Riforma dei modelli contrattuali e ruolo delle parti sociali

Recentemente Paolo Pirani, segretario generale della UILTEC, ha dichiarato che, a suo parere, non serve più concludere la trattativa con Confindustria sulla riforma dei modelli contrattuali perché la stessa sarebbe già, di fatto, avvenuta con i rinnovi dei singoli settori industriali.

Pirani da per scontato ciò che, però, non lo è affatto. E cioè che gli impegni reciproci contenuti in ogni contratto settoriale troveranno, nella fase di gestione, l’equilibrio e la spinta innovativa necessari.

Per quanto mi riguarda continuo a pensare che un nuovo modello contrattuale non può limitarsi a riproporre uno schema che ha mostrato tutti i suoi punti deboli sia nei contenuti che nelle liturgie collegate. Occorre ripensarlo guardando in avanti.

Alcuni argomenti sono, per loro natura, materie di competenza confederale. Il peso della rappresentatività delle parti e le regole dei rinnovi, i confini applicativi e la titolarità di ciascun contratto, i livelli negoziali, i rispettivi contenuti e le eventuali derogabilità. Lo stesso welfare occorre consolidarlo su masse critiche ben più consistenti di quelle di oggi. L’accordo tra Cgil, Cisl, Uil e Confcommercio va sostanzialmente in questa direzione.

Visto da fuori, il negoziato aperto a suo tempo con Confindustria presenta una serie di contraddizioni. Da un lato il cosiddetto “Patto di fabbrica” con al centro la proposta forte della “corresponsabilità” annunciata fin dalla assemblea generale di Federmeccanica ma mai declinata concretamente. Soprattutto nelle contropartite per il sindacato.

Da allora ad oggi sono stati rinnovati tutti i contratti del comparto industriale rispettandone giustamente l’autonomia ma confermandone l’inevitabile differenza nei contenuti e nelle strategie. Nelle richieste di Confindustria ai sindacati sono chiari i vantaggi per se stessa mentre sono praticamente inesistenti le contropartite soprattutto alla luce del fatto che le altre organizzazioni datoriali, innanzitutto Confcommercio, hanno firmato un accordo con il sindacato confederale che copre l’intero comparto del terziario di notevole spessore e prospettiva.

Questi accordi evidenziano inevitabilmente una debolezza propositiva e negoziale. Con i contratti già firmati e con gli accordi delle altre organizzazioni con i sindacati solo un accordo “alto”, innovativo e ricco di vantaggi reciproci può far uscire dall’angolo il negoziato. Ed è proprio quello che non sembra essere nelle volontà dell’attuale vertice confindustriale.

Innanzitutto i tempi. Questo negoziato si trascina stancamente da mesi senza approdare a nulla di concreto che non sia già stato affrontato nei tavoli delle singole categorie, gli annunci forti del Presidente Boccia (Patto di fabbrica e corresponsabilità) restano affermazioni, al momento, privi di conseguenze concrete, la stessa richiesta di costruire nuovi contratti dei servizi innovativi pare più un’operazione di marketing associativo che di vera necessità per le imprese. Un contratto che comprende anche i servizi innovativi c’è già ed è quello del terziario firmato da Confcommercio utilizzato da molte imprese anche di altri settori proprio per la sua flessibilità applicativa che, se traslata nei contratti del comparto industriale ne minerebbe i contenuti e lo stesso perimetro applicativo.

Le differenze tra le due impostazioni sono notevoli. Innanzitutto i contratti del comparto industriale sono figli di una cultura che attraverso i rapporti di forza messi in campo ha determinato, di volta in volta, gli equilibri sui singoli contenuti, irrigidendone una possibile gestione dinamica tipica, al contrario, delle situazioni in rapido mutamento. Nel contratto del terziario tutto ciò non esiste.

Le vere rigidità, per assurdo, sono state costruite nelle singole imprese attraverso i negoziati aziendali soprattutto nella Grande Distribuzione proprio perché assimilabile culturalmente e organizzativamente al modello fordista industriale del secolo scorso. Infatti nel terziario di mercato la contrattazione aziendale non esiste se non in misura assolutamente marginale. E nessuna azienda, credo,  sembra disponibile a reintrodurla spontaneamente. E non certo per una questione dimensionale.

La contraddizione non risolta nei contratti industriali tra la complementarietà o l’alternatività tra i due livelli contrattuali nel terziario è stata risolta da anni. Non è un caso che, anche nella Grande Distribuzione, sono sempre più i contratti aziendali ,che hanno prodotto le maggiori rigidità organizzative, che vengono disdettati.

Così come la derogabilità degli istituti, anche economici non presente nei comparti industriali. Se prendiamo, ad esempio, lo spostamento a data da destinarsi, del pagamento di una tranche del’ultimo contratto nazionale del terziario, concordato tra le parti per evitare operazioni di dumping tra le imprese, ci rendiamo conto della profonda differenza di contesto.

Se questo è vero come si può pretendere in un negoziato complesso che i sindacati nel comparto industriale accettino un’impostazione che di fatto tenderebbe a renderli marginali proprio laddove vorrebbero sviluppare in futuro il loro nuovo ruolo negoziale, lasciando maggiore libertà alle imprese?

Da qui nasce lo stallo principale che potrebbe essere superato solo da un salto di qualità nei contenuti (ad esempio in termini di reale e concreta corresponsabilità attraverso forme di partecipazione) che oggi non sembra essere nella disponibilità o nella volontà dei negoziatori.

Oppure dal riconoscere, e qui condivido la tesi di Pirani, che solo nella futura contrattazione aziendale e nei contratti appena firmati si potrà trovare la soluzione ai problemi posti. Quindi nella vigenza concordata.

Il mondo è cambiato. Non basta rivendicare, come ha fatto giustamente il Presidente di Confindustria di essere ancora la seconda manifattura d’Europa; occorre, qui si, cambiare verso. Avere un progetto per il Paese, e, di conseguenza scommettere su nuove relazioni industriali, non accontentarsi di una logica tutta difensiva. Nelle imprese e tra i lavoratori e, di conseguenza anche in alcune organizzazioni sindacali e datoriali stanno emergendo esigenze strategie e interpretazioni nuove.

