Signore, io sono Irish…

Un vecchio e indimenticato pezzo dei New Trolls negli anni 70 descriveva la domenica di uno schiavo nero che, dopo una durissima settimana impiegata a raccogliere il cotone, il giorno del riposo si trovava costretto a fare 60 miglia a piedi per andare e tornare dalla messa.

Allora la domenica aveva questo duplice scopo: riposare e dedicare a Dio, per i credenti, il settimo giorno. Riposare significava recuperare veramente le forze. E non metaforicamente. Da allora molte cose sono cambiate. Nel lavoro, nel vivere la propria religiosità e nel dare significato al termine “riposo”.

Per il lavoratore coinvolto in una particolare attività economica e per quello che, quel giorno, lo utilizza per trasformarsi anche in consumatore. Sul lavoro festivo, purtroppo, si va da un estremo all’altro.

L’outlet di Serravalle Scrivia, suo malgrado, rischia di trasformarsi in una sorta di linea di confine. Finirà come sempre. Da una parte la narrazione dei contrari al lavoro domenicale quasi esclusivamente sui media, dall’altra la realtà di migliaia di lavoratori/consumatori che, quel giorno, come in tutte le altre festività, affolleranno l’outlet per passare una giornata di festa magari con qualche acquisto.

Un outlet, un grande centro commerciale ma anche un supermercato dovrebbero essere aperti sempre. Soprattutto oggi dove i concorrenti sono del livello e dell’aggressività commerciale di Amazon o E Bay. Questi ultimi con negozi virtuali aperti tutto l’anno h 24 con saldi a getto continuo per tutto l’anno. Se non fossero frequentati anche nei giorni festivi non avrebbe alcun senso tenerli aperti. I costi di gestione sarebbero pesantissimi.

Domenica scorsa sono stato al “Centro” di Arese. C’erano decine di migliaia di persone. Famiglie, giovani, un po’ di tutto. Dal 1963 al 2005 c’era l’Alfa Romeo. Poi più niente. Sono cresciuto a due passi dal Portello a Milano. Anche lì fino al 1963 c’era l’Alfa Romeo. Poi il nulla. Il centro commerciale ha rivitalizzato il quartiere e trasformato un luogo degradato in un centro di incontri e di svago tutto l’anno.

A differenza di altre città Milano ha saputo interpretare bene il passaggio da città industriale a città del commercio e del terziario. Ha gestito con intelligenza le contraddizioni tra Grande e piccola Distribuzione. Ha assorbito gli inevitabili contrasti. Questo ha creato occupazione vera. Sopratutto per molti senza alcun titolo di studio, donne e giovanissimi anche provenienti da altri Paesi.

Occorrerebbe prendere atto che come la televisione si è trasformata negli anni in un antidoto alla solitudine per molti anziani questi centri sono diventati accoglienti, pieni di vita e luoghi frequentatissimi tutto l’anno. E non solo per fare acquisti. Negarlo o far finta di non vederlo è un errore.

O meglio è uno di quei residui di atteggiamento fine 900, un po’ snob, che comprende anche il giudizio sui Mc Donald’s, sulla Coca Cola, sul terziario in generale visto come ancillare rispetto ad un mondo che non esiste più. Personalmente poi, lo dico sommessamente,  provo un certo imbarazzo per tutti quei laici che si nascondono dietro il tema religioso esclusivamente per sollevare un inutile polverone..

Per centinaia di migliaia di persone lontane da questi dibattiti sono luoghi dove passare il tempo. Sarebbe ora di comprenderlo e guardare avanti. Anche perché il lavoro sarà sempre più terziario. Povero o ricco di contenuti che sia.

L’amico Giuseppe Sabella centra il problema quando invita a riflettere su di un punto: “Il lavoro futuro passa inevitabilmente per una nuova umanizzazione dei luoghi di lavoro. E, chiaramente, il lavoro festivo va pagato come tale.” Sono perfettamente d’accordo.

Per questo ci sono i contratti di lavoro che devono evolvere proprio perché il lavoro cambia. Aprire 360 giorni all’anno non significa lavorare tutto l’anno. Significa organizzare il lavoro e i riposi e retribuire il giusto. E il giusto lo si deve concordare  nei contratti di lavoro.

Ma il lavoro nel terziario resta profondamene diverso da quello industriale. Ruota intorno al servizio, non al prodotto. Si dice: “ma all’estero non è così”. È vero. Il tessuto distributivo degli altri Paesi e le regole sono diverse. Anche il tessuto industriale, però, è diverso.

Ogni Paese ha le sue regole, i suoi contratti di lavoro e una cultura commerciale differente. Si aggiunge: “C’è molto lavoro povero”. Si. Però  questo fornisce uno sbocco a migliaia di giovani, sopratutto donne che non proseguono gli studi e che possono entrare nel mercato del lavoro e crescere. E, assicuro i più scettici, la formazione messa a disposizione nella Grande Distribuzione è di notevole entità e qualità.

C’è molto da fare sul piano contrattuale. Certo che si. Verso il basso perché il fordismo è entrato nei centri di Distribuzione, nelle attività di consegna e nel lavoro povero della GDO e verso l’alto anche in quegli stessi o in altri settori. C’è da affrancarlo proprio dalla cultura fordista senza però dimenticare che molti di quei lavori saranno presto sostituiti da macchine o direttamente dai consumatori stessi.

Francesco Riccardi sull’Avvenire esagera quando scrive: “I sindacati – e in particolare la Cgil – hanno compreso da tempo, però, che in gioco non c’è tanto e solo una questione contrattuale su orari e retribuzioni, che si possono sempre negoziare, ma qualcosa di assai più prezioso: i diritti di ciascun lavoratore e di tutti…”.

Mi sembra francamente una esagerazione. Non credo che i sindacati si siano mai proposti di bloccare a Pasqua o in altri periodi, Gardaland, i parchi tematici o le multisale cinematografiche. Non c’è molta differenza e anche lì lavorano, pur nel rispetto dei loro diritti, migliaia di lavoratori del terziario.

