Alitalia e dintorni, il fascino indesiderato del NO

C’è una grande differenza tra condividere un progetto, un’idea, una decisione o respingerla. Nel primo caso ci si assume in prima persona la responsabilità delle conseguenze. Nel secondo caso, no.

Bocciare una proposta consente di unificare tutti gli stati d’animo negativi. Di qualunque tipo. Da corpo ad ogni sorta di alibi. Produce la sensazione apparente che tutto possa restare come sempre anche se non sarà comunque così.

La logica NIMBY(acronimo inglese per Not In My Back Yard, letteralmente “Non nel mio cortile”) nasce così. Il NO, privo di proposta alternativa praticabile si limita a scaricare su altri gli effetti. Sui vicini, sui colleghi, sui cittadini, sui contribuenti, sulle successive generazioni.

Il NO ha un suo fascino. Mostra, a chi preferisce stare alla finestra, la voglia di resistere, la volontà di non piegarsi al più forte, la volontà di tutelare il “qui e ora”. Chi pronuncia o sostiene il NO passa, quasi sempre, per essere un paladino del più debole.

Gli anchormen e i media in generale privilegiano chi dice NO. Chi dice SI è, al contrario, banale, scontato, subalterno. Ne sanno qualcosa i sindacalisti che difendono i compromessi possibili con gli accordi aziendali, cosiddetti difensivi, che però salvano migliaia di posti di lavoro.

C’è sempre chi pensa di spostare l’asticella in su. O chi invita a votare NO ad un referendum. Nel film “La classe operaia va in Paradiso” del 1971 il grande Gian Maria Volontè interpreta magistralmente l’operaio che si fa coinvolgere dal giovane studente estremista e perde il posto di lavoro restando solo con i suoi problemi.

All’Alitalia i campioni del “abbiamo già dato” in questi giorni sfilano come prime donne sui giornali. Personaggi come Riccardo Canestrari dell’ANPAC o Francesco Staccioli di USB presentano con nonchalance il conto che dovranno pagare i contribuenti italiani per dare senso e sostanza ad un grave quanto inutile NO. Non accennano minimamente alle conseguenze di medio e lungo termine per i lavoratori di Alitalia. Né a ciò che pagheranno i contribuenti. Non è affar loro.

I sindacati confederali si sono incastrati (o fatti incastrare) in un meccanismo che non c’entra nulla con la democrazia. È una finzione di democrazia scaricare un decisione senza alternative.

Per chi straparla, dopo, di mancanza di rappresentatività dei confederali ricordo che Pierre Carniti raccontava spesso che Napoleone sosteneva che “tutto puoi chiedere ai tuoi soldati tranne che sedersi sulla punta delle baionette”.

Hanno affrontato un negoziato in una situazione di grave emergenza, in una categoria corporativa e aziendalista di vecchio stampo senza nemmeno riuscire a costruire un rapporto vero con i rispettivi iscritti (che sono la maggioranza) limitandosi a sottoscrivere, con grande senso di responsabilità, un’ipotesi di accordo con un azionista poco credibile, un management raffazzonato, i creditori alle porte e con un Governo in evidenti difficoltà a sostenere il negoziato tra vicoli europei e risorse oggettivamente scarse. Sparare contro di loro è come sparare sulla Croce Rossa. Hanno fatto l’impossibile e di questo gliene va dato atto.

Adesso vedremo se sapranno tenere il punto o cercheranno di accodarsi alla logica del “penultimatum” tanto in voga nei settori parapubblici o ritenuti ancora tali dove la Politica mette, a proposito, ma anche a sproposito, troppo spesso il becco.

In altre situazioni i “benaltristi” e i cosiddetti “finestraioli” sono rimasti a bocca asciutta. Alla FIAT, senza la FIM e la UILM, Pomigliano forse avrebbe seguito la sorte di Termini Imerese. Oggi è facile scriverlo.

Allora, media e intellettuali pronosticavano la fine di Marchionne e della FIAT, discettando sulla subalternità dei due sindacati estromessi manu militari dai salotti televisivi e dalla possibilità di informare correttamente. Il NO faceva audience, come oggi. Non però tra gli operai napoletani, soprattutto tra quelli che, dalla CIGS, speravano di rientrare in azienda. Incredibile.

Su questo punto ci viene in soccorso, la trasmissione otto e mezzo, dove Marco Bentivogli della FIM ha affrontato con la forza di chi ha dovuto dimostrare di aver ragione, un titolato rappresentante del NO a tutti i costi: Giorgio Cremaschi.

Non poteva che finire 4-0. Il fascino del NO e del benaltrismo a tutti i costi si è schiantato davanti alla cruda realtà che irrita gli amici del NO a tutti i costi. Alitalia rappresenta, ed è qui la sua vera pericolosità, una sorta di vaso di Pandora.

Da una parte l’aggressività dei populisti vecchi e nuovi che non hanno niente da perdere perché all’opposizione. Dall’altra l’arte difficile di governare tra un passato di un’azienda tutto da dimenticare e un futuro da costruire giorno per giorno.

In mezzo un vulcano che rischia di esplodere e di incendiare così l’intera prateria. Per questo va tenuto con forza il punto. Se l’accordo non ha alternative si proceda senza tentennamenti nominando un commissario all’altezza del compito.

Pensare di risolvere un problema di questa gravità con possibili ripercussioni sociali imprevedibili fidandosi della buona volontà dei diretti interessati, ormai disorientati e rabbiosi con tutti, è stato un errore. Non ne va commesso un altro ancora più grave. Accettare la logica insita nel risultato di quel voto e cioè che un NO basta e avanza e che, adesso, il problema è dell’azienda e del Governo.

Il problema è, al contrario, di tutti noi.

Alitalia, un referendum inopportuno ha prodotto un risultato inacettabile

Purtroppo quello che si temeva è avvenuto. I lavoratori di Alitalia, chiamati a pronunciarsi sull’ipotesi di accordo siglata anche dai tre segretari generali confederali di CGIL, CISL e UIL l’hanno nettamente respinta.

Inutili gli appelli prima del voto, inutili i richiami a come evitare un destino altrimenti inevitabile. Adesso inizierà un dannoso quanto pericoloso scaricabarile sulle responsabilità.