È indubbio che al past President Squinzi e quindi a Confindustria, va riconosciuto un merito oggi non abbastanza sottolineato: aver posto termine alla pratica degli accordi separati. Ma il merito di cambiare e innovare i modelli contrattuali e quindi di essere un punto di riferimento e di sintesi non si eredita. Lo si conquista con proposte e con risposte concrete. Soprattutto in tempi di grandi cambiamenti.

Il dolce veleno del reddito di cittadinanza

La firma dei più importanti contratti nazionali del settore privato e l’intenzione (annunciata) del Governo di intervenire già nel 2017 sul cuneo fiscale contribuiscono a rimettere su di un binario corretto il tema della tutela del reddito per chi un lavoro regolare ce l’ha.

Il dibattito che si è acceso improvvisamente sulla necessità di proporre una futura tassazione dei robot rischia di mettere in secondo piano ciò che è necessario fare oggi: una decisa lotta contro l’evasione e una conseguente riduzione del peso fiscale che grava sulle imprese e sul lavoro.

In questo contesto la proposta del Movimento 5 stelle di “reddito di cittadinanza” ha una carica dirompente. Sia politica che sociale. Fatte le debite proporzioni, direi che è molto simile, politicamente, a quella del “milione di posti di lavoro” lanciata a suo tempo da Silvio Berlusconi. La differenza è che, la proposta del leader di Forza Italia, pur criticata duramente dagli avversari, era assolutamente compatibile con il contesto culturale, sociale, economico e politico di quegli anni. Il reddito di cittadinanza non lo è per nulla. Anzi. Contribuirebbe a segnarne il definitivo declino. E non solo per il devastante impatto economico.

Dario Di Vico ha recentemente lanciato sul Corriere un allarme che non va sottovalutato: “Chiediamo solo che chiunque, a qualsiasi schieramento appartenga, abbia intenzione di formulare ipotesi di sostegno generalizzato ai redditi indichi anche il costo dell’operazione e chiarisca se è compatibile con i fragili equilibri della nostra finanza pubblica.”

A mio parere il tema del costo, pur determinante, non impedirà che anche su questo si giochino le prossime campagne elettorali. E non solo in Italia. La consistenza del reddito familiare, la paura del diverso e di una società inevitabilmente multirazziale, il declino del ceto medio unito alle inevitabili conseguenze indotte dall’innovazione tecnologica spinge una parte consistente dell’opinione pubblica a preferire risposte semplici a cui una parte della politica (per il momento ancora di vecchio conio) si è predisposta a somministrare.

E in questa opinione pubblica in fermento e alla ricerca di risposte non ci sono solo i perdenti della globalizzazione. Vi stanno prendendo posto economisti, studiosi, imprenditori, professionisti, pezzi rilevanti di classe dirigente che, in alcuni Paesi, hanno colto in queste proposte un potenziale distruttivo e alternativo alla politica (sociale) tradizionale.

Il reddito di cittadinanza potrebbe consentire al Sistema nel suo complesso un minore impegno contro la disoccupazione, produrre una maggiore indifferenza sociale nei confronti dei tagli dei posti di lavoro, spingere gli individui a subire con maggiore fatalismo le conseguenze dell’innovazione tecnologica e dei cambiamenti organizzativi delle imprese.

L’eventuale istituzione di un reddito di cittadinanza contribuirà inevitabilmente a dividere ulteriormente la società. Da una parte chi potrà mantenere le sue opportunità di studio e di lavoro dall’altra, tutti gli altri.

Infine un interessante riflessione proposta da Anke Hassel (Academic Director of the Hans Böckler Foundation’s Institute of Economic and Social Research) sul tema del reddito di cittadinanza in una visione di medio lungo periodo e, soprattutto, fuori dal mio (modesto) punto di osservazione: “Una garanzia incondizionata di reddito è in netto in contrasto con le esigenze di una società in rapida crescita anche con l’immigrazione. Un gran numero di lavoratori migranti e immigrati hanno bisogno di più meccanismi per integrarsi socialmente, non meno. È l’esperienza di tutti i giorni che conta: le persone si incontrano sul posto di lavoro, si arriva a conoscersi e ad apprezzarsi l’uno con l’altro e si impara la lingua. Considerando questo, sarebbe fatale dare alla gente un motivo per smettere di lavorare, di smettere di migliorare le loro qualifiche, e di rimanere semplicemente a casa.”

Il lavoro, come si crea, come si mantiene e come si cerca deve restare l’obiettivo prioritario di un Paese democratico al di là del pur importante problema del reddito. La sfida dell’innovazione si vince investendo, aiutando le imprese e il lavoro ad essere protagonisti insieme attraverso forme nuove di collaborazione, la formazione dei collaboratori, la loro crescita professionale, costruendo un sistema di politiche attive efficace e un welfare dignitoso. I sussidi, soprattutto in un Paese come il nostro, devono essere finalizzati al reimpiego delle persone e non alla loro ghettizzazione.

Il Potere del vuoto…

Non trovo una espressione migliore di quella utilizzata a suo tempo da Pierre Carniti per fotografare la situazione attuale: “Il vuoto di potere non esiste. Esiste il potere del vuoto”.

In una corsa scomposta verso il baratro, sempre meno metaforico, mentre tutta la politica litiga sul niente (vedi vitalizi dei parlamentari), la vicenda dei voucher esce dai confini della logica e assume contorni sempre più grotteschi.

Il segretario dei metalmeccanici della FIOM (categoria dove l’utilizzo dei voucher è inesistente) viene ricevuto sull’argomento dal Presidente del Consiglio Gentiloni e il Ministro del lavoro Poletti, improvvisamente assurto nel ruolo di rappresentante ombra degli scissionisti del PD, scavalca a sinistra ben sei proposte sull’argomento giacenti in Parlamento proponendo di limitare i voucher alle famiglie riportando così l’orologio del tempo a prima della Biagi.

Francesco Riccardi ottimo giornalista e osservatore attento dei temi sul lavoro, lucidamente, ha definito il nostro, “il Paese del tutto o niente”. Come dargli torto?

Nei giorni scorsi sono stati pubblicati i dati delle ispezioni del Ministero del Lavoro, dell’Inps e dell’Inail. Parlano da soli. Evidenziano il problema vero del nostro Paese. Quando il tasso di irregolarità arriva al 63% su quasi duecentomila aziende ispezionate occorrerebbe fermarsi e ragionare.

