La nuova stagione dei metalmeccanici

La recente firma unitaria del CCNL dei metalmeccanici è un risultato positivo a prescindere. Segna la volontà di riprendere un cammino concreto che guarda ben più lontano del merito e dei risultati del negoziato.

La stessa gestione delle assemblee di ratifica, il clima presente e la volontà comune di tenere al palo, senza se e senza ma, quel 20% di oppositori di mestiere ne sono la conferma.

Le tre organizzazioni hanno scelto, insieme, di investire nella prossima contrattazione aziendale e quindi hanno costruito un contratto nazionale che ne rappresenta la cornice indispensabile. Una contrattazione aziendale, che, laddove ne esisteranno le condizioni, cercherà di “sfidare” le aziende sul terreno della produttività, del coinvolgimento e quindi della condivisione e, ultimo ma non meno importante, della formazione continua dei lavoratori.

Landini ha capito benissimo che un riposizionamento del gruppo dirigente della FIOM in chiave unitaria era necessario. Andare per salotti televisivi in tempi di grillismo imperante significa solo lavorare per il re di Prussia. Che lo si voglia o meno. Anche perché, dai territori, i cosiddetti accordi “difensivi”, si sono, nel tempo, moltiplicati e la FIOM non si è certo sottratta ad apporre la sua firma gestendone con responsabilità e preoccupazione tutte le conseguenze.

Resta aperto il vulnus principale. Il macigno sulla strada del riposizionamento definitivo: la vicenda FCA. È un passaggio delicato perché coinvolge anche l’approccio culturale di numerosi dirigenti sindacali, di molti delegati e iscritti, non solo di quell’azienda. Le loro storie personali, le loro scelte ma, soprattutto le conseguenze di quelle scelte.

D’altra parte i sindacati, non solo quelli del comparto metalmeccanico, se ripercorriamo le scelte nell’ultimo decennio, entrano ed escono dai contratti firmati o rifiutati nei rinnovi successivi senza mai fare fino in fondo i conti con gli eventuali errori commessi precedentemente. Né proponendo autocritiche.

La vicenda FCA è però diversa. L’azienda è cambiata profondamente e ha sempre giocato le sue carte provocando essa stessa i sindacati con l’obiettivo di modificare il perimetro, i contenuti e le modalità del confronto. Solo la lungimiranza delle altre organizzazioni sindacali di categoria e la loro disponibilità ad esporsi e ad assumersi forti rischi politici ha consentito di riprendere per i capelli situazioni ormai quasi compromesse.

Ma l’azienda non è mai stata intenzionata a concedere sconti neanche ai firmatari degli accordi. Il livello, le modalità e i contenuti del confronto sono cambiati disegnando uno scenario proprio di un nuovo modello di contrattazione aziendale. E quindi di relazioni industriali. FIM e UILM lo hanno capito benissimo.

E qui, a mio parere, sta il punto vero. Non è tanto un problema di come rientrare in gioco limitandosi a superare il passato. Oggi ci sono nuove regole del gioco e nuove modalità di confronto. E lo vedremo concretamente nella gestione del contratto nazionale.

Fare paragoni tra i contenuti economici del recente contratto dei metalmeccanici e quello in vigore in FCA non serve a nulla. Anzi. È un inutile esercizio di stile. L’unico vero paragone che ha senso proporre è nella filosofia di fondo tra i due modelli che è sostanzialmente identica.

Di più. Non ci sarebbe stato il rinnovo del contratto nazionale unitario in questi termini se non ci fosse stato lo strappo FCA. Realtà dove la priorità, oggi, dei sindacati che hanno accettato la sfida, credo sia quella di consolidare il lavoro nel Gruppo e il suo perimetro produttivo nel Paese. Occorrono nuovi occhi. Altrimenti non si rientra in gioco. E, soprattutto, non si esercita nessun ruolo propositivo.

Il lavoratore FCA di oggi si sente, al contrario, in partita. Si riconosce nella sua azienda, ne condivide gli obiettivi, è parte attiva del suo rilancio. E quindi si aspetta dal sindacato un comportamento coerente. Sentire, in una intervista televisiva, un delegato sindacale di uno stabilimento del sud chiamare l’AD di FCA “dottor” Marchionne è un segno dei tempi.

C’è rispetto dei ruoli, sobrietà nei comportamenti e nelle dichiarazioni, condivisione di obiettivi. Le nuove relazioni industriali si costruiscono in FCA e altrove, anche su queste tre caratteristiche semplici. Ma, come tutte le cose semplici, sono molto difficili da declinare….

Part time agevolato e pensioni, un flop prevedibile

Una idea interessante che non ha interessato praticamente nessuno. Come definire diversamente i dati consuntivi del cosiddetto part time agevolato per chi è vicino alla pensione?

Non piaceva alle aziende, non solo per il costo, né ai sindacati che non lo hanno particolarmente sostenuto. Né ai futuri pensionati. Quelli meno propensi a lasciare il lavoro o a modificarne spontaneamente l’impostazione.

