacati definiscono nel loro linguaggio “difensivi” che di fatto consentono alle imprese di ristrutturarsi, riorganizzarsi e ridurre i costi. E ai lavoratori di mantenere, in tutto o in parte, i posti di lavoro. Un terzo incomodo che si è rivelato fondamentale quando non ha fornito sponde al cosiddetto sindacalismo di base in competizione perenne con quello confederale.

Un’altra dimostrazione viene, da un altro versante, dalla stessa vicenda FCA dove, la FIOM, pur essendo quasi riuscita a disintermediarsi da sola e dopo aver perso, non uno, ma una serie di referendum, può riproporsi e cercare di rientrare in campo. Come se nulla fosse successo.

Ha ragione Guglielmo Loy della UIL, sconfitte ed errori nel sindacato hanno un peso e una influenza molto diversa rispetto alla politica. Così come il rapporto con la propria base di riferimento.

Se dovessimo osservare la realtà con gli occhi di un Giorgio Cremaschi è indubbio che osserveremmo che  il sindacato confederale raccoglie gravi sconfitte dalla svolta dell’EUR del 1978 ad oggi. Fortunatamente non è così. Senza il sindacato, dobbiamo avere la serietà di ammetterlo, i lavoratori oggi starebbero molto peggio. Non rispetto agli anni 50, ma rispetto a venti anni fa. E non è detto che le imprese starebbero molto meglio. Vedi il nero o il dumping contrattuale in alcuni settori.

E questo nonostante moltissimi lavoratori siano già oggi in grado di difendersi da soli. Ma restano comunque una esigua minoranza. Tutto bene, quindi? No, affatto.

Partiamo da Alitalia. Se fosse stata un’azienda percepita veramente come privata dalla politica e dagli stessi lavoratori le cose sarebbero andate molto diversamente. È vero, come sostiene Dario Di Vico sul Corriere, che i sindacati confederali hanno subito una dura sconfitta.

A mio parere per una dose eccessiva di arroganza ma anche di ingenuità. Lo stesso era appena successo all’outlet di Serravalle. La differenza è che nel caso di Serravalle i sindacalisti sono riusciti a scaricare la colpa sulla paura dei lavoratori, all’Alitalia sulla rabbia e il disorientamento. Mai ammettendo i propri errori o quelli delle rispettive categorie che anziché orientare i lavoratori ne seguono da tempo gli umori di una  parte degli attivisti.

De Masi. Le tesi contenute nel suo ultimo libro sono in gran parte provocazioni intellettuali. C’è di tutto e di più. Nulla del contenuto può essere messo a terra. Fanno il verso ad un altro sociologo, Renato Curcio, meno letto ma altrettanto arguto e provocatorio. Appassionano perché ripropongono, in chiave moderna, l’eterna lotta di Davide contro Golia. Se i grillini vogliono adottarne i contenuti, facciano pure. Non andranno, però, da nessuna parte.

Infine l’unico tema che condivido nell’analisi proposta da Dario Di Vico. La debolezza della leadership confederale. A mio parere molto più marcata in CISL e UIL dove lealtà e fedeltà sono, negli anni, diventati sinonimi con tutti i guasti che questo ha comportato e comporta sulla ricchezza del dibattito interno e sulla crescita di nuovi gruppi dirigenti.

Nonostante questo ci sono interessanti segnali di ripresa di iniziativa che lo stesso Di Vico, molto attento a ciò che si muove nel sociale, sottolinea con grande precisione. Come votano alle elezioni  i lavoratori o gli imprenditori, piccoli o grandi che siano, è cosa diversa da come si comportano nelle relazioni sindacali o nel tutelare i propri diritti. Era già successo in Lombardia con la Lega. Prima ancora con la DC e il PCI. Tutti (e sottolineo tutti) hanno provato a mettere la “mordacchia” al sindacato. Bruno Manghi ha ragione: tempo perso.

Il vero rischio è la marginalizzazione dai processi veri di cambiamento e innovazione. Poi che in un’azienda pubblica, parapubblica, o vissuta come tale, la politica (di ogni colore, purtroppo) strumentalizzi i risultati del referendum è solo la dimostrazione del degrado che ha raggiunto.

Fossi un dipendente di Alitalia avrei più paura di questo per il mio futuro che delle dichiarazioni estemporanee di qualche sindacalista.

Un Primo maggio insieme? Perché no!

Questa ci mancava. In occasione del primo maggio, festa del lavoro, la FIM CISL, a Muccia, in provincia di Macerata, quindi nel cratere del terremoto, premierà quelle aziende che mettono al centro della loro azione il rispetto dell’ambiente e dei lavoratori, che promuovono una cultura dell’economia, della partecipazione e del benessere dei loro dipendenti, e che danno un contributo al miglioramento della società.