A suo tempo Confcommercio pose il problema della regolamentazione delle aperture cercando di consentire alle Regioni uno spazio di manovra soprattutto quando, nel gennaio del 2012, entrò in vigore la riforma c.d. Salva Italia del Governo Monti, con la liberalizzazione totale degli orari di apertura, 24 ore giornaliere e 365 giorni l’anno.

Non ci fu nulla da fare. Né nessuno (anche di chi oggi protesta) disse nulla. Comunque Federdistribuzione conferma un aumento degli occupati significativo a seguito della liberalizzazione. Che di questi tempi, non credo sia comunque da sottovalutare.

Sgravi contributivi per i giovani. Perché ripetere l’errore?

S. Agostino ci ricorda che  “Humanum fuit errare, diabolicum est per animositatem in errore manere”. È in quel insistere per “superbia” che sta l’errore vero (allora come oggi).

Nel prossimo Def (Documento di Economia e Finanza) ci saranno (così scrivono i giornali) sgravi contributivi riservati ai giovani con meno di 35 anni di età che vengono assunti per la prima volta con un contratto di lavoro stabile.

Sul piatto, per questa misura, ci dovrebbe essere circa un miliardo di euro l’anno. Confindustria, dal canto suo, è soddisfatta anche se questo potrebbe avere, come conseguenza, un aumento dell’IVA.

Sia chiaro, l’idea di ridurre il cuneo fiscale (a tutti) è corretta. Anzi, dovrebbe essere salutato come un atto dovuto. E non solo per i giovani. Raccontare però che, in questo modo, si contribuisce a ridurre la disoccupazione giovanile, soprattutto là dove ha raggiunto livelli di assoluta intollerabilità è un errore che rischia di portare con sé conseguenze molto negative.

Da un lato, tutti hanno capito che i 18 miliardi della decontribuzione renziana non hanno funzionato perché senza ripresa economica non si crea occupazione stabile e che, addirittura, anche in presenza di una inversione di tendenza, non sarà certo l’industria a creare occupazione.

Dall’altro, si persevera nello spingere gli imprenditori ad assumere, incentivando alcune tipologie, cercando di forzare, così, le loro esigenze. Scettiche le reazioni (non solo) della Cgil che ricorda: «sono già stati dati 18 miliardi con la decontribuzione Renzi senza grandi risultati. Meglio sarebbe investire su di un piano straordinario di lavoro per i giovani».

Personalmente non sarei così sbrigativo nel respingere al mittente questo approccio. L’intuizione della CGIL non è sbagliata. Il punto vero è, ancora una volta, decidere se siamo o meno di fronte ad un’emergenza nazionale o se il Governo chiede (semplicemente) ad una parte sociale un atto di generosità nei confronti di un segmento della popolazione.

Se non è così occorrerebbe decidere chi è il soggetto vero dell’intervento (i giovani e il loro futuro o solo il loro costo per le imprese) e agire di conseguenza. La Regione Emilia Romagna, dal canto suo, ha predisposto fin dal 2012, un piano interessante concordato con l’insieme delle parti sociali.

Oggi abbiamo i primi risultati. Per quanto riguarda il “Fondo per l’assunzione e la stabilizzazione” sono stati erogati 2463 incentivi sia per nuove assunzioni che per conferme a tempo indeterminato. Attraverso il “Fondo apprendistato” sono stati finanziati 27 mila percorsi formativi. Con il “Fondo fare impresa” sono stati finanziati 283 voucher che hanno consentito, al termine dei percorsi, al 60% dei giovani di avviare un’attività. Infine è stato predisposto un “Fondo giovani” (30/34 anni) per finanziare percorsi individuali di formazione, prevalentemente dentro le imprese, finalizzate a far acquisire competenze utili al loro percorso professionale.

Un approccio, come si può vedere, molto diverso. Soprattutto una assunzione di responsabilità molto diversa da parte di tutte le componenti sociali, istituzionali e formative della regione. Il messaggio forte che esce da queste prime valutazioni è di aver ottenuto un risultato parziale, certo modesto ma utile.

Ciascuno lo difenderà, si predisporrà per migliorarlo ulteriormente, per renderlo ancora più funzionale. Non si scateneranno inutili polemiche, né ci saranno trasmissioni televisive, indagini, pallottolieri che narreranno una realtà lontana dal Paese reale.

Ed è per questo che ho ricordato che più che ripetere l’errore è la superbia nel ricommetterlo dove sta il vero male. Oltre che nell’inutile spreco di risorse.

Il piano Calenda e il rischio di sottovalutare il lavoro…

Per Rachel Botsman non ci sono dubbi. Lo ha scritto nel suo libro What’s Mine is Yours che è uno dei testi di riferimento della sharing economy: il potere della collaborazione e la fiducia, cambieranno il nostro modo di lavorare e consumare.

Cambieranno il modo di pensare ai brand e ai prodotti, le esperienze e i comportamenti sia dei consumatori che del lavoro. L’economia in generale e quindi le aziende, lo dicono ormai tutti, saranno caratterizzate sempre più da volatilità, incertezza, complessità e ambiguità.

In questo contesto la collaborazione diventa una inevitabile strategia di sopravvivenza. Difficile cavarsela da soli. Quindi l’impresa collaborativa sarà, per sua natura, più competitiva.

Deve saper costruire un modo di rapportarsi nuovo all’esterno con clienti, fornitori, partner, reti, ecc. e, all’interno con i propri collaboratori. Nel rapporto Technology vision 2015, Accenture analizza le tendenze tecnologiche destinate ad affermarsi nei prossimi anni e mette come centrale il cambiamento in atto verso la “We Economy”.

Aziende che fanno sistema e non opereranno più come singole entità ma amplieranno i confini tradizionali del proprio business entrando in contatto con altre realtà dando così vita a nuovi ecosistemi digitali collaborativi.

Da un’indagine globale condotta su oltre 2000 dirigenti aziendali e responsabili IT è emerso che quattro intervistati su cinque pensano che in futuro i confini tra settori saranno sempre più sfumati e le piattaforme digitali li trasformeranno in ecosistemi interconnessi tra di loro. Saper operare in questo modo e non invece come singole entità aziendali farà la differenza in termini di business.