Sono aziende che fanno concorrenza a quelle che rispettano le regole, aggirano norme e contratti a danno dei loro collaboratori e non pagano, in tutto o in parte, tasse e contributi. In Parlamento non giace alcuna proposta di intervento su questo tema, il Ministro del Lavoro incassa, senza alcun merito particolare, l’impegno degli ispettori che sul territorio compiono un lavoro difficile, a volte pericoloso, poco riconosciuto ma, soprattutto, che non riesce a fare un salto di qualità per la incredibile sottovalutazione del tema da parte della politica.

Sui voucher, no. Meglio buttare via il bambino con l’acqua sporca. Ad un recente convegno in Veneto organizzato dalla CGIL, Federalberghi ha cercato di spiegare che la stabilità dell’occupazione della regione nel comparto è lì a dimostrare che i voucher non hanno scalfito nulla. Anzi hanno contributo a far emergere pagamenti in nero e altre forme di lavoro sommerso.

La stessa Confindustria, essendo poco coinvolta, ha comunque “sommessamente” sottolineato l’utilità dello strumento, il suo contributo nell’emersione di parte del lavoro nero e l’obiettivo, condiviso, di eliminare le distorsioni emerse.

Confcommercio, con ben maggiore convinzione sottolinea che: “Oltre al riconoscimento economico, l’utilizzo dei voucher assicura anche il pagamento di contributi previdenziali e la copertura assicurativa Inail costituendo, di fatto, l’unico strumento per pagare in modo regolare prestazioni saltuarie e occasionali. Inoltre, di fronte ad un’eventuale limitazione significativa del campo di applicazione di questo strumento non ci sarebbe alcuna alternativa, né si potrebbero coprire queste attività saltuarie con rapporti di lavoro tradizionali. Secondo i dati Inps la stragrande maggioranza delle persone pagate con voucher sono lavoratori titolari anche di altra occupazione, percettori di ammortizzatori sociali, studenti o pensionati e che il compenso medio annuo è di circa 600 euro. E’ quindi evidente che le attività pagate con voucher non sarebbero sostituite da diversi rapporti di lavoro e quindi intervenire nuovamente sullo strumento comporterebbe solo la perdita di occasioni di lavoro retribuite in modo regolare”.

Tutto inutile? Sembrerebbe di sì. La “scoppolata” del referendum del 4 dicembre non ha “stordito” solo il partito di maggioranza che sostiene il Governo. Ha colpito un po’ tutta la politica.

Solo Maurizio Sacconi sembra mantenere i piedi per terra dichiarando: “Il Comitato ristretto sui voucher in seno alla commissione Lavoro della Camera ha concluso i suoi lavori con una aberrante soluzione incredibilmente condivisa non solo dalla sinistra ma anche da Forza Italia. Limitare l’uso dei voucher alle famiglie e alle imprese con un solo dipendente significa non conoscere il mercato del lavoro e le concrete situazioni occupazionali che meritano uno strumento semplice per emergere”.

Oggi il Segretario Generale della Uil dichiara a buon diritto: “Dobbiamo modificare la Fornero. La riforma delle pensioni più iniqua”. I grillini sentendosi appoggiati da un’opinione pubblica sempre più perplessa, si apprestano, come sostenuto dal buon Di Maio, all’Armageddon sui vitalizi, e alla battaglia sul reddito di cittadinanza. L’attento Francesco Seghezzi osserva: “È il classico esempio in cui per disinnescare un rischio politico non si guarda in faccia alla realtà”.

Certo, la realtà, il futuro, come ricostruire una prospettiva concreta sul tema del lavoro. l’impressione è che non sembrino interessare nessuno. Intanto i problemi incalzano.

Il Presidente della Commissione Europea Juncker ha presentato ieri il libro bianco sull’Europa e su come cambierà nel prossimo decennio (dall’impatto delle nuove tecnologie sulla società e l’occupazione ai dubbi sulla globalizzazione, le preoccupazioni per la sicurezza e l’ascesa del populismo).

Il Libro bianco delinea cinque scenari, ognuno dei quali fornisce uno spaccato di quello che potrebbe essere lo stato dell’Unione da qui al 2025. Forse dovremmo confrontarci su quegli scenari piuttosto che inseguire il novecento.

Il lavoro che verrà, è già qui…


La reazione del Ministro dei Trasporti sulla povertà dei contenuti lavorativi dei consegnatari di Foodora è piaciuta al segretario della CGIL Susanna Camusso. In effetti è un lavoretto.

La cosiddetta new economy genera anche modeste attività di consegna. Lavoro povero. Così come la nuova logistica genera, a sua volta, lavoro poverissimo. Vale anche per Uber che trasforma normali pensionati o disoccupati in neo tassisti part time o Airbnb che trasforma la vicina della porta accanto in una affittacamere. Non è tutto oro quello che luccica.

Alcune grandi multinazionali “approfittano” delle esigenze di reddito di un ceto medio impoverito per crescere in assenza di regole. Ma questo è un altro tema. I lavoretti sono sempre esistiti. Prima c’era il cassaintegrato in nero che sostituiva l’artigiano o l’universitario trentino che raccoglieva le mele nella Val di Non, oggi sostituito da immigrati rumeni.

Cosa sta cambiando allora nel lavoro? Per tanti lavoratori tradizionali, apparentemente nulla. Ci sono ancora operai, impiegati pubblici e privati, lavoratori dei servizi o della Grande Distribuzione per i quali non è cambiato il contenuto del loro lavoro. Per ora.

È cambiato però completamente il contesto nel quale, anche questi lavori vengono eseguiti. Molte delle loro imprese, se hanno un mercato globale devono cambiare, innovare, riorganizzarsi, comprimere anche i loro costi, impegnarsi in investimenti ad alto rischio per poter competere e rispondere alle richieste di flessibilità imposte dalle filiere globali nelle quali sono inserite.

Le aziende dove lavorano nascono e muoiono con una rapidità sconosciuta fino a poco tempo fa. E quindi, pur impegnati in una attività tradizionale, devono essere preparati a cambiare molto più spesso dei loro genitori.

Se le loro aziende interagiscono nel mercato interno devono competere con nuovi soggetti economici che operano in altri Paesi con regole diverse, controllano funzioni o mercati a monte o a valle, cambiano offerta e domanda di beni e servizi. Condizionano i consumatori.