Indubbiamente l’azienda era ed è poco credibile e il piano, per quello che è filtrato sui giornali, non conteneva nulla che facesse ipotizzare una svolta vera, visibile e comprensibile a tutti. Ma proprio per questo motivo la gravità della situazione era evidente.

Il sindacato confederale è stato costretto a mettere in campo tutta la sua credibilità assumendosi un rischio altissimo di fronte alla scarsa credibilità degli azionisti per come si sono mossi fino all’annuncio del piano ma anche dello stesso management in parte rinnovato frettolosamente.

Ho già scritto che è stato un azzardo tenere il referendum. Un accordo pesante sul piano individuale ma indispensabile su quello collettivo e per la stessa prospettiva dell’azienda non doveva essere sottoposto a referendum sul quale, e lo si sapeva, avrebbero pesato l’esperienza negativa del passato, la rabbia e il disorientamento dei lavoratori. Soprattutto in una realtà come Alitalia.

Occorreva scegliere un’altra strada. Magari prevedendo alla fine del percorso un’adesione individuale. Chi pensava che questo fosse un “penultimatum” e non un vero e proprio “prendere o lasciare” si dovrà assumere, adesso, le proprie responsabilità. Soprattutto chi ci ha speculato pesantemente.

Non è un caso che dove il sindacato è più forte e credibile (non necessariamente più numeroso) in termini di rapporto con i lavoratori, i contratti vengono rinnovati e i referendum indetti, anche se in una logica fortemente difensiva, esprimono sempre una volontà costruttiva da parte dei lavoratori. Metalmeccanici, Chimici e Alimentaristi, ad esempio, ne sono la prova evidente.

C’è una consapevolezza diversa rispetto a categorie dove la concorrenza tra sigle è scaduta al punto da trascinare tutti in un gorgo fatto di diffidenza, scavalcamenti e iniziative sindacali mediocri.

Oppure laddove il sindacato confederale ha dovuto condividere il rapporto con i lavoratori insieme ad altre sigle autonome o associazioni professionali spinte solo a tutelare i propri interessi e il proprio spazio di agibilità.

E non basta ritrovare una parvenza di unità in alcune occasioni, seppure particolarmente gravi. Il rapporto con i lavoratori, in questi casi o è scarso o, addirittura inesistente.

Adesso l’unica via praticabile sembra essere il commissariamento anche perché il piano DEVE comunque andare avanti. Probabilmente occorre far passare il tempo sufficiente affinché sia chiaro a tutti che non ci sarà né un nuovo accordo, né la nazionalizzazione dell’Alitalia.

Ci sarà una realtà che inevitabilmente può arrivare fino al fallimento e un’altra che forse potrà nascere alle condizioni previste dal mercato e dalle partnership finanziarie e strategiche che potranno essere individuate.

Purtroppo ricordo il cosiddetto piano Ravalico che prevedeva, alla fine degli anni ’70, 2800 licenziamenti all’Unidal (ex Motta e Alemagna) il cui respingimento portò, poco dopo, il numero di licenziati ad oltre quattromila. Per i sindacati si apre certamente una fase difficile ma senza alternative.

Devono recuperare un rapporto con i propri iscritti aprendo una vera e propria battaglia politica contro i fautori del disastro. E devono sostenere fino in fondo ciò che hanno firmato. Cosa assolutamente necessaria per la loro credibilità presente e futura. Cosa che deve fare anche l’azienda.

Preoccupa sentire personaggi come Francesco Staccioli dell’Usb dire: “Ma come si fa a pensare che una compagnia che trasporta 24 milioni di persone con 120 aerei possa essere messa in liquidazione?” Dovrebbero essere mandati avanti quelli come lui, e i sostenitori del NO,  adesso.

Al Governo spetta il mantenimento dei patti che hanno reso possibile l’accordo, pur se respinto. Il Paese deve essere messo di fronte alla irresponsabilità di chi ha speculato politicamente sulla pelle dei lavoratori e deve essere preparato alle possibili reazioni.

Il negoziato Alitalia è terminato. Adesso occorre lavorare, con chi ha sottoscritto l’intesa, per costruire la nuova Alitalia. D’altra parte la società è già costata agli italiani più di sette miliardi di euro in quarant’anni.

Tutto questo però pone, ancora una volta, il tema della titolarità e della rappresentatività di chi sottoscrive gli accordi, della esigibilità , della validazione degli accordi stessi e del superamento di vecchie liturgie che non funzionano in settori dove il supposto ruolo integrativo o sostitutivo dello Stato o la scarsa credibilità dell’azienda e dei sindacati di categoria hanno scavato un solco profondo di credibilità e di rappresentatività reale.

Alitalia tra referendum e accordi sottoscritti

In molte situazioni sono una prova di democrazia e partecipazione. Prevederli e codificarne l’iter formale è un atto doveroso. Soprattutto per supportare e validare gli strumenti negoziali tradizionali.

Le votazioni assembleari hanno fatto il loro tempo e quindi consolidare un potente strumento di partecipazione come il referendum è certamente una scelta decisiva.

Si trasforma, però, in un boomerang quando non consente una scelta vera e, soprattutto, quando gli esiti e gli effetti chiamano pesantemente in causa altri a cui nessuno ha chiesto nulla.

Aver affidato ai soli lavoratori dell’Alitalia la decisione di salvare o meno l’azienda nella quale lavorano sono stati, secondo me, un azzardo e un errore. Alitalia non è mai stata un’azienda normale.

E la sua specificità ha sempre comportato un conto da pagare per i cittadini italiani che non hanno mai avuto, sul tema, voce in capitolo nonostante ci si dimentichi spesso che “non esistono soldi pubblici, ma solo soldi dei contribuenti”.

A votare, però, sono stati chiamati solo i suoi dipendenti. Si è sempre fatto così, è vero. Però in un caso come questo resto convinto che non sia corretto. Innanzitutto perché, indipendentemente dall’esito del referendum, gli effetti di quella votazione verranno comunque pagati da tutti.

In altri termini è come se in una grande azienda, soggetta ad una crisi profonda, venissero chiamati a votare solo coloro che sono stati inseriti in una procedura di licenziamento collettivo e non l’insieme dei lavoratori. Oppure se, sulle banche venete o su MPS fossero stati chiamati solo i dipendenti a decidere. L’esito sarebbe scontato. Così come rischia di esserlo in questo referendum.