Per i manager la sfida è quella di saper convivere e interagire con questi ambienti sapendo estrarre e interpretare da essi il massimo dei segnali, anche contraddittori, che il sistema produce dotandosi di un mix di competenze specialistiche, di capacità manageriali e, ovviamente, digitali.

Ma questo vale anche per i lavoratori che devono investire, sulle proprie capacità e competenze in un mondo che tende a renderle velocemente obsolete, sull’uso efficace del loro tempo e su nuovi strumenti di relazione e di comunicazione.

Per questo il piano Calenda dovrebbe essere accompagnato da un’ambizione maggiore sia sul terreno del coinvolgimento dei corpi intermedi che sul tema del lavoro quindi non può non avere anche un marcato risvolto innovativo sul terreno sociale oltre che economico. I contratti di lavoro firmati sono già andati più avanti.

Anche delle modeste ambizioni di chi vorrebbe far coincidere il proprio perimetro associativo con il tutto. Non è un caso che industry 4.0 è nato e decollato in Germania dove hanno saputo inserirlo in un contesto sociale e collaborativo molto più avanzato.

La scommessa che abbiamo di fronte è proprio questa. Aver promosso un importante rinnovamento dei contratti di lavoro e le relazioni sindacali e aver investito sul welfare e la formazione continua non servirà a nulla se non inserito in questa prospettiva.

Adesso occorre contribuire al decollo dell’ANPAL per dotare il Paese di politiche attive efficaci e, attraverso l’alternanza, far collaborare il mondo della scuola e del lavoro in modo più consapevole. Sarebbe singolare che un profondo processo di innovazione delle imprese e del lavoro non colga l’esigenza di coinvolgere in modo sostanziale chi lo rappresenta.

Il “patto di fabbrica”, l’adozione di modelli che sviluppino la corresponsabilità e la collaborazione non si creano assegnando ruoli da comprimari ai soggetti in campo che, al contrario, devono esserne protagonisti consapevoli. Certo non sarà un lavoro facile perché permane, in una parte del mondo del lavoro, una cultura legata a quel “breve quanto irripetibile periodo” del novecento che fatica a credere nel cambiamento e nell’innovazione.

Ma questa non può essere una scusa per evitare il confronto. Né può essere lasciato confinato alle scadenze naturali dei contratti spostando sempre più in avanti l’esigenza di cambiamento delle relazioni sindacali del nostro Paese anche perché, il tempo, non è una variabile infinita a disposizione.

Il rischio che un nuovo protagonismo sindacale, se non trova sbocchi e interlocutori sul terreno della condivisione del futuro del lavoro e dell’impresa ripieghi su se stesso, è molto forte.

Questa deve essere la sfida che la Politica deve saper mettere in campo fin da subito e che, le parti sociali, devono essere pronte a cogliere in positivo.

Il curriculum e le iperbole del Ministro. Calcetto a chi?

Le iperbole del nostro Ministro del Lavoro, prima sui giovani che sono emigrati, poi sui curricula rischiano di superare, in popolarità le metafore di Bersani. Deve esserci, a sinistra, una gara non dichiarata a chi sa farsi più del male. Gara nella quale Giuliano Poletti è decisamente in testa. I problemi che solleva non sono, però, mai banali.

È banale, semmai, la loro rappresentazione ad un Paese che vive quei problemi sulla propria pelle. Il curriculum sta al lavoro come un qualsiasi “gratta e vinci” sta alla ricchezza. Purtroppo è vero.

Ma, giocare a calcetto, come propone il Ministro non è un’alternativa utile. Dentro un curriculum ci sono le speranze e le aspettative di chi lo scrive. C’è la sua autostima, la volontà di misurarsi sul mercato, di dimostrare le proprie qualità.

Spesso il protagonismo raccontato è esagerato e il linguaggio è incerto o incomprensibile. Ci si dimentica che un CV è scritto per chi, forse, lo leggerà. Lo scopo è suscitare curiosità e interesse. Non presentare la propria autobiografia personale e professionale completa.

Centoquarantaquattro milioni di curricula certificati sono girati nel 2016. Il tempo di lettura varia da 6,5 secondi a 20 secondi per quel 5/10% di essi che verrà letto da qualcuno. Difficile essere notati.

Tra l’altro, in Italia il mercato è dominato dal passa parola, dalla segnalazione o raccomandazione. Non necessariamente da intendere nella sua accezione negativa. A scuola non insegnano a scrivere un CV e nelle aziende, purtroppo, non sempre insegnano a leggerlo.

Un curriculum di trent’anni di lavoro non dovrebbe mai superare le due pagine e tutto ciò che riguarda esperienze precedenti ai 3/5 anni è di scarso interesse, per chi legge. Risultati raggiunti, contributi personali, scacchi subiti e ripartenze dovrebbero costituirne l’intelaiatura principale.

Per un giovanissimo più di ciò che ha fatto, meglio raccontare brevemente come e perché lo ha fatto. Ma un CV, pur scritto bene, senza un network sviluppato per tempo serve a poco.

E il network si sviluppa a scuola, sui social, partecipando ad iniziative, facendo sport o volontariato, mantenendo relazioni positive negli anni con i capi e colleghi di lavoro. Farsi conoscere e apprezzare è fondamentale.

E questo non lo si ottiene senza un impegno costante e continuativo non dimenticando mai che l’obiettivo di un curriculum non è ottenere lavoro ma è ottenere uno o più colloqui. Quindi è meglio essere sempre se stessi utilizzando un linguaggio consono.

Chi legge, se è in azienda, sa bene cosa gli hanno detto di cercare. Conosce i valori dell’azienda, la sua organizzazione, pregi e difetti di chi sarà il futuro capo, e del team. Può anche permettersi di sbagliare scartando un ottimo CV sapendo che nessuno se ne accorgerà mai. Chi scrive non sa quasi nulla di tutto questo. E spesso manco si informa.

È un campo dove, tra l’altro è difficile innovare. Però c’è chi può fare di più. La scuola, certamente, avvicinandosi di più al mondo del lavoro, inserendo nei propri programmi la scrittura del CV e il colloquio di lavoro. Magari chiedendo alle aziende del territorio di essere parte attiva sfruttando l’opportunità offerta anche dai percorsi di alternanza.