Anche le imprese manifatturiere tradizionali sanno che, al prodotto, pur innovativo e al processo tecnologico che serve a metterlo sul mercato, devono predisporsi ad un salto culturale e aggiungere una serie di attività che assicurino nuovi servizi per il cliente o per il mercato di riferimento.

La parte di manifattura tradizionale e il lavoro che in essa si svolge, pur evolvendo necessariamente verso modelli non fordisti, perdono di centralità per l’impresa nel suo complesso che deve saper fare anche altro per competere.

La nuova cultura del lavoro nasce da qui. In un mondo che cambia, una parte delle mansioni e dei mestieri, pur necessari e numerosi, normati dalla contrattazione e dalle leggi nella seconda parte del 900, perdono valore economico e riconoscibilità sociale mentre ne nascono altri. Alcuni, pur non normati, sempre poveri come contenuto, altri di maggiore contenuto professionale per le capacità e per le competenze richieste.

Stabilire regole comuni di entrata nel mondo del lavoro, pensare che queste opportunità siano a disposizione di tutti allo stesso modo, definire norme indifferenziate, luoghi di lavoro tradizionali, orari e strumenti di lavoro identici per tutti è una operazione inutile. O meglio è una riproposizione di uno schema che non può funzionare.

A fronte di un “accanimento terapeutico” di norme e leggi prodotte da giuslavoristi, prima e da economisti, poi, la stragrande maggioranza delle imprese ha scelto di “gestire dinamicamente” leggi e contratti cercando di ridurne l’effetto frenante sul business e sull’organizzazione. Sfruttandone le potenzialità o lasciandole in un cassetto. Contando anche sulla sostanziale ritirata del sindacato dalle problematiche gestionali dell’impresa e dalla convergenza che si crea con l’insieme dei lavoratori in caso di crisi o di necessità particolari.

La positività di alcuni contratti sta proprio nella libertà che lasciano alla singola azienda di adattare norme e regole alle esigenze. Non è un caso che il Contratto Nazionale del Terziario lascia, meglio di altri, questa flessibilità ed è per questo è utilizzato da migliaia di aziende di differenti settori merceologici. Così come non è un caso che è proprio l’ultimo residuo di cultura fordista commerciale, la Grande Distribuzione, che spinga per un contratto nazionale dedicato tutto concentrato sul costo.

E qui sta un altro paradosso su cui riflettere. La modernità del modello organizzativo della GDO era tale nel 900. Oggi non lo è più. Deve competere con modelli tipo Amazon che la insidiano sempre di più in termini di organizzazione delle vendite, delle promozioni, degli orari di vendita, del rapporto con i consumatori.

E questo spinge tutta la GDO a continue riorganizzazioni con forti  pressioni e aggressività sui costi, innanzitutto su quello dei fornitori e del lavoro, che si riflette inevitabilmente sulle relazioni sindacali e con i fornitori.

Così mentre molti piccoli esercizi si stanno in parte attrezzando e oggi, attraverso una evoluzione digitale alla loro portata accrescono il loro potenziale di mercato, la GDO si avvita su se stessa senza riuscire ad innovarsi nei format di vendita. Anzi, il modello di riferimento, gli ipermercati, rischia di trovarsi in una crisi irreversibile.

Per tutto queste considerazioni il lavoro che verrà è già qui. Intreccia il suo lato povero o tradizionale su cui occorre trovare risposte diverse dal 900 che assicurino diritti di cittadinanza esigibili, un salario minimo, dignità nuove e un welfare contrattuale adeguato. Ma presenta anche nuove opportunità, soprattutto per i più giovani e per coloro i quali vogliono crescere professionalmente. E per le aziende che vogliono investire su se stesse e sui propri collaboratori.

Per queste imprese le regole devono essere lasche, intelligenti, costruite per motivare, coinvolgere e raggiungere gli obiettivi di business. Non legate a modelli superati.

Lavorare a questa nuova impostazione che comprenda gli uni e gli altri con le rispettive differenze dovrebbe essere il compito delle parti sociali e degli esperti della materia. Al centro attraverso leggi e contratti nazionali evoluti, in azienda coinvolgendo i diretti interessati.

Taxi e Alitalia. Siamo sicuri che c’è tempo da perdere?

Taxi e Alitalia, in fondo, rappresentano bene il modo di operare di un Paese che preferisce non prendere atto della realtà e sposta sempre in avanti il momento delle scelte e delle decisioni.

Cosa è successo? In fondo nulla. Appunto. Un grande caos di sei giorni culminato con una manifestazione a tratti violenta, un incontro con il Ministro dei trasporti che ha partorito un mese di riflessione nel quale si troverà un accordo per rinviare più in là la resa dei conti con un futuro che incombe e che indica, sempre meno sommessamente, una strada opposta.

Hanno vinto tutti. Quindi chi ha perso non era in quelle stanze…

Nessuno che spieghi ai tassisti la differenza tra vincere una battaglia per abbandono dell’avversario e il rischio di perdere la guerra se la categoria non cercherà di evolvere, di cambiare atteggiamento, di lavorare per il proprio futuro e non di rivendicare esclusivamente un diritto inesigibile: quello di impedire qualsiasi cambiamento.

Sembra che, in questo Paese, nessuno se la senta di affrontare i problemi. Mi ha stupito il Ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda che, dopo l’annuncio del ritiro della disdetta del contratto aziendale Alitalia si è dichiarato soddisfatto. Da lui non me lo sarei aspettato. Lo credevo di un’altra categoria.

Ma veramente qualcuno può pensare che un rinvio del problema ad un prossimo confronto su un nuovo contratto aziendale tra un’azienda “alla frutta” e una categoria sindacale che non sa cosa fare, vista la dimensione del problema, possa portare ad un risultato utile? Separare il tema degli esuberi, quindi del piano industriale, da quello del contratto aziendale è un errore. Anche in vista di possibili nuovi partner.

È comprensibile che lo commettano i sindacati che devono gestire le conseguenze sui loro iscritti, non lo è affatto per il Governo che si troverà, inevitabilmente,  a dover pagare il conto. Anche dei ritardi. Così come è stato nel negoziato che ha portato alla definizione delle nuove regole interne all’avvio del progetto precedente. E qui si ritorna al tema. La paura delle reazioni, quindi, ancora una volta, si concorda che è meglio “allungare il brodo”.