In secondo luogo perché non esistono alternative al piano. Governo, azionisti, banche e parti sociali si sono confrontati, hanno definito i contenuti e verificato che non esistono ulteriori margini. Inoltre il Presidente del Consiglio, i ministri incaricati e i massimi rappresentanti del sindacato confederale italiano hanno annunciato che non ci sono alternative né piani B a disposizione.

Perché quindi chiedere ai lavoratori coinvolti un giudizio assolutamente inutile? Soprattutto in mancanza di un poco scontato plebiscito a favore. E con il rischio di gravi strumentalizzazioni da parte di chi vuole far fallire comunque l’azienda o di chi vorrebbe prococatoriamete proporne il ritorno allo Stato.

Un rito, in questo caso, pericoloso, fuori dal tempo e quindi un errore grave. Un’altra cosa avrebbe potuto essere un confronto tra i sindacati e i rispettivi iscritti con lo scopo di spiegare i contenuti dell’intesa e la sua irrevocabilità.

Che fare in questi casi?

Credo che chi sottoscrive un’intesa senza alternative se ne dovrebbe assumere la totale responsabilità. Nei confronti del Paese e dei lavoratori. Il compromesso raggiunto al tavolo negoziale, pur “difensivo”, può presentare sicuramente luci e ombre ma anche la convinzione dei sottoscrittori che è il massimo possibile in condizioni date.

Al sindacato, alle associazioni datoriali, alla politica è chiesta, in questi casi, una assunzione di responsabilità profonda quando di mezzo ci sono il posto di lavoro, la vita delle persone, il loro reddito e la continuità di una attività economica importante. Non la semplice firma su di un pezzo di carta.

Il referendum ha senso quando in votazione va un atto preciso e dettagliato. Circoscritto al contesto. Sul voto non dovrebbero mai pesare una storia di insuccessi, purtroppo, infinita, un declino vissuto come inarrestabile, la credibilità di chi, senza mai rimetterci nulla né pagare alcunché, ha proposto piani industriali inconsistenti, ristrutturazioni continue e socialmente dolorose.

Ma neanche chi propone, come i sindacati autonomi, scorciatoie spericolate facendosi scudo della rabbia e del disorientamento dei lavoratori. Tra pochi giorni avremo l’esito di questa decisione azzardata e dovremo consapevolmente gestirne le conseguenze.

Speriamo che chi è stato chiamato ad assumersi le proprie responsabilità individuali con il voto lo faccia, almeno questa volta anche per tutti noi.

La FIOM in FCA: prove di avvicinamento?

Credo sia utile seguire il dibattito che la FIOM ha messo a disposizione in rete sulla assemblea di Napoli dal titolo “Ci siamo: la FIOM in FCA”.

Dopo la firma unitaria del CCNL di categoria, dalla volontà di rientro in FCA di Landini, dalla sua capacità di trovare un punto di incontro con le altre organizzazioni e, infine, dalla disponibilità stessa di FIM e UILM a superare le vecchie divisioni passa una parte importante del futuro, e quindi della natura, dello stesso sindacalismo confederale e della capacità di nuovi protagonisti di segnarne l’evoluzione.

Appuntamento importante al quale ha partecipato, e anche questo non è un segnale da sottovalutare, il segretario generale della CGIL Susanna Camusso. Sono Intervenuti nel dibattito sindacalisti e delegati della FIOM CGIL e hanno raccontato quello che è il loro punto di vista sulla vita di tutti i giorni e, a loro giudizio, le preoccupazioni dei lavoratori.

C’è una visione marcatamente negativa su quasi tutto, questo è vero, però, a partire dalle parole di Landini: “forti del CCNL unitario ora dobbiamo aprire discussione con FIM e UILM anche per FCA-CNH”, sembra esserci la volontà di rientrare in gioco.

D’altra parte sarebbe forse troppo aspettarsi almeno qualche ammissione di corresponsabilità sul passato in un confronto pubblico, ma il dibattito interno segnala indubbiamente una consapevolezza nuova. Anche perché, le identità e le visioni del futuro delle rispettive organizzazioni, sembrerebbero aver imboccato strade profondamente diverse.

Per la FIM, credo, tre temi su tutti. Partecipazione dei lavoratori alla vita dell’impresa attraverso il sindacato come strategia di fondo, l’innovazione tecnologica e organizzativa come sfida da cogliere e non da combattere, contrattazione e welfare come strumenti per sostenere il lavoro, la professionalità e il reddito dei lavoratori.

Anche la UILM credo viaggi sostanzialmente su questa lunghezza d’onda forse con una maggiore sensibilità al salario derivato dal contratto nazionale e una maggiore cautela sulle potenzialità positive dell’innovazione tecnologica.

Per la FIOM, però, il discorso resta più complesso. C’è la “carta dei diritti” ma c’è anche la permanente abitudine a volersi sovrapporre all’intera CGIL percfiocàrecuncruolo “politico” e c’è, infine una visione del futuro e dell’innovazione, a mio parere, ancora molto arretrata e passiva. La firma unitaria del CCNL è, però, un fatto rilevante e indiscutibile. Landini in prima persona si è speso superando difficoltà e resistenze.

Aver contribuito in modo decisivo a chiudere il cerchio anche con Federmeccanica consente alla FIOM di giocare alla pari su tutte le partite aperte. E su questo c’è, credo, la disponibilità dell’associazione datoriale che ha avuto la lungimiranza di scommettere su di un esito positivo del negoziato e che, quindi, si conferma in un ruolo trainante e non certo gregario al completamento del percorso innovativo contenuto nei testi del CCNL.

Ma FCA resta un’altra cosa. C’è un ulteriore soggetto, l’azienda, ben più ostico è affatto disponibile la cui strategia sembra essere quella di continuare ad intestarsi i meriti del cambiamento senza condividerli apertamente anche con chi li ha resi possibile.