Non è l’unico riconoscimento ma, indubbiamente, è molto diverso da altri importanti appuntamenti come, ad esempio,  “Best place to Work” che premia le imprese che rispettano alcuni specifici parametri internazionali oppure lo stesso Premio eccellenza di Manageritalia e Confcommercio che premia, ogni due anni, i migliori manager e le aziende del terziario più innovativi, insieme.

Motivazioni, data scelta e valutatori sono un elemento caratterizzante. In genere i sindacati cercano buone ragioni per non parlare positivamente dell’aziende. È una cultura che viene da lontano. Così come per la stragrande maggioranza delle aziende il sindacato è visto solo come un procacciatore di problemi. Spesso campati per aria.

Dare un senso nuovo, non antagonista ma partecipativo è un atto di intelligenza ma anche di innovazione. A Roma c’è il concertone, che pur frequentatissimo, ha snaturato da anni la sua funzione originaria trasformandosi in un brand di un evento in sé, lontano dal sindacato.

In alcune parti del Paese ci sono poi aziende occupate o con gravi vertenze aperte che sottolineano il permanere di un clima di contrapposizione di interessi evidente ma, sotto traccia e poco visibili, ci sono anche migliaia di imprese dove il confronto, il rispetto e il dialogo tra imprenditori e lavoratori c’è ed è importante e costruttivo. La vulgata comune, purtroppo, non registra tutto questo.

Per questo la FIM fa bene a dichiarare la sua volontà di essere protagonista di un percorso nuovo, diverso, positivo. Qualche mese fa, sollevando non poche perplessità in alcuni ambienti, avevo condivido la proposta di creare di uno strumento tipo “trip advisor” per le imprese (ma anche per i sindacati). Uno strumento di valutazione semplice, efficace, trasparente. Le aziende sane non avrebbero nulla da temere e, le altre, ampi spazi di miglioramento.

Oggi i giovani in cerca di lavoro sono spesso attratti solo dalla notorietà del marchio delle aziende stesse. Non da cosa, né da come, si lavora concretamente. Ma neanche se sono luoghi di apprendimento vero,  e se si può crescere professionalmente in modo sano. Non guardano l’azienda per il suo valore sociale che porta nel territorio in cui opera, per l’occupazione che crea, per la formazione che offre, per il suo clima interno. Rischiano di essere  attratti esclusivamente dalla capacità che quella data azienda ha di parlare di sé. Ovviamente la mancanza di offerta di lavoro rischia di rendere, poi, molte di queste riflessioni superflue.

È evidente che per molti il problema non si pone neppure. Si lavora dove si può e alle condizioni proposte. Però nel processo di maturazione professionale e personale è importante sviluppare un senso critico. Occorre potersi dotare di una visione oggettiva e responsabile del contesto in cui si opera.

Per questo è importante lavorare insieme, aziende e lavoratori, per superare la concezione che ci siano solo mondi diversi, divisi da un cancello di ingresso. Il mondo delle imprese ha bisogno di condivisione e di collaborazione per affrontare il futuro.

Di creatività, intelligenza e proattività e quindi di senso critico e libertà di pensiero. Le aziende migliori del terziario sono già lì. Luoghi di lavoro innovativi, welfare interessante, responsabilità sociale, ruoli gerarchici rimessi in discussione da millenials che dal lavoro cercano soddisfazioni diverse dalle generazioni precedenti, tipologie di rapporti che mettono al centro il rispetto, le opportunità di crescita professionale e la qualità della vita più che garanzie ormai inesigibili.

Essere vicini e protagonisti in questo mondo che cambia è difficile per chi ne accompagna, da fuori, l’evoluzione. Però riconoscere il cambiamento, premiarlo e valorizzarlo non può essere solo un elemento di discussione nei convegni. Bisogna rendersene conto ogni giorno.

Mi ricordo lo scandalo che fece la prima volta che alcune imprese e le loro associazioni furono invitate a festeggiare insieme ai sindacati, la festa del lavoro. Per i fautori della tradizione di entrambe le parti, era una cosa da evitare assolutamente. Tutti presi a guardare il dito che indicava la luna… Però il mondo, fortunatamente, sta cambiando.

E tutto questo può spingere imprese, istituzioni e persone ad essere più responsabili. Ma questo non può avvenire in un contesto di continuo scontro di interessi contrapposti. C’è chi se ne accorge, e si attrezza, e chi resta purtroppo prigioniero della cultura del passato.

Alitalia, quando un’azienda muore…

Nella mio percorso professionale mi sono sempre trovato a gestire le risorse umane di aziende in crisi di identità. Alcune perché acquisite da gruppi esteri desiderosi di riorientarle, altre perché erano arrivate a fine corsa.