Queste due vicende sono paradigmatiche di un Paese che non riesce a prendere atto che i problemi non si risolveranno da soli e che lo sforzo da mettere in campo per affrontarli non può essere lasciato solo sulle spalle del Governo o di un’azienda.

Il “ce lo chiede l’Europa” non funziona più. Occorre prendere atto che che occorre uno sforzo e una assunzione di responsabilità comune. E qualcuno che parli chiaro al Paese. Altrimenti, di rinvio in rinvio, finiremo male, molto male. Tutti insieme.

Jobs Act. Se resta l’equivoco di fondo…

I pur robusti interventi economici a sostegno del contratto a tempo indeterminato non hanno sortito l’effetto sperato e, finiti gli incentivi, sta piano piano, svanendo. Era prevedibile? Per alcuni era assolutamente scontato per la modalità stessa con cui sono stati concepiti gli incentivi.

Per altri, al netto delle preoccupazioni delle imprese sul loro futuro, no. Per loro poteva rappresentare la svolta sperata. L’estenuante politica degli annunci sui progressi mensili delle nuove norme e le contestazioni di rimando hanno fatto il resto. L’obiettivo del Jobs Act in fondo era chiaro. Spingere le aziende a convincersi che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato doveva ritornare ad essere prevalente rispetto alle altre formule, anche sui nuovi assunti. L’abrogazione dell’art. 18, da molti ritenuto un elemento centrale di impedimento alle assunzioni a tempo indeterminato, andava in quella direzione.

Purtroppo il perdurare di un aspro scontro sui “massimi sistemi” impedisce ancora oggi di avviare una riflessione scevra da strumentalizzazioni e quindi è difficile affrontare con sufficiente serenità l’approccio, e quindi le motivazioni, che stanno dietro ai comportamenti concreti delle imprese. Prima o dopo il provvedimento in questione e, in alcuni casi, lontani dalle intuizioni dei giuslavoristi.

A mio parere è invece importante farlo. Il Jobs Act è stato visto ovviamente con favore soprattutto per gli sgravi contributivi e per le evidenti  vie di uscita che comunque offriva. Era in sostanza un lavoro a tempo indeterminato con un costo di uscita definito. Quindi, tutto sommato, sopportabile.

Il punto è che, per le imprese, i lavoratori, non sono tutti uguali. Con molti di loro è sicuramente necessario costruire una sorta di patto che giustifichi l’investimento e i reciproci ritorni in termini di risultato aziendale ma anche di sviluppo professionale, formazione continua, politiche retributive. Il contratto prevalente, in questo caso, è ancora quello a tempo indeterminato. Prima o dopo il Jobs Act.

Questo non significa che il rapporto durerà per sempre. Significa solo che durerà fino a quando lo scambio comporta reciproci vantaggi. Entrambi i contraenti hanno convenienza a mantenerlo, svilupparlo e consolidarlo.

Parliamo di figure manageriali, specialisti, professional, giovani inseriti in percorsi di crescita, risorse comunque importanti per l’azienda stessa e non necessariamente individuati nei gradini più alti dell’inquadramento professionale. La differenza in questo caso la fanno i superminimi, i benefit, i premi legati alla realizzazione degli obiettivi aziendali. Ma anche le opportunità di sviluppo professionale, la formazione aziendale o interaziendale messa loro a disposizione.

Tutte queste figure non sono affatto marginali nelle aziende e sono sicuramente in crescita numerica, anche e soprattutto, per gli importanti cambiamenti organizzativi che attraversano le imprese di ogni settore. Nessuno si considera ormai in azienda per sempre ma l’investimento sulle risorse umane è una sfida decisiva colta dalla stragrande maggioranza delle imprese a garanzia del loro futuro.

Fuori da questo perimetro che coinvolge più o meno un terzo delle risorse di un’azienda (tra già assunti e nuovi e pur con tutte le eccezioni del caso) ci sono gli altri. Quelli comunque garantiti dalla legislazione vigente e quelli resi flessibili sempre dala stessa legislazione per bilanciare, in tutto o in parte, il costo o le rigidità organizzative dei primi. Da un lato restano i vincoli degli attuali sistemi contrattuali, gli inquadramenti, le anzianità, gli usi e le consuetudini aziendali. E una relativamente scarsa volontà delle imprese e, forse, delle persone stesse, di investire sulla loro occupabilità e sul loro futuro anche pensando al di fuori dall’azienda nella quale sono occupati.

Dall’altro ci sono quelli che, da quei vincoli non sono tutelati e quindi si devono impegnare ogni giorno per mantenere il loro lavoro e sui quali le aziende investono in termini di crescita individuale solo quando le persone mostrano un vero interesse e una forte disponibilità a condividerne valori, obiettivi e cultura. Altrimenti vengono nei tempi e nei modi consentiti dalla legge, ritenuti sostituibili. Quindi figure professionali fungibili per le quali il tempo determinato comunque inteso è una formula più funzionale.

I sindacati, e questo è comprensibile, si sono sempre mossi, al contrario, per riportarli tutti nell’alveo contrattuale tradizionale. Missione, ovviamente impossibile.

Questo dualismo si supera solo se i sistemi contrattuali verranno ricostruiti meno sui vincoli e più sulle opportunità; sulla corrispondenza tra mansione e retribuzione, sulla revisione dei modelli di inquadramento, sul riconoscimento del merito, sulla flessibilità dei modelli organizzativi e prestazionali, sulla occupabilità e quindi sulla formazione continua delle risorse, sulla collaborazione tra capitale e lavoro e sulla condivisione degli obiettivi dell’impresa per tutti. Così come su di una strumentazione di politiche attive veramente efficace.

Una ricostruzione che deve rimettere al centro lo scambio, i vantaggi reciproci e gli strumenti più efficaci per realizzarli. Forzare per obbligare le aziende ad assumere o a investire genericamente su un modello contrattuale superato e, per certi versi, estremamente costoso, non serve a nulla.