Una sorta di “disintermediazione tattica” pro domo sua. Però è da qui che può passare il vero salto di qualità dell’intero sistema. Possibile se l’azienda deciderà di scommettere non solo sul suo capitale umano ma anche sugli interlocutori sindacali che lo rappresentano consentendo, così, una saldatura positiva e lungimirante con i contenuti del CCNL appena firmato.

Anche per questo un rientro della FIOM è auspicabile e, per certi versi, imprescindibile nonostante il difficile dibattito interno che, per il momento, sembrerebbe riconfermare una visione essenzialmente negativa.

Non credo, però, che i delegati di FIM e UILM si possano riconoscere in queste posizioni. E neanche l’azienda.

Ma, su questo, verrà in soccorso la realtà e, forse, la survey messa in programma dalla stessa FIOM che potrà fornire elementi utili sul presente e sul futuro non attardandosi sul passato.

Anche le traiettorie che hanno preceduto il rinnovo dell’ultimo CCNL sembrava non avrebbero mai potuto incrociarsi e così non è stato. Quindi un po’ di ottimismo è fondamentale.

L’intero sindacalismo confederale ha bisogno che, in un comparto così importante, si affermi una cultura diversa, possibilmente unitaria se vuole guardare al futuro.

D’altra parte i tre sindacati di categoria, pur partendo da posizioni molto diverse, hanno saputo trovare la sintesi necessaria al momento giusto sul contratto nazionale grazie anche all’autorevolezza dei rispettivi segretari generali. Io credo che lavoreranno per cercare di trovarla anche in FCA.

La realtà e la propaganda…

Premetto di aver rappresentato per oltre dieci anni, come Direttore Risorse Umane, la mia azienda (di allora) in Federdistribuzione. Penso di conoscerne i limiti ma anche l’impegno e la notevole professionalità.

Li ho spesso criticati apertamente quando hanno scelto di voler far da soli sul tema del lavoro ma continuo a considerare, molti di loro, amici e colleghi e continuo ad osservarne con grande attenzione la loro azione a tutela delle aziende della Grande Distribuzione.

Sul tema delle aperture festive hanno ragione a tenere il punto. Soprattutto oggi che i consumi sono fermi. Sarebbe stato meglio governare a monte il problema fissando dei paletti condivisi come ha proposto a suo tempo Confcommercio? Probabilmente si. Oggi però c’è una legge in Parlamento che definisce un numero di chiusure annuali accettabile sulla quale credo si possa convenire ma il tema resta aperto.

Alcuni esercizi commerciali hanno la loro ragion d’essere proprio se funzionano a ciclo continuo. Recentemente ho partecipato (come osservatore) ad un negoziato che aveva come obiettivo il lancio di una start up con oltre quattrocento dipendenti (con le tre organizzazioni sindacali di categoria) che concordava in due le festività di chiusura annuali per i prossimi tre anni. Senza alcun clamore mediatico.

Oscar Giannino propone una differenza interessante tra libertà di aprire e obbligo di aprire che condivido. Ci sono zone o attività dove non ha senso forzare e altre dov’è indispensabile.

Il sindacato di categoria ha sempre avuto, sul tema, un atteggiamento ambiguo e ondivago. Prima decisamente contrario, poi favorevole ma solo per i nuovi assunti. Refrattario per anni alle rotazioni di tutto il personale perché questo metteva in discussione i diritti acquisiti da una specifica generazione, ha costretto molte aziende a forzare quasi esclusivamente sui più giovani.

E questa divisione tra i lavoratori vecchi e nuovi ha contribuito a mettere fuori gioco il sindacato stesso la cui debolezza, in termini di mobilitazione della categoria, è ormai evidente.

Annamaria Furlan, segretaria generale della CISL, in questi giorni ha detto tutto e il suo contrario. E anche questo non ha giovato. Ha criticato l’outlet nella sua ragion d’essere, poi ha ridotto il tiro sull’apertura Pasquale in sé e, infine si è lamentata della mancanza di dialogo tra la proprietà dell’outlet e il sindacato locale. Il tutto, probabilmente, per coprire l’ondivaga politica della categoria sulla materia.

Ovviamente il decreto “salva Italia” ha determinato una fuga in avanti soprattutto perché ha spinto la stragrande maggioranza delle aziende del settore, in crisi sui margini, a forzare sulle aperture anche laddove non erano strettamente necessarie.

A questo è seguita una fase più riflessiva con aperture e chiusure meglio regolate. O con accordi interessanti come quello di Esselunga che esonera dalle prestazioni festive chi ha figli sotto i tre anni. Questa è la strada.

Altri accordi, soprattutto, per quanto riguarda gli outlet o i grandi centri commerciali potrebbero riguardare forme di welfare specifico come asili aziendali o altre iniziative che attenuino i disagi a chi deve lavorare.

La vicenda di Serravalle ha dimostrato che un’azione sindacale di tipo tradizionale non funziona su questa tipologia di lavoratori. McArthurGlenn affitta spazi spesso a marchi noti o a franchisee presso i quali lavorano pochi e selezionati venditori particolari.

Venditori che vengono formati sia dalla casa madre che dall’outlet stesso sulle abitudini di acquisto di clienti provenienti da tutto il mondo. A questo si aggiungono in base alle previsioni di vendita giovani con contratti brevi.

La stessa direttrice del centro, Daniela Bricola, proviene da una famiglia di commercianti. Con una laurea in tasca ha iniziato vendendo jeans in uno store e poi via via ha occupato posizioni di maggiori responsabilità mentre, a Serravalle, ha fatto tutta la carriera interna: retail assistant, retail manager, e infine direttore del centro.

Non si è certo tirata indietro in questa tempesta che si è scatenata in un bicchier d’acqua. Ha ricordato i diversi livelli di responsabilità avanzando anche qualche disponibilità al confronto che dovrebbe essere colta.

“Meglio crumira che disoccupata!” ha gridato una lavoratrice dell’outlet ad un militante sindacale catapultato da chissà dove, insieme a qualche decina di attivisti con bandiere, a presidiare una rotonda che la insultava per la sua determinazione a recarsi al lavoro mentre oltre duemila persone già lavoravano tranquillamente e oltre ventimila clienti affollavano il centro.

Ha pero funzionato mediaticamente. I contrari (non frequentatori dell’outlet) hanno trovato una ragion d’essere. Sul versante sindacale in termini di identità come giustamente sostiene Di Vico. I loro militanti si sono sentiti rassicurati.