Piaceva solo al Ministero del Lavoro che stimava trentamila adesioni. Se ne dovrà accontentare di poche decine. È una delle tante misure estemporanee proposte da chi, in azienda, non ci è mai stato.

L’approssimarsi della pensione rende le persone più fragili sul piano organizzativo. Fingono tranquillità e sicurezza nei confronti dei colleghi, apparentemente invidiosi del loro stato, ma sanno benissimo di essere, comunque, “sopportati”. Figuriamoci ad orario ridotto. Situazione aggravata psicologicamente se il futuro pensionato non ha bene chiaro come riempirà il tempo che avrà a sua disposizione.

L’azienda se lo ritiene ancora utile gli offrirà una collaborazione altrimenti ne ha già da tempo previsto la sostituzione. Soprattutto se la mansione del futuro pensionato non è particolarmente complessa. Nella maggioranza dei casi è solo un costo da cui liberarsi al più presto.

A mio parere occorrerebbe partire da una riflessione più ampia altrimenti si rischia di non vedere il problema. Innanzitutto dovremmo superare la cultura che considera il lavoratore vicino alla pensione un peso e quindi solo un costo.

Sono almeno trent’anni (dalla nascita dei prepensionamenti e delle cosiddette dimissioni volontarie) che le aziende considerano chi è vicino alla pensione sostanzialmente un peso da cui liberarsi alla prima occasione. Per i sindacati, d’altra parte, rappresentano una importante valvola di sfogo che evita interventi più dolorosi.

Poi è arrivata la Fornero. L’intervento del ministro del lavoro del Governo Monti ha modificato i termini del problema. Lo ha affrontato sul piano economico/previdenziale ma non calcolando (o non potendo calcolare) le conseguenze culturali, organizzative e sociali che un intervento di quel tipo avrebbe determinato.

Il primo effetto è stato quello di contribuire a disegnare una nuova figura sociale (l’esodato) piazzato a sua insaputa in una terra di nessuno dove era troppo giovane per andare in pensione ma troppo vecchio per trovare un lavoro. In secondo luogo creando, nelle aziende, la figura del “mancato pensionabile”. Un peso per tutti. Per il soggetto coinvolto che si trova a dover posticipare i suoi piani cercando energie e motivazioni non sempre facili da ritrovare, per l’azienda  che vorrebbe disfarsene, ma anche per i colleghi stessi.

Occorre intervenire su cultura e comportamenti. Da parte delle aziende prendendo atto che la vita lavorativa delle persone si è allungata e che quindi è necessario costruire politiche organizzative, di sviluppo, valorizzazione e motivazione che non possono non tenere conto di questi cambiamenti profondi.

Ma anche i sindacati che, se non vogliono trovarsi con ricadute occupazionali di difficile gestione, devono prevedere strumenti nuovi che consentano alle aziende di ridurre i costi non giustificati da una effettiva professionalità e non si attardino su concetti legati all’anzianità lavorativa. O preoccupandosi solo degli incentivi per spingere le persone a lasciare spontaneamente il lavoro.

Il rischio, e questa vicenda lo dimostra, è che, quando gli individui sono lasciati soli con il loro problema, si chiudano in se stessi e non ascoltino più nessuno.

Giovani e famiglie tra scuola e lavoro..

Il più efficiente head hunter che ho conosciuto è stato don Angelo Recalcati. A Milano da via Mac Mahon e fino al Portello non si occupava solo delle nostre anime.

Gestiva per conto delle laboriose famiglie operaie insediate nei casermoni popolari il rapporto tra loro, i loro figli, le scuole del quartiere e il mondo del lavoro. Per lui valutare le soft skills non era un problema.

Ci vedeva crescere, ci osservava quotidianamente, ci spronava e ci riprendeva. Non aveva bisogno di test di Rorschach o di Assessment. I suoi giudizi valevano una sentenza di Cassazione.

Consigliava i genitori sui percorsi scolastici su cui indirizzare i figli, parlava con i maestri prima, e poi con i professori, telefonava alle aziende preannunciando l’arrivo di CV in preparazione di futuri colloqui di lavoro.

Nei ragazzi valutava due aspetti: merito, inteso come impegno negli studi e nella vita dell’oratorio e comportamento, inteso come qualità della persona. Su queste due “semplici” valutazioni suggeriva ai genitori la continuazione degli studi o proponeva un lavoro in banca, in un negozio o in una fabbrica.

Don Angelo era una figura mitica. Fondamentale per la crescita del quartiere, dei legami comunitari e della formazione di giovani che crescevano in famiglie provenienti da tutta Italia, portatrici di tradizioni e culture differenti, impegnate nel lavoro e quindi poco disponibili, in termini di tempo, a seguire direttamente l’educazione dei propri figli.

Difficile oggi trovare punti di riferimento con queste caratteristiche. La scuola si è ormai chiusa nella sua autoreferenzialità, la parrocchia è sempre meno autorevole e frequentata, il mondo del lavoro è complesso, lontano e non sempre disponibile a relazionarsi con i contesti locali.

Questa situazione contribuisce a disorientare le famiglie sempre meno preparate ad aiutare i figli nelle scelte di studio o di lavoro. Purtroppo tornare indietro è però impossibile.