Le agenzie per il lavoro potrebbero attivare un canale di supporto in questa direzione, le stesse società di outplacement che più di altre conoscono bene il lavoro necessario per far riflettere le persone sul loro percorso e su come presentarlo. Si può fare molto.

L’unica cosa che non si deve fare è banalizzare un tema e una strumentazione che, per quanto criticabili e poco efficaci, rappresentano il mezzo con cui le persone, in perfetta solitudine, cercano di affrontare un mercato del lavoro sempre più complesso.

Le gaffes di cui si rendono protagonisti ministri e vice ministri del lavoro in carica sono sempre più frequenti e dovrebbero far riflettere, più che suscitare ironia, in un Paese normale. Altrimenti il “calcetto” dovrebbe essere riservato a chi fa queste battute.

Quale ruolo per le organizzazioni di rappresentanza in ottica industry 4.0?

Mi sono spesso domandato quale potrà essere, in ottica industry 4.0, lo spazio di azione in azienda, per i sindacati. Nel terziario, già oggi è minimo.

In parte per l’approccio e la cultura dei sindacalisti di settore, in parte perché, la stragrande maggioranza delle aziende non ha, né una storia di relazioni sindacali né di condivisione collettiva delle problematiche aziendali come in altri settori.

Le relazioni sindacali nel terziario, quando ci sono, sono generalmente esterne all’azienda attraverso gli enti bilaterali e le associazioni di rappresentanza. Gli stessi lavoratori si rivolgono ai sindacati solo a fronte di problemi specifici seri durante il rapporto di lavoro o alla sua conclusione.

Se escludiamo la Grande Distribuzione, che è la più legata a modelli organizzativi di derivazione fordista, nella stragrande maggioranza delle aziende del terziario il contratto nazionale viene rispettato nei minimi retributivi e in quelle norme generali applicabili al contesto specifico. Per il resto è lasciato alla gestione aziendale costituita dalla cultura interna, dall’organizzazione e dai modelli di gestione e sviluppo delle risorse.

Il singolo individuo vi si rapporta attraverso il proprio responsabile o, nelle aziende più strutturate, anche attraverso la direzione risorse umane. Nelle più evolute (quindi più vicine al contesto industry 4.0) il clima interno è generalmente monitorato attraverso vari strumenti (indagini di clima, KPI, ecc.) , la comunicazione è costante (capo/collaboratore, eventi, comunicazione, ecc.), i sistemi di valutazione e sviluppo professionale efficienti (formazione, assessment, valorizzazione del contributo individuale al business, ecc.) e infine, i riconoscimenti economici sono ben collegati ai risultati e all’andamento aziendale. Forme di welfare interno o contrattuale e benefit specifici completano il quadro.

Il rapporto è quindi personalizzato, le contropartite sono chiare così come sono chiare le possibili conseguenze negative. È un rapporto di partnership, che non prevede fedeltà né che duri per sempre. Da entrambe le parti. Ed è un modello che, ormai, tende a coinvolgere tutti. Non solo i manager dell’azienda.

Nel senso che, anche chi ne dovesse essere escluso, per ruolo o per seniority, sa quali sono le regole del gioco e le opportunità che possono e devono essere colte. E sa anche che, prima o poi, se non entra nel meccanismo, il suo contributo potrebbe essere messo in discussione. La contrattazione aziendale è praticamente inesistente perché tutto ciò che va oltre il CCNL è gestito unilateralmente dall’azienda. Né potrebbe essere diversamente.

Detto tutto questo che, a mio parere, spiega la differenza tra un modello contrattuale (quello manifatturiero) che è sempre stato costruito intorno ad un approccio collettivo e che ha “subìto” la gestione personalizzata rispetto a quello, tipico nel terziario, che viene costruito intorno alla personalizzazione del rapporto salvo utilizzare una base collettiva (il CCNL relativo) esclusivamente come punto di riferimento generale. Il punto è che tutto funziona fino a quando i confini applicativi e di categoria restano chiari, evidenti. Meno quando non hanno più ragione di esistere. Ed è questo il futuro che ci aspetta.

Il lavoro, che lo si voglia o meno, tenderà a polarizzarsi. Da una parte quello povero che sarà trasversale nei servizi alle imprese, nella GDO, nell’agroalimentare, nella logistica, nell’industria ma anche nelle start up (se, una volta per tutte, decidessimo di uscire dalla retorica che le accompagna).

Dall’altra quello di maggior contenuto professionale che coinvolgerà tutti i settori e renderà superflui le tipologie contrattuali utilizzate fino ad oggi, i confini di inquadramento, i modelli retributivi. E tutto questo non è materia delle singole imprese e non sarà materia da affrontare in un futuro remoto.

Industry 4.0 è un’occasione. È una opportunità per ridisegnare un percorso che non sarà breve ma deve andare nella giusta direzione. Per questo non credo che il problema sia legato semplicemente ai luoghi della contrattazione.

Le aziende sono cambiate profondamente mentre il modello contrattuale, i contenuti proposti, il ruolo delle organizzazioni di rappresentanza è rimasto sostanzialmente lo stesso. Sono stati trovati degli adattamenti che, via via, stanno scontentando un po’ tutti.

Per questo, c’è chi pensa (forse troppo sbrigativamente) che un semplice spostamento a livello aziendale possa risolvere il problema. Non sarà così. Anzi. Il contratto del terziario è lì a dimostrare una strada diversa, che può piacere o meno.

È però molto interessante per le imprese che pur rispettando il CCNL di riferimento possono muoversi con maggiore rapidità ed efficacia. Non è un caso che un terzo delle aziende iscritte ad Assolombarda preferiscano il contratto nazionale del terziario firmato da Confcommercio rispetto ai rispettivi contratti di categoria.

L’altro versante è rappresentato (schematicamente) dal contratto dei metalmeccanici che ha disegnato un percorso diverso dove il sindacato è disponibile ad affrontare in un contesto di reciprocità tutti i problemi sul tappeto delle imprese ma anche dei lavoratori in un contesto sicuramente collettivo. 

Quello che è certo è che non si arriverà ai prossimi rinnovi senza aver messo mano ad un nuovo modello contrattuale (assetti, contenuti e luoghi). E questo vale per tutti.