Sul versante politico con l’intervento estemporaneo dell’onorevole Di Maio che ha scavalcato tutti “farfugliando” teorie e motivazioni che non hanno né capo né coda che però hanno avuto, come prevedibile, un risalto esagerato.

Il rischio è che, come per i voucher, un Governo impaurito preferisca subire una emotività esasperata (più in rete o sulla stampa che nella realtà) che tutelare le aziende coinvolte e qualche migliaio di lavoratori e un settore che rischia di pagarne le conseguenze.

Il nostro è un Paese ben strano. Si può pagare in nero la badante ed essere contro i voucher. Oppure utilizzare i voucher e promuoverne un referendum contro.

Prendersela con il consumismo e andare tranquillamente a fare acquisti all’outlet.  Oppure rivendicare più lavoro pur cercando di mettere in crisi chi lo offre, e non in nero, nonostante tutto. Addirittura utilizzare strumentalmente questo tema per uscire dalla realtà e fare propaganda per il proprio partito.

Personalmente non sono contento per l’errore, grave, commesso dai sindacati confederali che hanno sottovalutato la distanza profonda tra il loro linguaggio, mediatico o meno, in rapporto ai duemila lavoratori coinvolti a Serravalle, alle loro esigenze e alle loro aspettative.

Probabilmente si giustificheranno dando la colpa alla paura dei singoli non interrogandosi sulla particolare tipologia del centro e della sua proposta commerciale. Pronti a ricominciare alla prossima festività.

La realtà però è altra cosa rispetto alla propaganda politica o sindacale che sia. Speriamo che questa esperienza serva, a tutti, per il futuro.

Declinare crescendo?

Ha ragione Di Vico. In mancanza di risultati e di negoziati seri con contropartite adeguate il sindacato italiano, soprattutto quello meno strutturato, cerca solo di rassicurare i propri iscritti. Credo però che sia inevitabile.

Prendiamo l’outlet di Serravalle. Nessun sindacalista alessandrino ha sollevato problemi di principio, alzato al voce, o preteso alcunché quando il “Centro più grande d’Europa” si è insediato in mezzo alla campagna né quando si è strutturato fino ad arrivare ai duemila posti di lavoro (di vario genere) di oggi. Anzi.

A differenza di altre categorie dove tra i sindacalisti esistono veri esperti di settore, nel terziario prevale ancora la figura tradizionale del sindacalista generalista cresciuto con le regole della Grande Distribuzione del 900 scolpita nei contratti nazionali e aziendali e nelle rivendicazioni che ne hanno caratterizzato una intera generazione, nel bene e nel male.

C’è però una grande differenza tra un negozio di vicinato, un supermercato di via, un discount, un ipermercato, un centro commerciale, un mall, o un outlet. Profondamente diversi non solo per la dimensione e per le problematiche ma anche nelle fasi di apertura, di consolidamento e di mantenimento. Così come negli orari, nelle giornate di vendita, nella stagionalità. E infine nella tipologia di lavoratore necessario.

A tutto questo il sindacalista generalista non era e non è preparato. La differenza è che nelle fasi espansive, pur non incidendo sugli assetti organizzativi, ne beneficiava comunque in termini di iscritti e quindi ha lungamente abbozzato.

Pochi hanno cercato di capire l’evoluzione del settore, la sua differenziazione sia dimensionale che qualitativa del lavoro. Né di comprendere l’inevitabile cambiamento del ruolo della rappresentanza.

Un outlet tipo Serravalle con oltre duemila addetti ha dentro di sé le problematiche tipiche di un grande centro commerciale e, contemporaneamente, di una via dello shopping tipo Corso Buenos Aires a Milano. Non c’è un imprenditore. C’è un gestore di spazi.

Convergono su di esso decine di migliaia di turisti stranieri portati direttamente in pullman desiderosi di accaparrarsi capi firmati a prezzi scontati. In una festività qualsiasi più di quarantamila visitatori vi si accalcano.

Tutto questo, ovviamente, può piacere o meno. Non consente solo di alimentare illusioni, desideri di possesso di capi firmati ma anche di smaltire collezioni, magazzini strapieni di merce e sostenere opportunità di lavoro. È un approccio che funziona solo a ciclo continuo.

Per i clienti del far east, ad esempio, le nostre festività nazionali o religiose sono sconosciute. Sfido chiunque di noi a indicare le festività religiose coreane o cinesi. Ma vale così per molti altri. Così come per i connazionali pensare di fare anche cento chilometri durante la settimana è semplicemente impossibile.

Per il sindacato è una sfida vera. Può ritirarsi davanti ad una rotonda con i suoi attivisti che non lavorano nell’outlet e bloccare clienti indispettiti. Oppure cercare di capire come entrare in relazione con un mondo fatto di tipologie di lavoro, interlocutori, livelli di confronto diversi uno dall’altro.

Nel primo caso avrà lanciato un segnale identitario ai suoi iscritti che approveranno questa presa di posizione ma non cambierà nulla.

Nel secondo caso potrà iniziare un lento lavoro di recupero e di comprensione di una realtà dove impresa, lavoro, luoghi e modalità assumono contorni più sfumati della fabbrica e forse potrà anche tentare di rappresentarne le esigenze.

Le buone ragioni di ciascuno e la concretezza necessaria..

A voler litigare con tutti alla fine si resta soli con i propri problemi. Anche se si hanno buone ragioni. Le aziende della Grande Distribuzione che hanno deciso di seguire Federdistribuzione uscendo da Confcommercio a poco più di 5 anni rischiano di trovarsi ad un  punto morto.

Nel comunicato di annuncio della scissione del 22 dicembre 2011 non c’erano affatto intenzioni bellicose. Federdistribuzione riconosceva “la proficua collaborazione con la Confederazione presieduta da Carlo Sangalli e la condivisione di attività e percorsi (primo tra tutti il rinnovo del Ccnl) che restano obiettivi comuni che potranno portare anche in futuro a verificare forme di collaborazione, nell’interesse di entrambe le organizzazioni e dei settori rappresentati, sia a livello centrale che locale”. E anche Confcommercio auspicò lo stesso approccio.