Il mio compito era sostanzialmente quello di tagliare tutto ciò che era possibile tagliare, riorganizzare, formare le persone a nuovi compiti e funzioni, investire sui giovani e mantenere un clima accettabile evitando conflitti con i sindacati in situazioni dove amministratori delegati e colleghi duravano mediamente un paio di anni.

Ogni azienda ha una sua cultura profonda e radicata a cui, ad ogni cambiamento di top manager, se ne sovrappone un’altra. Quella sottostante, però, resta. In genere è figlia dei successi del passato. Cova sotto la cenere. Non è necessariamente legata all’età dei dipendenti. È nell’aria, nei muri, negli sguardi e nei modi di fare.

Dall’addetto alla reception fino al manager che sta per essere messo da parte, misura, giudica, comprende o condanna chiunque cerchi di portare cambiamenti significativi.

Spinge, come in un eterno gioco dell’oca, a tornare sempre al via. Ad ogni avvicendamento di top manager viene riposta “alla bella e meglio” laddove non risulti evidente così tutti possono fingere di indossare la maglietta nuova.

E spesso, la nuova cultura, non esiste o non ha la forza per insediarsi per limiti temporali, per inconsistenza o per mancanza di risultati. È solo il portato di chi, appena arrivato, gioca le sue carte perseguendo, a volte, i suoi interessi personali.

E questo alimenta le convinzioni negative più profonde. Questa lotta tra culture termina quando l’azienda continua ad avvitarsi sul suo business, cambiando manager in continuazione e non investendo più sulle persone. Perde la sua ragion d’essere, la sua anima. Subentra un cinismo profondo, una devitalizzazione, una rassegnazione.

L’azienda è una comunità determinata dal clima che vi si respira, dai valori che trasmette, dai riti e dalle liturgie che la contraddistinguono. È la comunicazione giornaliera dei rispettivi responsabili, quella voglia di fare e di essere orgogliosi di appartenere ad una piccola e grande squadra di contare indipendentemente dal ruolo o dallo stipendio percepito. Di poter dire in estate, al vicino di ombrellone: “io lavoro alla Standa, oppure all’Alfa Romeo, al Monte dei Paschi, oppure all’Alitalia” e essere certo di percepire nell’interlocutore un senso di malcelata invidia.

Quando questo non c’è più, quando l’appartenenza pesa, diventa ingombrante, quasi fastidiosa qualcosa si rompe definitivamente. E non saranno gli appelli di tre ministri o di due sindacalisti confederali o la mancanza di alternative a far passare quella sensazione di fine dei giochi, di solitudine e di abbandono. Anzi.

Ed è a questo punto che il referendum richiesto diventa altra cosa. Ed è per questo che parlare a sproposito di democrazia diretta non serve a nulla. Ad una platea disorientata, rabbiosa, schiantata, composta da furbi e fessi, da opportunisti e imbroglioni ma anche da tante persone per bene non puoi pretendere di apparecchiare la tavola come se il passato non contasse nulla, richiedere educazione, partecipazione, discernimento e scelte consapevoli.

Bentivogli sul Foglio parla di esperienze vissute. Potrei citare anch’io quante votazioni assembleari ho rimesso in discussione il giorno dopo con gli stessi sindacalisti in anni di onorata carriera, oppure quanti, una volta votato in un modo, hanno sconfessato il loro voto pochi istanti dopo.

Sono assolutamente convinto che subito dopo la votazione richiesta dal console Pilato molti sostenitori di Barabba si fossero già pentiti. Ma, in fondo, il loro voto, pur irrazionale, ha dato una direzione di marcia diversa alla storia. Credo che all’Alitalia, fatte le dovute proporzioni, sia successo lo stesso.

L’azienda, per come l’abbiamo conosciuta, era, ed è, già morta. Chi ha proposto il referendum lo sapeva benissimo. Forse per questo lo ha fatto. Nel caso dell’Unidal (Motta e Alemagna) dal primo piano con 2800 licenziamenti respinto sdegnosamente si passò ai 4000 e poi alla chiusura qualche anno dopo. Succede così quando la corda si spezza.

In Alitalia solo una politica mediocre o i demagoghi di turno possono assicurare che fra qualche anno ci sarà un’azienda più bella è più forte di prima.

Ci sarà solo, come per chi ha lavorato alla Standa, all’Alfa Romeo o a MPS, un ricordo di ciò che fu una grande azienda e di chi, consapevolmente o meno, ha lavorato per distruggerla.

Poi ci saranno altre aziende nell’alimentare, nella Grande Distribuzione, nell’industria automobilistica e, sarà così, nel trasporto aereo che, scegliendo di fiore in fiore, si avvantaggeranno di questo o di quell’asset ancora valido e redditizio di quelle imprese che seppero imporsi nel passato.

Ma questo è un altro film.