Alitalia tra tre fuochi…

Com’era prevedibile la vicenda Alitalia si trova di fronte alla sua principale contraddizione. Machiavelli avrebbe detto: “non si può essere di sollievo al Principe e innocui al popolo”. Questo è il punto.

Alitalia è un’azienda privata così come lo sono quasi tutte le grandi aziende italiane. A differenza che altrove il vezzo di tentare sempre “privatizzare gli utili e socializzare le perdite” non sembra essere ancora stato accantonato.

Quindi i soggetti in campo, come nel 900, sono tre. Non due come dovrebbe essere normalmente. Gli azionisti, il Governo e i dipendenti attraverso i sindacati che li rappresentano.

Dietro le quinte i creditori che premono per un piano che consenta loro di recuperare le risorse investite e le autorità europee che vigilano sui contenuti di un eventuale accordo che non deve configurarsi come aiuti di Stato.

Un rompicapo di difficile soluzione. Il piano industriale presentato è stato evidentemente ispirato dai creditori che, se dovessero decidere di staccare la spina, porterebbero al fallimento della società con gravi danno per loro ed a un costo, per le finanze pubbliche, non inferiore ai dieci miliardi di euro.

Questo determina la sgradevole coincidenza dei punti di forza e di debolezza di tutti i negoziatori intorno al tavolo. Ciascuno sa che può tirare la corda ma ne conosce anche il prezzo nel caso dovesse spezzarsi.

Per un negoziato è la situazione più difficile. Nessuno può permettersi di vincere ma tutti devono rispondere in modo trasparente del loro operato. L’azionista se non punta al fallimento della compagnia ma, al contrario, al rifinanziamento del debito e ad una riduzione di costi, alza il prezzo sperando di lasciare un margine di mediazione al Governo. I sindacati non possono, almeno in questa fase, non puntare ad una modifica del piano che ne sottolinei lo sforzo e il ruolo, i creditori, dal canto loro, possono fare forti pressioni ma non hanno alternative praticabili.

I fatti, ad oggi, vanno esattamente in questa direzione. Il CEO Cramer Ball ha assicurato la «piena disponibilità» a lavorare con i sindacati e il futuro Presidente Luigi Gubitosi ha confermato, a sua volta, l’impegno a fornire tutti i dettagli necessari. Le stesse dichiarazioni tranquillizzanti di Ball sulla crescita del lungo raggio e che due terzi dei tagli non sono di costo del lavoro vanno in questa direzione.

I sindacati hanno respinto la prima versione del piano dichiarando lo stato di agitazione ma hanno aderito ai tavoli tecnici con disponibilità ad entrare nel merito. il Governo, dal canto suo, si è mosso in modo corretto sgombrando il campo da ipotesi fantasiose di possibile pubblicizzazione della compagnia e assegnandosi un ruolo di facilitatore del negoziato.

Soprattutto evitando di dare giudizi sommari sul piano. Tutte queste mosse erano prevedibili e inevitabili. Il difficile viene adesso. Le carte messe sul tavolo dall’azienda sono indubbiamente insufficienti e sembrano finalizzate solo a prendere tempo. La soluzione non è nel piano presentato. In quelle determinazioni, al massimo, ci sono sono solo le precondizioni economiche, politiche e sociali.

Alitalia può essere ancora ripensata sia in chiave di alleanze continentali win win che di potenziali nuovi business legati al turismo di domani? Ma se così fosse,  i soggetti seduti a quel tavolo sono gli interlocutori autorevoli di cui ci sarebbe bisogno? Credo di no. Il punto sta qui perché solo in questo potrebbe risiedere una possibile scommessa per il suo futuro.

Purtroppo lo stesso piano strategico del turismo (2017-2022) non prevede nulla a riguardo. Quindi non c’è nulla di concreto da mettere sul tavolo del negoziato.

Per questi motivi temo che il destino di questa azienda rischia di essere già scritto: una lunga agonia in attesa di un compratore finale che sappia integrarla semplicemente con il proprio business.

Cosa che non è riuscita ad Ethiad e agli attuali soci. L’importanza della vertenza Alitalia è fuori discussione. Nessuno può permettersi che degeneri socialmente, che fallisca o che venga caricata sulle spalle di un Paese che non può permetterselo. Questo i negoziatori di entrambe le parti lo sanno benissimo. E lo sa anche il Governo.

In passato sarebbe bastato creare un nuovo carrozzone e finanziarlo all’infinito. Salvare cosi capra e cavoli. Oggi quella opzione non è praticabile. Per questo Alitalia è tra tre fuochi. E non si spegneranno da soli..

Il rischio di scambiare una battaglia di retroguardia per la guerra

La CGIL ha vinto la sua battaglia sui voucher e ha ritrovato una nuova unità interna propedeutica alla gestione unitaria congressuale e al suo riposizionamento sociale.

Come ho sempre sostenuto, chi ha parlato di leadership debole di Susanna Camusso, era fuori strada. Aveva ereditato una CGIL isolata politicamente e sindacalmente, scavalcata a sinistra dalla FIOM e a destra da altre importanti categorie e con un gruppo dirigente a fine corsa. È indubbio che la situazione, oggi, sia profondamente cambiata.

Adesso può legittimamente rilanciare la sua iniziativa provando ad uscire definitivamente dall’angolo dove la fine della stagione dei rapporti di forza favorevoli sul campo e degli accordi separati l’avevano in qualche modo confinata. Cisl e Uil confederali stanno accusando il colpo nel senso che non sembrano in grado di reagire propositivamente.

Tutto questo, però, porta con sé delle conseguenze. Essere corteggiati quasi esclusivamente dalla sinistra interna del PD e dagli scissionisti non può certo bastare alla CGIL anche perché oggi l’opposizione politica e sociale, quella vera, è ormai dislocata politicamente altrove e lo sarà a lungo e, nella quasi totalità delle aziende, tra i lavoratori occupati, c’è un indebolimento complessivo del messaggio sindacale generale.

Il rischio di essere ritornati al centro, si, ma del “nulla” è molto forte.