C’era, ovviamente, la volontà di andare per la propria strada ma anche la consapevolezza contenuta nel saggio proverbio keniota che recita “se vuoi arrivare primo corri da solo, se vuoi arrivare lontano cammina insieme”.

E questo era un proposito utile  per tutti: la complessità della crisi, la gestione dell’imminente scadenza del contratto nazionale, i rapporti locali e centrali con le istituzioni, facevano propendere per una necessaria convergenza seppur inevitabilmente competitiva sulle singole questioni. Ma una competizione sana utile ad entrambe e finalizzata a portare vantaggi alle imprese associate e al sistema commerciale in generale. E rispettoso del ruolo delle controparti sindacali.

Purtroppo così non è stato. Federdistribuzione decise di cavalcare il decreto cosiddetto “salva Italia” del Governo Monti che prevedeva la totale liberalizzazione delle aperture degli esercizi commerciali e di formalizzare alle organizzazioni sindacali di categoria la volontà di uscire dal contratto nazionale del terziario per sottoscrivere uno specifico per le aziende del comparto.

Sulla liberalizzazione delle aperture il vento del 2011 sta cambiando. E non è necessariamente una buona cosa. La crisi della Grande Distribuzione è evidente e non è riducendo il numero delle aperture o irrigidendo il sistema che la si risolve. Anzi.

Aggiungo che sentire la “moderata” segretaria generale della CISL Annamaria Furlan affermare al Corriere che: “Vedere nell’outlet un luogo dove fare un po’ di svago, fare una passeggiata e concedersi un po’ di riposo è un modello sociale sbagliato” non è certo di buon auspicio per gli operatori economici soprattutto esteri anche perché, se è un modello sbagliato, presumo che per Furlan lo sia tutto l’anno e non solo a Pasqua e che il suo pensiero valga per tutti quei luoghi, compresi i centri commerciali, dove le persone, soprattutto quelle meno abbienti, ci passano intere giornate di festa magari senza neppure fare acquisti.

Neanche Susanna Camusso si era spinta così in avanti limitandosi ad una contestazione dell’organizzazione del lavoro, del rispetto del salario e dei diritti, contestando la necessità di aprire tutto l’anno a tutela dei lavoratori del settore.

È probabile che anche il segretario generale della CGIL non ami passeggiare per gli outlet o per i centri commerciali nei giorni festivi ma i confini tra un giudizio di natura sindacale e uno di natura etico o morale o ad un modello consumistico ritenuto in generale sbagliato credo debbano restare su piani differenti.

Certo, giudizi e convincimenti di importanti controparti sindacali non sono di buon auspicio per chi, deve investire o decidere di affrontare, e con quali strumenti, la profondità della crisi dei consumi con i suoi riflessi sull’occupazione e questo indipendentemente dalla “disfida mediatica” di Serravalle in scena il giorno di Pasqua dove tutti, il giorno successivo, la racconteranno inevitabilmente a modo loro.

Dall’altro lato, resta la ferita del mancato rinnovo di un contratto specifico così come richiesto da Federdistribuzione. Dal 1 aprile 2015, data della firma del nuovo contratto nazionale del terziario,da parte di Confcommercio,  le aziende della GDO aderenti a Federdistribuzione sono, volenti o nolenti, in dumping rispetto alle altre aziende che, al contrario, applicano quel contratto.

E questo è indubbiamente gravido di problematicità di cui non tutte le imprese ne hanno percepito le possibili conseguenze. Come ho sempre sostenuto non c’è spazio per un contratto che non sia sostanzialmente identico per quantità economiche erogate e per normative. Quindi un contratto che rischia di essere  inutile.

In più Confcommercio, come Confederazione, ha recentemente sottoscritto un accordo con CGIL, CISL e UIL che imposta regole che valgono per l’intero settore e impegna le parti al loro rispetto. Lo scenario sindacale è dunque cambiato.

L’interesse delle imprese e dei lavoratori dovrebbe prevalere inducendo chi le rappresenta a lavorare per individuare le soluzioni più idonee in un contesto diverso da quello di partenza. E queste sono all’interno del percorso indicato dal contratto del terziario già firmato sia che si scelga di optare per un contratto autonomo o magari cercando di lavorare con maggiore lungimiranza sul terreno dell’innovazione contrattuale, prevedendo dal CCNL già in essere, tutte le deroghe e le specificità del caso. Soprattutto idonee per gestire la crisi profonda del settore.

Le organizzazioni sindacali non possono che percorrere una strada nel solco di quanto concordato con Confcommercio. E questo era chiaro prima, durante e lo sarà semmai si dovesse raggiungere un necessario punto di incontro.

È probabilmente un interesse comune aprire una nuova fase soprattutto in forza del cambiamento del contesto. E forse ci potrebbero essere tante buone ragioni per farlo.

Qualcosa si muove intorno a noi…


C’è voglia di cambiamento nel Paese. E non solo nella politica. Ci sono persone chi interpretano questa voglia voltandosi indietro e chi, al contrario, cerca di trovare risposte, guardando in avanti.

La politica interpreta queste volontà agitandosi in entrambe le direzioni. Il mondo del lavoro e della rappresentanza, almeno fino al referendum istituzionale, ha tentato di tenere insieme quanto di buono veniva dal passato con un presente difficile cercando, però, per quanto è possibile, di interpretare il futuro.

D’altra parte la profondità della crisi e l’Europa presentata come matrigna hanno purtroppo rappresentato per molti solo un grande alibi. Il cambiamento necessario vissuto come una maledizione inevitabile. Quindi subìto.

Comprensibile nei singoli individui perché disorientati non in chi li dovrebbe rappresentare perché il futuro non si subisce né si immagina; si fa. E, purtroppo, lo si deve fare operando quotidianamente tra chi ipotizza cose mirabolanti ma lontane e forse improbabili e chi, incapace di uscire dal porto, ripropone costantemente l’illusione di un ritorno al passato. Ma le navi non sono costruite per essere tenute ancorate nei porti.

Purtroppo quello dei corpi intermedi è un mondo un po’ autoreferenziale dove tutti pensano di avere molte ragioni e dove i torti, semmai, sono sempre degli altri. Il recente intervento di Marco Bentivogli sul Foglio ha il merito di rompere gli schemi e di proporre uno scenario con il quale è necessario confrontarsi. Uno scenario in movimento per tutti.