Certo un intervento sul cuneo fiscale sarebbe auspicabile ma è illusorio pensare che questo, da solo, spinga le aziende ad una cultura del lavoro che funzionava nel 900 solo perché supportata da rapporti di forza sfavorevoli. Oggi non è più così e non lo sarà più. Io comunque resto ottimista. Una nuova cultura del lavoro non può non affermarsi nel sindacato e nelle imprese.

Ci sono, è vero, segnali di rischiosi tentativi di ritorno al passato ma anche segnali incoraggianti e importanti, ad esempio, nel recente contratto dei metalmeccanici, nel contratto del terziario così come, in altri contratti nazionali appena firmati.

L’aver ribadito in tutti i comparti l’importanza stessa del contratto nazionale come cornice di riferimento con i relativi rinvii, a livello aziendale, segnala una disponibilità che attraversa anche lo stesso mondo delle imprese. Altrimenti questa stagione non si sarebbe conclusa così.

Questa disponibilità va coltivata nella fase di gestione dei contratti appena firmati proprio per affrontare il cambiamento e rilanciare un nuovo ruolo delle parti sociali che sappia rimettere al centro il lavoro. Ovviamente il lavoro come dovrà essere domani e non come lo è stato nel secolo che abbiamo alle spalle.

Il canto del cigno del 900…

Difficile prevedere come finiranno le due vertenze aperte in questi giorni. E, comunque si concluderanno, rappresentano l’inevitabile tramonto di una cultura che appartiene al secolo che abbiamo alle spalle. Un tramonto, però, troppo lungo che non possiamo più permettercelo.

Alitalia e tassisti rappresentano, che lo si voglia riconoscere o meno, due facce della stessa medaglia. Lo stesso potere di interdizione e, sostanzialmente, lo stesso target di cittadini/consumatori coinvolti. I primi invocano la nazionalizzazione, i secondi la difesa ad oltranza contro un futuro che non li prevede. Almeno così come molti loro intenderebbero affrontarlo.

Individualmente hanno buone ragioni. Le stesse del negoziante che chiude per l’arrivo nel quartiere di un supermercato che apre h24, del lavoratore che perde il lavoro perché la sua azienda delocalizza, del piccolo artigiano mobiliere brianzolo con l’arrivo di IKEA.

Loro sono diversi solo perché hanno ancora un enorme potere di interdizione. Ma il destino è comunque segnato. Entrambi, almeno così appare, non cercano, almeno per il momento, nessuna mediazione.

Ad oggi, sei giorni di blocco del servizio da parte dei tassisti. Sull’altro versante una reazione durissima su tutte le proposte aziendali. Il tono, in entrambe le vertenze, nasconde ovviamente preoccupazione e paura. Come nel 900 ci si affida e si spera che un terzo soggetto (il Governo) ci metta del suo per riportare indietro le lancette del tempo.

Nel caso dell’Alitalia ci sono evidentemente responsabilità da distribuire. Quindi non riguardano solo i lavoratori e i loro rappresentanti. Questa però è solo una magra consolazione. Personalmente mi ricorda la vertenza Unidal (Motta e Alemagna) sul finire degli anni 70 dove, dopo la presentazione di un piano che prevedeva quasi tremila licenziamenti respinto al mittente con lotte durissime, si concluse con oltre quattromila licenziamenti e la fine di entrambe le aziende.

Alitalia oggi è ad un passo dal fallimento. Non ha più nulla della compagnia di bandiera del secolo scorso né potrà ritornare ad esserlo. Può però essere oggetto di un profondo ridisegno del perimetro di attività e di una ridefinizione del numero degli addetti, del loro utilizzo e del costo complessivo del lavoro. Il confronto non può essere spostato su altro. Né sulle recriminazioni.

E va fatto in tempi sufficientemente rapidi affinché la ragionevole certezza di un suo possibile rilancio convincano azionisti e Governo a sostenerla con tutto ciò che è in loro potere decidere. Non esiste un piano B. Così come per i tassisti. Occorrerebbe mettere a loro disposizione e alle loro rappresentanze qualcuno che li aiuti ad evolvere con progetti, idee e modalità di lavoro nuove. Spingerli a prendere atto che non è nel muro contro muro che risiede il loro futuro.

Personalmente spero che il Governo non si limiti a rimuovere il vulnus che ha causato la protesta ma che, al contrario, apra un percorso di confronto aiutando almeno i tassisti più sensibili a riflettere su opzioni possibili, su come attivarle nel tempo e su come favorirle, su come, infine, attenuare le conseguenze del cambiamento necessario.

È vero che l’Anpal è solo all’inizio ma questo potrebbe essere un importante compito da affidargli. Come si costruiscono progetti imprenditoriali piccoli o grandi non è altra cosa rispetto a come si trova un lavoro dipendente dopo averlo perso.

Occorre abbassare il livello di paura nei confronti del futuro. Occorre aiutare le persone ad affrontarlo. Altrimenti non resta che la resistenza a oltranza.

Anche se, purtroppo, questo rappresenta il canto del cigno di abitudini e convinzioni che non si rassegnano a cedere il passo a modelli di risoluzione dei conflitti più concreti ed efficaci.

Terziario si, però secondi a nessuno…

Carlo Sangalli, Presidente di Confcommercio, lo ricorda spesso. “Terziario si, però secondi a nessuno”. Più che uno slogan azzeccato è un dato di fatto. Il terziario di mercato, visto sempre con una certa superficialità da chi proviene da una tradizionale cultura industrialista, ha una suo perimetro, un potenziale di crescita sempre più importante, un peso sul PIL del Paese ben superiore a quello di altri settori merceologici. E anche negli anni della crisi ha messo a disposizione un importante contributo per consistenti sbocchi occupazionali soprattutto a vantaggio delle giovani generazioni.

Un importante contratto nazionale firmato da Confcommercio che consente a decine di comparti economici del terziario di mercato, pur diversi tra di loro, di trovare costi ragionevoli e flessibilità necessarie, una bilateralità che sposta, su alcune materie, fuori dalla singola azienda il rapporto tra sindacato e impresa rendendolo utile, funzionale e meno conflittuale, un significativo welfare contrattuale che sostiene centinaia di migliaia di lavoratori sul versante della sanità e della previdenza.

Ai manager del terziario inoltre è riservato un contratto innovativo che consente alle imprese un ottima base sulla quale poter personalizzare il rapporto e ai dirigenti stessi di poter contare su un welfare importante ma anche ad un “diritto soggettivo” alla formazione e quindi una garanzia di maggiore occupabilità, in vigore fin dal 1994. È un perimetro ben presidiato. Così come legittimamente altri presidiano da anni il loro perimetro.