Confindustria è in difficoltà per diverse ragioni e questo ha lasciato il campo all’iniziativa delle federazioni nei singoli comparti economici. Federalimentare ha già segnalato la volontà di giocare le sue carte. Federmeccanica, dal canto suo, ha tirato fin dall’inizio la sua volata rendendo residuale il ruolo della casa madre sul cosiddetto “patto di fabbrica” trovando in FIM, FIOM e UILM solidi interlocutori. I differenti contratti nazionali hanno proposto strade diverse. Tutte andate a buon fine.

L’impressione è che il “rinnovamento” contrattuale si possa diffondere, pur in differenti modalità, in tutte le categorie più importanti seppure in modo differenziato.

Sul versante del terziario il contratto firmato da Confcommercio si presta, per come è stato concepito, a ulteriori adattamenti. La stessa neutralizzazione dell’ultima tranche in pagamento per oltre tre milioni di lavoratori, come misura concordata tra le parti, rappresenta una dimostrazione evidente di capacità di adattamento all’evolversi della realtà.

I contratti che mancano all’appello in questo comparto sono il frutto più di inesperienza negoziale delle controparti datoriali che da distanze ideologiche con i sindacati di categoria quindi, prima o poi, sono destinati a trovare una loro conclusione.

Per questo la vicenda mal gestita da tutti sui voucher, il cui epilogo è stato determinato più dal dibattito interno al PD che dal problema in sé, può innescare delle conseguenze che, se non gestite, rischiano di paralizzare l’iniziativa sindacale e quindi il sistema delle relazioni industriali nei prossimi mesi.

La CGIL faticherà a proporsi, da una parte, con un atteggiamento moderato nei differenti comparti economici nella contrattazione aziendale e di categoria e, dall’altra rivendicare una forte intransigenza sulla sua “carta dei diritti” incalzando le altre organizzazioni confederali proprio dove sono oggettivamente più deboli. Il rischio è che le contraddizioni esplodano riportando il sistema alla stagione della competizione e degli accordi separati anche in considerazione del possibile mutamento del quadro politico prossimo venturo.

Inoltre questo atteggiamento difficilmente potrà essere accettato dalle imprese. Alle aziende, il contesto e i vincoli che si creano a livello generale, pesano tanto (se non di più) di quanto siano soggettivamente disposte a concedere in termini di “rinnovamento” e di partecipazione. Qui sta il punto.

Cisl e Uil, sempre a livello confederale, non sembrano in grado di sottrarsi da questa morsa. Il “balbettio” sui voucher è lì a dimostrarlo.E posizionarsi come alternativa sociale al grillismo, da parte della CGIL, di questi tempi avrebbe l’unica conseguenza di tirar loro la volata.

Il Paese è indubbiamente stanco di narrazioni mirabolanti. Questo è vero. È però preoccupato per un futuro incerto, e si sente sempre più schiacciato economicamente verso il basso. Nelle imprese stesse si sta diffondendo la convinzione che il 2017 non migliorerà nulla nei fondamentali economici e che il Governo poco farà di positivo.

Ma a questa deriva non si risponde accompagnandola quasi fosse ineluttabile. A mio parere c’è solo una strada possibile. Se il sindacato, tutto il sindacato, non vuole essere risucchiato in un contesto che rischia di essere sempre più ingestibile deve rilanciare l’iniziativa sul “patto per il Paese”. Non c’è alcuno spazio fuori da questa opzione.

Per chi è nel mondo del lavoro, oggi, la priorità è restarci. Per i giovani è, al contrario, entrarci. Per gli altri è, quanto meno, di disporre di un reddito comunque costruito e della possibilità di rientrare in gioco prima possibile.

Le risposte a questi problemi, però, non si trovano ritornando ciascuno sui propri passi. Si trovano solo facendosi carico, con grande generosità, di un futuro da condividere e nel quale sapersi anche disegnare un nuovo ruolo. Ovviamente molto dipenderà anche dalle organizzazioni datoriali e dalla loro capacità di proposta. Ma molto dipenderà anche da chi, in tutto il sindacato confederale, è chiamato ad individuare una rotta alternativa. CGIL compresa.

Di Dumping Contrattuale si muore…

L’apparenza spesso inganna. Da quanto si legge sui quotidiani  Confindustria insiste per sottoscrivere con i sindacati confederali un testo sui servizi innovativi come primo passo nel percorso che mira a concludersi, entro il mese di maggio, sugli assetti contrattuali.

Molte aziende, ed è cosa nota, pur continuando ad essere associate a Confindustria, applicano da tempo  il contratto nazionale del terziario di Confcommercio ritenendolo più rispondente a proprie esigenze specifiche e questo senza alterare equilibri contrattuali consolidati interni all’impresa stessa.

Confindustria, sia per questioni di rappresentatività ma soprattutto per evidenti ragioni di marketing associativo, spinge per ottenere  per sé un risultato specifico  propedeutico all’accordo generale.

È lo stesso spirito che ha spinto parecchio tempo fa, Federdistribuzione a “pretendere”, per il proprio perimetro associativo, una soluzione analoga. Un contratto nazionale specifico che, a prima vista, poteva rappresentare la soluzione ideale.

Gli stessi sindacati di categoria allora hanno vissuto quella richiesta come utile e possibile. Addirittura l’hanno preceduta e accompagnata inviando una piattaforma unitaria identica (più o meno) a quella di Confcommercio. Il risultato è stato però, fin dall’inizio, disastroso.

Ad oggi, le aziende che hanno deciso di applicare il contratto Confcommercio subiscono da mesi una situazione di dumping dai concorrenti che si riconoscono nella posizione espressa da Federdistribuzione mentre i loro dipendenti continuano a non aver nessun contratto. Le autorità ministeriali preposte al controllo e alle ispezioni non si muovono (opportunisticamente) sperando che la situazione evolva positivamente mentre i sindacati di categoria non riescono a sbloccare nulla per le evidenti difficoltà di mobilitazione dei lavoratori.

Lo stallo è così assicurato. Nel frattempo le singole aziende si “godono” il dumping se schierate da una parte o, al contrario, ne subiscono le conseguenze, se hanno deciso di applicare il Contratto nazionale firmato da Confcommercio.