Da un lato la CGIL e la sua carta dei diritti. Dall’altro i pentastellati che ripropongono la disintermediazione nel lavoro scegliendo come compagno di viaggio il rancoroso ex FIOM Cremaschi. Quest’ultimo, con i Grillini, sembra però avere un solo obiettivo in comune: delegittimare il sindacato confederale.

Tutte strade, queste, decisamente impraticabili. Sicuramente per il mondo delle imprese. Così come sarebbe un errore accettare come inevitabile il declino propositivo unitario delle organizzazioni di rappresentanza. Il rischio dell’irrilevanza dei corpi sociali si combatte entrando nel merito delle questioni poste. Anche da sindacalisti come Marco Bentivogli che segnalano l’avvicinarsi del punto di non ritorno. Non solo per il sindacato confederale.

Innanzitutto nel prefigurare un futuro possibile nel quale dobbiamo essere tutti consapevoli che la tradizionale divisione del lavoro tra terziario, industria e agricoltura sta mutando rapidamente.

I tradizionali confini settoriali stanno venendo meno. La conseguenza di questa nuova divisione del lavoro è che l’industria tenderà sempre di più a terziarizzarsi e il terziario tenderà inevitabilmente ad industrializzarsi cercando di realizzare economie di scala nella gestione dei servizi, dei dati e delle conoscenze.

Nelle filiere globali che stanno emergendo da questi nuovi modi di lavorare tutto ciò che può essere meccanizzato e codificabile verrà sempre più attratto inevitabilmente da luoghi dove i costi sono minori (lavoro, energia, tasse, vincoli amministrativi e ambientali) o al contrario dove esistono capacità e talenti di eccellenza in specifiche situazioni.

Quindi la capacità del sindacato di trovare nuovi livelli di mediazione può fare la differenza. La vicenda FCA lo dimostra inequivocabilmente. Le conseguenze che questa prospettiva può avere per l’attuale assetto anche della rappresentanza sia imprenditoriale che sindacale, ancorate tuttora a un modello che deriva dal secolo scorso è facilmente immaginabile.

Il compito della nuova rappresentanza, che voglia impegnarsi a gestire la transizione in corso, è dunque di aiutare le imprese e il lavoro, che si presenta sempre più anche in forme differenti e deregolamentate, a non esserne travolti presidiando alcune azioni chiave. Innanzitutto investendo sul capitale umano e sulle infrastrutture necessarie alla rivoluzione digitale/globale in corso.

Poi impegnandosi a promuovere le innovazioni collettive (politiche, contrattuali, sociali, infrastrutturali, normative, di welfare e di apprendimento/ricerca) che è necessario realizzare per sostenere i percorsi delle imprese e dei lavoratori nel difficile confronto con i nuovi competitors. E su questo, gli ultimi rinnovi contrattuali hanno cominciato a dire qualcosa di nuovo.

Infine occorre stimolare lo sviluppo di iniziative che favoriscano forme (chiamiamole pure come vogliamo) di collaborazione intraprendente, corresponsabilità, partecipazione, condivisione del rischio tra i tanti soggetti coinvolti dai percorsi di transizione a monte, all’interno e a valle dell’impresa.

Ultimo ma non di minore importanza occorrerà partecipare alla trasformazione in senso creativo ed efficiente dei contesti di vita e di lavoro che condizionano produttività e creatività delle imprese (smart cities, ambienti creativi, attrazione dei talenti, relazioni utili con la ricerca e le università, servizi innovativi di welfare ecc.).

Per fare tutto questo non occorre disintermediare alcunché. Occorre esattamente l’opposto. Occorre più rappresentanza, seppure diversa, non meno.

Marco Bentivogli ha fatto bene a lanciare un segnale forte a tutto il sindacato (e non solo alla sua parte) segnalando l’urgenza dei cambiamenti necessari e la loro direzione di marcia. Sarebbe importante che la sfida venisse raccolta da tutti.

Il trivio necessario…

Nessuno ha notato la concomitanza tra due eventi apparentemente opposti. L’8 aprile, al teatro Brancaccio di Roma l’attivo dei delegati della CGIL mentre, a Ivrea il movimento 5 stelle ha scelto lo stesso giorno in un luogo simbolico e la figura di Adriano Olivetti per lanciare Sum01 “Capire il futuro”.

Da una parte un pezzo comunque importante del Paese, rappresentato dalla CGIL, che cerca di ricostruire intorno ad un’idea, condivisibile o meno, di centralità dei diritti, dignità del lavoro e una diversa distribuzione del reddito il proprio futuro politico e sociale. Una parte che individua nella globalizzazione più i rischi che le opportunità.

Dall’altra un movimento eterogeneo che sa di poter vincere politicamente perché è riuscito ad intercettare sia la protesta che la voglia di cambiamento che sta crescendo nel Paese, soprattutto tra le nuove generazioni. Un movimento che ha, nel cuore della base e dei militanti, i tassisti ma ha Uber nella testa dei suoi ispiratori.

Non è un caso che il mov 5 stelle ha scelto Olivetti e la sua Ivrea. Immagine rassicurante di un imprenditore visionario lontano dagli stereotipi manageriali e imprenditoriali ” sempre bravi a privatizzare gli utili e a socializzare le perdite” di cui il nostro Paese resta uno dei principali produttori.

C’ė, nei vertici del movimento, la certezza assoluta della vittoria e quindi la volontà di rassicurare il Paese che conta. Ma anche di spiegare alle sue diverse anime interne, invitate in platea, che non c’è spazio per i protagonismi movimentisti della prima ora. Un passaggio difficile. Soprattutto perché il movimento rischia la diaspora di una parte consistente dei militanti “duri e puri” proprio nell’ultimo miglio. La vicenda di Roma è lì a dimostrarlo.

Dall’altra parte la CGIL che vinta la partita dei voucher “a tavolino” sembra aver scambiato, purtroppo, un tramonto per un’alba e cerca di serrare le fila per nuove battaglie contando esclusivamente sulle proprie forze e su quella parte della sinistra esclusivamente impegnata in una rivincita contro Renzi e ciò che rappresenta.