L’inevitabile tramonto della cultura fordista pone un problema di fondo alle imprese manifatturiere. Industry 4.0 segnala la necessità di una terziarizzazione di molte attività, ridimensionando la pur importante parte legata alla classiche attività industriali che sposti sempre più l’attenzione verso il cliente e quindi verso il servizio ciò che era quasi esclusivamente una cultura di prodotto o di processo.

Lo stesso problema permane, seppure con pesi differenti tra le diverse organizzazioni, nella cultura del sindacato di matrice industriale che spesso fatica a comprendere che il ruolo del servizio, del cliente e della persona ritornano ad essere centrali ma questo necessita di nuove forme di coinvolgimento, personalizzazione incentivazione e organizzazione che tendono, per loro natura, a privilegiare il rapporto tra azienda e persona, integrare i processi a monte e a valle dell’impresa stessa, riducendo inevitabilmente ruolo e peso delle rappresentanze sindacali. Oppure a riorientarne l’iniziativa.

I contratti fino ad ora firmati, se togliamo, le intuizioni, le intenzioni e, spero, gli impegni da onorare contenuti nell’ultimo rinnovo del CCNL dei metalmeccanici, ripropongono sostanzialmente uno schema classico. 

Non sono previsti scambi significativi, derogabilità di istituti anche economici, indicazioni per eventuali esigenze di flessibilità organizzative. Soprattutto quando le imprese intendono investire in aree innovative con i rischi conseguenti o gestire momenti di difficoltà.

La logica tradizionale, tipica delle relazioni industriali mutuata dalla grande impresa manifatturiera fordista, è che i contratti, siano essi nazionali o aziendali, si basano su una scontata omologazione e omogeneità degli accadimenti e delle risorse umane coinvolte lasciando l’eventuale necessità di reagire al contesto e/o la personalizzazione solo all’iniziativa dell’azienda.

Non c’è alcuno spazio definito o da concordare per la specificità dell’impresa, della sua fase economica, del riconoscimento del merito individuale dei collaboratori, della distribuzione del tempo di lavoro nelle fasi di start up di attività, ecc.

Se prendiamo, ad esempio, come viene affrontata la malattia del lavoratore, oggi ritornata di attualità nel Pubblico Impiego, osserviamo in modo plastico la differenza di impostazione tra i contratti. Quelli di matrice industriale considerano il problema solo sul piano quantitativo. Esiste un diritto, uguale per tutti e per un certo numero di giorni. Tutto il resto non riguarda le parti. Semmai riguarda le ASL, i controlli fiscali o l’azienda stessa attraverso premi legati alla presenza.

Nel CCNL del terziario, firmato da Confcommercio, le parti concordano che determinati comportamenti negativi e ripetuti possono cambiare qualitativamente i contenuti concreti di quel diritto. Se ne assumono la responsabilità delle conseguenze modificandone, addirittura, il corrispettivo economico. È quindi il punto di osservazione che cambia.

Il primo, di stampo fordista, tende a considerare tutti allo stesso modo perché il comportamento individuale non è  ritenuto significativo. Il secondo, al contrario, lo considera un elemento dirimente di cui le parti se ne devono fare carico.

Ho scelto deliberatamente un argomento su cui permangono profonde differenze di giudizio solo per dimostrare la differenza di approccio. E così vale per la costruzione e la gestione di molti altri istituti contrattuali. La differenza non è marginale. È innanzitutto di atteggiamento culturale.

Il recente contratto dei metalmeccanici, ad esempio, propone significati elementi innovativi che vanno nella direzione di ridurre quel vuoto. Affidando alla contrattazione decentrata questi compiti. Ma il vuoto permane ed è il prodotto di una cultura specifica, di scelte precise decise negli anni e la strada per ridurlo è decisamente più complessa di ciò che può evidenziare un’analisi non approfondita.

Eppur si muove…

La decisione della FIOM CGIL di lanciare una indagine a 360 gradi in FCA è, di per sé, un importante segnale di riposizionamento positivo che non va sottovalutato.

Dopo la firma unitaria del CCNL era comunque necessario affrontare il rapporto con la principale azienda del settore e, sul tema, con le altre organizzazioni sindacali.

Dichiarare apertamente come nel loro comunicato ufficiale che: “La nostra è un’inchiesta senza “paracadute”. Il tema non è dimostrare quello che noi già pensiamo ma capire come le azioni dell’azienda hanno cambiato le cose e se e quanto tutto quello che abbiamo cercato di fare come Fiom in questi anni, grazie allo straordinario lavoro dei delegati, è vivo tra i lavoratori. Bisogni e desideri in stabilimenti cambiati dalla crisi, dal contratto e dalla nuova organizzazione del lavoro.

È ovvio che questo prevede la nostra disponibilità ad accettare tutti i risultati che emergeranno e, in base a questi, riorientare le scelte di carattere sindacale.”

Da qui emerge tutta la concretezza della nuova direzione di marcia della FIOM impressa da Landini che segue il rinnovo del CCNL. Non solo in FCA. L’indagine dimostrerà ciò che non può non dimostrare: il cambiamento in atto negli stabilimenti non solo dal punto di vista tecnologico e organizzativo ma anche sociale.

La FIOM aveva scommesso sul declino e il declino non c’è stato. La ripresa del lavoro negli stabilimenti non ha risolto di per sé il problema della fatica o del salario ma ha creato delle condizioni nuove di appartenenza, condivisione e impegno tra i lavoratori che non erano né proponibili né percepibili nella fase declinante.

Soprattutto da quella parte dei militanti e dei delegati che, non comprendendo il cambio di fase, insistevano nel riproporre un modello che faceva perno sul contratto nazionale e sulla contrattazione aziendale in vigore, costruita negli anni precedenti la grande crisi.