Che lo si voglia o meno, qui sta il punto. Le aziende, oggi, non si muovono più in una logica puramente associativa. Applicano o non applicano ciò che ritengono più conveniente per il loro business a prescindere dai sistemi regolatori  predisposti dalle organizzazioni di rappresentanza. Quindi una cosa è la declinazione aziendale del “patto di fabbrica” (peraltro in linea con i rispettivi contratti nazionali già firmati) con possibili deroghe dal CCNL di categoria specifiche e contrattate, un’altra è la inevitabile “gara” al ribasso tra contratti nazionali diversi, pur sempre applicabili, in base alla convenienza di una delle due parti.

È indubbio che i sindacati confederali si trovano di fronte ad una scelta difficile. Stabilire confini applicativi sulla scorta dell’attuale regolamentazione lasciando libere le singole categorie, optare per nuove aggregazioni (ad esempio: industria, terziario, agroalimentare da cui far discendere deroghe e specificità ai livelli sottostanti), oppure subire l’idea che ogni azienda  fa un po’ ciò che gli pare in base alle proprie convenienze e ai rapporti di forza che riesce a mettere in campo.

Per questo il confronto in atto tra le sigle confederali e Confindustria non è secondario e scevro da conseguenze a catena sugli assetti contrattuali futuri  non solo del settore industriale. Quindi ben al di là delle esigenze specifiche.

Probabilmente, se guardiamo solo a dieci anni, le aggregazioni associative di entrambe le parti costruite nel novecento non avranno più ragione di esistere nelle forme conosciute fino ad oggi. Evolveranno e si semplificheranno inevitabilmente. Sicuramente questo avverrà sul tema del lavoro per la caduta delle differenze settoriali, le inevitabili evoluzioni del contesto sociale, degli stessi contenuti normativi, delle modalità delle prestazioni, della formazione necessaria e del welfare collegato.

Ma ragionare sul futuro è cosa molto difficile quando i rispettivi apparati spingono per soluzioni apparentemente più semplici.

Enzo Bianchi ci ricorda sempre  che: “Sovente costatiamo che il mondo non cambia mai. Tuttavia continuiamo a credere e sperare che val la pena di tentare e ritentare di cambiarlo”. Ognuno nel suo ambito. Questo penso sia l’auspicio che ci dovrebbe sempre guidare.

ALI…Taglia?

La domanda che si pone oggi il sempre più interessante Mario Sechi sul Foglio sulla vicenda Alitalia è centrale: “Perché il mercato globale delle compagnie aeree ha registrato nel 2016 profitti netti aggregati pari a 35,6 miliardi di dollari e invece Alitalia sta(va) per fallire?”

Prima dell’arrivo di Luigi Gubitosi il piano era già scritto da settimane sui giornali: duemila esuberi e il taglio del 30 per cento dello stipendio dei piloti. Del piano industriale, intendendo con questo un piano di vera svolta, nessuna traccia.

Anche oggi di quel piano non se ne sente parlare. Ovviamente non un progetto generico scritto per non turbare la politica in altre faccende affaccendata o i sindacati preoccupati per l’insieme dei lavoratori ma un piano vero, oggettivo, utile ad uscire finalmente dalla drammatica situazione in cui l’azienda è costretta. Oppure in grado di annunciare verità ormai non più rinviabili per i costi che il nostro Paese deve e dovrà continuare a sopportare in mancanza di scelte definitive.

Nelle ristrutturazioni aziendali di grande portata la qualità e la competenza del management messo in campo sono fondamentali. Così come la conoscenza del contesto politico/sociale e del comparto economico relativo. Oltre ai freddi numeri che hanno solo lo scopo di delineare il nuovo perimetro aziendale occorre saper proporre una visione, ingaggiare chi deve sostenerla e convincere i sindacati che la strada che si vuole intraprendere è inevitabile ma anche positiva per quella parte dell’azienda che resta è che quindi è chiamata a scommettere sulla prospettiva.

Per poter realizzare tutto questo la missione affidata dal consiglio di amministrazione ai migliori cacciatori di teste è di individuare i manager più performanti sul mercato internazionale che possano dimostrare, nei progetti seguiti e attuati, le loro attitudini e capacità di muoversi in contesti complessi portando qualità e innovazione strategica. A questo dovrebbe seguire un assessment di tutto il management interno con lo scopo di valutarne la qualità e le caratteristiche in relazione al piano industriale da predisporre. Convinta, ingaggiata, resa protagonista e messa bordo la nuova prima linea è l’unica e la sola referente dell’insieme dei collaboratori.

Da qui in poi il confronto con il sindacato, soprattutto se l’azienda è in “zona Cesarini” cioè ad un passo dai libri in tribunale, deve essere costruttivo, serio e trasparente. La vicenda Alitalia non sembra avere nulla di queste caratteristiche forse perché, per alcuni autorevoli osservatori, non esiste già più alcuna possibilità di ristrutturazione e di rilancio anche perché  le scelte fatte fino ad ora, sembrano piu in linea con il passato, che in sintonia con un futuro auspicabile.

Personalmente non ci voglio credere. Un vecchio proverbio arabo recita: “Tra morto e morto e sepolto c’è un’enorme differenza.” Alitalia non è e non sarà più l’azienda con oltre ventimila dipendenti né la compagnia di bandiera.

È un’azienda che oggi non supera i dodicimila e che perde ogni giorno centinaia di milioni di euro Dispone di una flotta di 121 aerei e, nel 2016 ha trasportato 22,6 milioni di passeggeri Conta circa 8o destinazioni ed ha 6 basi di riferimento sul nostro territorio. Il fabbisogno economico, da qui alla fine dell’anno arriverebbe a circa 900 milioni.

Per banche e creditori vari l’unica soluzione è il taglio dei costi che, da solo, non porta probabilmente da nessuna parte anche perché siamo quasi ad aprile. I ministri dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, e dei Trasporti, Graziano Delrio, in un comunicato diffuso al termine dell’incontro con i vertici della compagnia aerea hanno dichiarato: “È un piano molto ampio che contiene numerosi elementi da approfondire e che richiede un’implementazione rapidissima».