Un dato che li accomuna è la convinzione di potercela fare da soli. Entrambi sicuri di attrarre verso di sé il resto del mondo di riferimento. I primi sul piano sociale, i secondi su quello politico. È il NO che, inevitabilmente, li unisce. Anche se è un NO di segno opposto. Il NO a tutto ciò che cambia il lavoro costruito dai baby boomers (che oggi governano il sindacato) e lo mantiene ancorato ad una tradizionale cultura fordista, per i primi. Il NO a tutto ciò che quelle generazioni hanno costruito nel bene e nel male, in Italia e in Europa, per i vertici dei secondi.

Si elideranno a vicenda? Probabilmente si. Il punto è stabilire chi ne pagherà le conseguenze. A mio parere manca ancora all’appello un terzo soggetto credibile. Sociale e politico.

Paolo Pirani, segretario generale UILTEC, con una battuta felice ha centrato il problema: “Più che un Partito della Nazione occorrerebbe un Patto per la Nazione”. Indubbiamente è l’ultima chance che ha a disposizione questo Paese prima del burrone. Chi non crede nella deriva movimentista o in quella tecnocratica digitale non può stare alla finestra. Non siamo di fronte ad un bivio ma ad un trivio.

È difficile pensare che un Paese come il nostro con differenze territoriali e culturali così profonde e con il nostro debito pubblico possa “salvarsi” mettendo le generazioni l’una contro l’altra o scegliendo strade diverse da tutto il resto d’Europa.

Nel sindacato, nei corpi intermedi più in generale e, probabilmente nel Paese c’è anche voglia d’altro. Lo stesso referendum del 4 dicembre lo ha dimostrato. Che lo si voglia ammettere o meno è da lì che occorre ripartire per ricostruire, insieme, un’altra idea di Paese. Più moderno, inclusivo, unito nei territori, nelle generazioni e nei suoi valori di fondo.

Mala tempora currunt….

Le dinamiche messe in atto dall’esito referendario stanno rimettendo in moto il quadro politico italiano e, di conseguenza, le dinamiche che attraversano i corpi intermedi.

Sul fronte datoriale la debolezza di Confindustria è evidente. Le vicende interne pesano. La stessa difficoltà a chiudere l’accordo confederale con i sindacati lo dimostra come il fatto che, i suoi comparti, hanno preferito chiudere i rispettivi contratti nazionali manifestando la volontà di mantenere comunque una forte autonomia settoriale.

Inascoltata dal Governo sui voucher (come purtroppo tutte le organizzazioni datoriali), sta tentando di rimettersi in gioco lasciando intendere al Governo la possibilità di uno scambio tra l’aumento del’IVA e una riduzione del cuneo fiscale. Scambio che non farebbe bene al Paese.

Ma, al netto dei problemi specifici di Confindustria, questa difficoltà a rientrare in gioco per poter dare il proprio contributo propositivo al rilancio del Paese è un po’ di tutte le parti datoriali. E questo non è un bene di fronte alla accentuata debolezza della politica, alle sue divisioni e in un contesto internazionale profondamente mutato.

Se Atene piange, però Sparta non ride. Nel campo sindacale ciò che i contratti nazionali avevano prodotto di buono sul terreno dell’unità tra le diverse sigle confederali e con le rispettive controparti rischia di essere vanificato dalla divaricazione che pare inarrestabile tra la CGIL e le altre due confederazioni.

Il protagonismo messo in campo dal primo sindacato italiano è evidente. La “vittoria a tavolino” sui voucher è solo il primo segnale. È difficile non cogliere nei propositi di Susanna Camusso la volontà di approfittare della debolezza della sinistra politica (vecchia e nuova) per contribuire in modo determinante a ridisegnarne il campo.

La CGIL, come peraltro le altre organizzazioni sindacali, ha capito benissimo che nelle aziende il vento è cambiato profondamente. Tra i lavoratori c’è preoccupazione per il proprio futuro e per il contesto ma c’è voglia di dare il proprio contributo, di impegnarsi e di fare la propria parte nell’interesse dell’impresa e del lavoro.

C’è, in sostanza, voglia di collaborare, di investire su se stessi e nel rapporto con la propria azienda. Certo permangono situazioni di crisi, anche grave, dove i sindacati sono costretti in un ruolo tradizionale. Ma, queste realtà, non rappresentano la norma.

Non è un caso che i contratti nazionali si siano chiusi unitariamente e il dissenso presente nell’elaborazione delle differenti piattaforme è improvvisamente scomparso lasciando il campo ad una volontà convergente nelle singole categorie. Così come non è un caso che, proprio la CGIL, ha messo in campo una spinta decisiva per chiudere rapidamente i rinnovi e formalizzare gli accordi sulla rappresentanza e sui livelli della contrattazione.

A tutto questo, però, non è seguito nessun forte ridisegno dei rapporti unitari né la volontà di riprendere una iniziativa comune che rimettesse al centro un ruolo propositivo dell’insieme delle parti sociali. È un po’ come se l’obiettivo politico della CGIL di contribuire a ridisegnare in prima persona il campo della sinistra fosse comunque prevalente a tutto il resto e quindi necessitasse di sgomberare velocemente il terreno da tutto ciò che poteva in qualche modo ritardarne l’implementazione sociale. Contratti nazionali compresi.

È vero che CISL e UIL confederali sono in evidenti difficoltà sul piano dell’iniziativa generale ma nelle rispettive categorie la generosità e la disponibilità messa in campo sul terreno unitario faceva ben sperare. Vedremo le prossime mosse.

È chiaro che una CGIL che si dovesse caratterizzare sempre più come soggetto politico è comunque destinata, prima o poi, a entrare in rotta di collisione con l’insieme del sistema della rappresentanza. E questo non è un bene. È già successo in altri Paesi con un esito scontato.

Il vero problema è che una CGIL che si dovesse sottrarre per mero calcolo politico ad un ruolo unitario e di proposta con l’insieme del sindacato confederale propedeutico ad una convergenza tra capitale e lavoro commetterebbe un grave errore destinato ad essere pagato da tutto il Paese. Purtroppo i segnali di questi giorni non sono incoraggianti.