A differenza degli altri sindacati di categoria la FIOM, non riuscendo a percepire un futuro dell’azienda, ha preferito scommettere sulla difesa di ciò che il passato aveva prodotto di positivo per i lavoratori pensando di poterlo difendere con l’iniziativa sindacale o con i ricorsi in magistratura. Ha sottovalutato la determinazione dell’azienda, l’assenza di alternative praticabili, la debolezza delle dinamiche confindustriali ma, soprattutto, il modificarsi dell’orientamento dei lavoratori che hanno scelto, insieme alle altre organizzazioni sindacali, di accettare una scommessa complessa con l’azienda piuttosto che una difesa ad oltranza di una realtà che non esisteva più se non nei ricordi collettivi di prima del massiccio ricorso agli ammortizzatori sociali.

Questa indagine si svilupperà in un anno decisivo per il futuro di FCA è, se fatta bene, fornirà indicazioni importanti per il futuro stesso delle relazioni industriali. Quindi se ne potranno avvantaggiare anche le altre organizzazioni sindacali.

A Landini il compito di riportare un po’ di sana concretezza emiliana nelle relazioni sindacali della più importante azienda italiana. Agli altri la disponibilità e la pazienza di reggere qualche gomitata fuori misura.

Una ripresa di rapporti unitari in FCA resta comunque decisiva per il futuro di una parte importante del movimento sindacale italiano. Speriamo che questa indagine ne consenta un rilancio.

Contratti della Grande Distribuzione. Adesso tocca al Ministero del lavoro.

L’iniziativa era nell’aria. Rita Querzé ne scrive oggi sul Corriere. Sia Confcommercio che i sindacati di categoria non potevano non rompere gli indugi e chiamare il Ministero del lavoro alle sue responsabilità.

Ci sono aziende che applicano un contratto nazionale e si sobbarcano i relativi obblighi e costi e ci sono aziende che non applicano un bel nulla ma che ne godono dei benefici economici e contributivi. Per un paio di anni e fino a poco tempo fa la indubbia capacità di lobby di Federdistribuzione è riuscita a convincere il Ministero del lavoro che la firma di un contratto nazionale specifico fosse imminente spingendo così il Ministero a temporeggiare rispetto ai suoi obblighi di vigilanza.

La vicenda è nota. Federdistribuzione è uscita da Confcommercio e ha convinto le aziende che vi hanno aderito a puntare ad un contratto nazionale specifico proponendo obiettivi ambiziosi quanto difficilmente realizzabili.

Il sindacato, con sensibilità differenti, ha tentato di restare in gioco giocando su tutti i tavoli possibili pur trovandosi di fronte a richieste, non solo irricevibili, ma che rischiavano, se accettate, di sfaldare l’intero sistema contrattuale del settore. Il punto è che non tutte le aziende del comparto aderiscono a Federdistribuzione. Molte sono in Confcommercio, altre applicano il contratto nazionale della cooperazione, alcune, infine, quello di Confesercenti.

Federdistribuzione ha insistito nel tenere al tavolo negoziale i sindacati con la promessa di chiudere in breve tempo ma, questi ultimi non ci hanno messo molto a comprendere che questa situazione rischia solo di avere come effetto collaterale grave l’assenza di una copertura contrattuale per decine di migliaia di lavoratori e quindi anche una situazione di evidente dumping tra imprese.

Le difficoltà economiche del settore e l’assenza significativa di iniziative sindacali spingono molte aziende della GDO, addirittura, a preferire l’assenza di un contratto ad un contratto comunque e quindi la situazione si è, piano piano, infilata in una palude da dove sarà sempre più difficile uscire.

Da qui le polemiche e le cicliche accuse di Federdistribuzione a Confcommercio e ad una parte del sindacato di voler impedire la sottoscrizione del contratto. Tesi sufficientemente ardita perché presuppone l’esistenza, al contrario, di una altra parte del sindacato disponibile a firmare comunque cosa fino ad oggi non manifestata in nessuna sede ufficiale.

Confcommercio, d’altro canto, non può che tutelare l’interesse delle aziende che vi aderiscono e quindi il punto, per questa Confederazione, non è impedire la firma di un contratto altrui. Anzi. Semmai si raggiungesse, in questo infinito negoziato, un risultato economicamente o normativamente più vantaggioso per le aziende questo non potrebbe che essere rivendicato sia da Confcommercio che da Confesercenti e, infine, anche dallo stesso mondo cooperativo.

Occorre sempre tenere presente che il contratto di Federdistribuzione riguarda circa centocinquanta mila addetti mentre solo quello di Confcommercio oltre tre milioni di addetti. I rischi sono evidenti.

Il problema di chi ha firmato il suo contratto nazionale è che non può tollerare una situazione dove alcune imprese godono di un vantaggio a prescindere mentre chi ha rispettato le regole ne ha un danno. Tutto qua.

Come ho già avuto modo di scrivere la strada imboccata da Federdistribuzione è sbagliata. Se qualche anno fa poteva avere ancora un senso la polverizzazione contrattuale per garantire alcune prerogative, oggi è un inutile .

Occorrerebbe una maggiore lungimiranza puntando decisamente verso modelli che prevedano l’applicazione di un unico contratto nazionale del terziario con, eventualmente, alcune deroghe necessarie che garantiscano una specificità settoriale da cui far discendere un nuovo modello di contrattazione aziendale costruito sulle esigenze della singola impresa. I modelli contrattuali che si stanno costruendo vanno tutti in questa direzione.

Capisco che non è facile cambiare strategia quando l’esigenza politica di affermare la propria esistenza associativa impedisce di alzare lo sguardo. Ma il mondo è veramente cambiato e attardarsi verso vecchi modelli contrattuali rischia solo di impedire l’evoluzione del contesto.

Le aziende della GDO stanno attraversando una fase estremamente complessa che sta rimettendo in discussione la dimensione e la presenza di molti gruppi nazionali e internazionali sul mercato, i loro modelli organizzativi, gli stessi format di vendita. Molte di loro sono impegnate in sforzi formativi importanti che consentono a migliaia di giovani di crescere e sviluppare professionalità e carriera.

La stessa Federdistribuzione è impegnata su versanti importanti dove esercita un ruolo di accompagnamento di affermazione e di ammodernamento del settore con grande determinazione. Sul versante sindacale, al contrario, le esigenze delle singole imprese, hanno sempre impedito la costruzione di una vera cultura associativa che, per sua natura deve saper operare sintesi con le rispettive controparti.

Altrimenti ci si trova nella situazione in cui si è oggi. Cosa prevedibile fin dall’inizio di questa avventura…