Il neo presidente Gubitosi non è Marchionne e l’Alitalia non è la Fiat. E non vedo sindacalisti direttamente coinvolti in grado di assumersi responsabilità in prima persona come hanno fatto FIM e UILM nella vicenda FCA. Inoltre il Governo, oggi, non può permettersi né di avallare un’uscita dal contratto nazionale né un piano indigeribile per i sindacati.

Eppure la vicenda Alitalia è paradigmatica di quello che oggi è il nostro Paese. Ed è per questo che la soluzione marcherà in modo indelebile la qualità di chi si siede fa al tavolo. Politici, sindacalisti, azionisti e banche.

Abbiamo davanti a noi le vicende che hanno coinvolto compagnie in situazioni veramente critiche come Swiss Air, Iberia, Vueling i cui vertici hanno saputo puntare su piani aziendali innovativi seppur molto pesanti.

Di fronte a questa azienda e ai suoi problemi ci si può rassegnare alla sua fine ineluttabile accettando un piano che va bene a tutti ma che pregiudicherà, posticipandone solo la fine, il futuro per migliaia di lavoratori. Oppure fare ciò che serve.

Il punto, però, non è trovare un accordo a qualsiasi costo. È scontato che lo si troverà. Il punto è che questo accordo segni finalmente una svolta vera utile all’impresa, ai lavoratori che resteranno e al Paese.

Lavoro, si. Ma come?

Nell’interessante relazione di Matteo Renzi al Lingotto il tema del lavoro non ha avuto il rilievo e la visione che, a mio parere, dovrebbe avere per un Partito come il PD.

Catastrofisti di professione e innovatori acritici hanno sempre condizionato, ciascuno a modo loro, il dibattito su questo tema lasciando il campo libero a chi prometteva che, il semplice intervento sul versante delle regole, avrebbe rimesso in moto un circolo virtuoso in grado di creare lavoro e mettere di conseguenza in soffitta vecchie teorie e rigidità conseguenti.

Nel nostro Paese, più che altrove, occorre aggiungere che la fragilità propositiva e di iniziativa delle parti sociali, unitariamente intese, ha contribuito ad impedire l’apertura di un confronto costruttivo a tutto campo sul futuro dell’impresa e del lavoro, della scuola, sul reddito disponibile, sulla quali/quantità del lavoro e sulla sua distribuzione.

L’unica cosa su cui (purtroppo) si sono tutti trovati d’accordo, pur muovendo da posizioni ed esigenze differenti, è stata la negazione di ciò che alcuni sociologi, economisti e giuslavoristi (Marco Biagi in particolare) avevano cercato di porre all’attenzione del mondo politico soprattutto di sinistra: il cambio di paradigma in atto e la necessaria revisione di tutta una impostazione sempre più inefficace.

E così, politica, aziende e sindacati si sono continuati a muovere su binari paralleli interpretando autonomamente le reciproche esigenze incontrandosi solo per gestire le conseguenze di quelle che erano ritenute “solo” crisi di singole, seppur importanti, realtà aziendali e degli strumenti per affrontarle. Oppure limitandosi a rimuovere semplici aspetti regolatori scambiando il dito con la luna.

L’assurdo è che, mentre crescevano nella società paure e disagi profondi soprattutto tra le nuove generazioni e in chi, espulso dal lavoro, non riusciva a rientrarci, il dibattito è diventato lontano, quasi surreale. Tutto rinchiuso tra gli addetti ai lavori o confinato mediaticamente su di un pallottoliere attraverso il quale, ogni giorno, venivano contati e rappresentati i successi o gli insuccessi della politiche occupazionali nel disinteresse generale.

Il referendum del 4 dicembre ha suonato la sveglia per tutti. Soprattutto per chi ha creduto possibile un cambiamento profondo del Paese prescindendo dal consenso necessario. O limitandosi ad interpretarlo. Senza consenso si possono fare prelievi forzati sui conti correnti, aumentare le tasse o modificare d’autorità il sistema previdenziale ma non si può cambiare il Paese. Né gettare le basi per poterlo fare. Questa è la vera lezione del 4 dicembre. Almeno secondo me.

Per questo un partito come il PD non può limitarsi a ribadire l’impegno verso l’art. 1 della nostra Costituzione. O limitarsi a rilanciare la filosofia del Jobs Act contro (tra l’altro) ad una buona parte del proprio elettorato. Dovrebbe sapere andare oltre.

Ben ha fatto il candidato segretario a rimettere al centro la scuola e l’alternanza scuola lavoro ma sul lavoro la posizione resta debole. Astratta.

Non si parla di nuove forme di collaborazione tra capitale e lavoro, di condivisione dei rischi e delle opportunità nelle imprese e nelle filiere economiche e produttive, di partecipazione dei lavoratori, di merito, di nuovo welfare, di diritti e di doveri. E non solo per i lavoratori. Anche per le imprese.

In un anno nel nostro Paese vengono spediti (inutilmente) oltre 140 milioni di CV. Come rispondere a fenomeni ed esigenze nuove di queste dimensioni? Solo a Bordeaux sono almeno 700 i bikers consegnatari. La CGT sta cercando di organizzarli. Quanti dovranno essere qui da noi prima che qualcuno affronti il problema in modo organico? Così come le nuove forme di lavoro autonomo indotte o create dalla rete. È sufficiente esaltarne le potenzialità senza farsi carico delle conseguenze? Altri, in altri Paesi, stanno cercano di gestire queste situazioni.

E quale dovrà essere il rapporto con le istanze del sindacato o con l’insieme delle rappresentanze sociali, anche datoriali? Soprattutto di quelle rappresentanze che cercano di interpretare l’innovazione e il cambiamento. Passare dall’io al noi è importante solo se il “noi” crea un ponte con il resto della società e dei soggetti che già vi operano con una discreta sintonia con le persone e i territori e con cui si devono condividere problemi e soluzioni all’interno di un operazione di verità e di trasparenza.

Non basta accorgersi di essersi ritrovati improvvisamente lontani dalle periferie o dalla concretezza dei problemi delle persone come hanno fatto alcuni esponenti rimasti o usciti da poco dal Partito Democratico. La visione nasce da questa consapevolezza. Altrimenti restano solo parole.