Adesso ci proverà l’Anpal l’agenzia per le politiche attive del lavoro partorita dal Jobs Act e diretta da Maurizio del Conte. 1000 professionisti da ingaggiare che da qui al 2020 si occuperanno di stabilire un ponte tra i due mondi. Partendo dalle oltre cinquemila scuole superiori e università distribuite su tutto il territorio nazionale.

Anche se una figura come don Angelo non è più rintracciabile non si parte comunque da zero. Molte scuole tecniche e professionali lavorano da tempo con le aziende. Così come alcune università. Questo patrimonio non va certamente disperso né appaltato. Anzi.

Fuori da questo perimetro di impegno e di visione c’è però il vuoto. Non basta la buona volontà di qualche professore a superare una cultura che vuole mantenere muri solidi che impediscano una comunicazione positiva tra i due mondi. Per questo l’impegno dell’Anpal va condiviso e sostenuto.

È ovvio che non basta. Don Angelo non si occupava “solo” di trovare il lavoro, contribuiva a disegnare una comunità, educava a dei comportamenti, cercava di costruire dei cittadini consapevoli. Il punto vero forse sta qui.

Un dialogo positivo e costruttivo tra i due mondi porta con sé delle implicazioni non di poco conto perché rende probabilmente necessario cambiare il senso dell’istruzione attualmente impartita, in modo da trasformarla in un apprendistato “guidato” di vita vera. Non solo aziendale.

Il lavoro, le sue regole e chi dovrebbe riscriverle..

La vicenda dell’arresto di un esponente del SI Cobas a Modena porta alla luce ancora una volta quell’area del lavoro di confine dove non esistono regole né contratti né rispetto per la persona lontano dal controllo delle imprese sane e del sindacato confederale e fondamentalmente in balia di se stesso.

Coinvolge lavoratori immigrati, giovani (soprattutto in certe aree del sud) che abbandonano gli studi, donne che cercano di rientrare nel mercato del lavoro, over 50 espulsi dalle aziende, giovani in attesa di trovare una occupazione. Disoccupati, pensionati o assistiti a vario titolo. Pagati in nero, sottopagati, costretti a subire tagli della retribuzione per “servizi” imposti dal caporale di turno o per restituire all'”imprenditore” parte del guadagno come “ringraziamento” per l’assunzione.

Che lo si voglia ammettere o meno, un terzo della nostra economia, ogni giorno costringe centinaia di migliaia di persone a lavorare sul confine che passa tra legalità formale e illegalità sostanziale. Ben oltre i voucher, ben oltre la gig economy, ben oltre il cosiddetto lavoro povero, seppur contrattualizzato. In questo mondo agiscono intermediari, “scafisti” da terra ferma, imprenditori senza scrupoli, prestanome di attività legali, malavitosi che gestiscono direttamente attività economiche. Ma anche una forma di sindacalismo di confine.

Fatto di minacce, ricatti, strumentalizzazioni. Una forma di sindacato che non si nutre di slogan estremisti né si colloca a sinistra di altri sindacati quando opera concretamente. Funziona sul modello collaudato obiettivo-lotta-risultato. Dove l’obiettivo serve per creare la massa di manovra, la lotta sempre breve ma intensa perché portata anche fuori dai confini della legalità e un risultato che deve essere sufficiente a creare le condizioni per essere riproducibile altrove. Sempre per piccoli gruppi.

È una forma di “guerriglia” permanente dove furti, spaccio, danni e botte ai “crumiri”, minacce ad altre etnie, a capi sono ritenuti effetti collaterali accettabili integrabili con blocchi delle merci e danni di ogni tipo, anche gravi, a terzi. Ovviamente il tutto in orari, situazioni e realtà difficili da garantire un intervento in tempi rapidi dalle forze dell’ordine e dallo stesso controllo delle aziende coinvolte che spesso si piegano a questa logica innescando un meccanismo inarrestabile.

È una terra di nessuno dove avviene di tutto nel silenzio generale. Emerge sempre più spesso nei magazzini della logistica del nord, nelle attività “legali” della malavita organizzata, nell’edilizia, nell’agricoltura ma anche in attività di servizio alle imprese o in piccole attività commerciali danneggiando pesantemente chi opera nel rispetto delle regole.

Al di là di come si concluderà la vicenda di Modena questa è una realtà sulla quale occorrerebbe accendere i riflettori. Innanzitutto perché questo fenomeno non si sta affatto restringendo ma è destinato ad aumentare.

La profondità della crisi, la possibile ripresa senza crescita occupazionale, la ramificazione territoriale dei fenomeni malavitosi, l’affermarsi di attività distributive fondamentali quanto fragili dal punto di vista organizzativo e di gestione del personale, i fenomeni migratori aumentano notevolmente la differenza tra cosiddetti garantiti e non garantiti rendendo sempre meno percepibile il confine tra lecito e illecito così come la necessità di garantirsi un reddito comunque messo insieme.

Se a questo aggiungiamo che (secondo i dati pubblicati ieri dal sole 24ore) “a fine 2016 oltre metà degli occupati dipendenti risultano ancora in attesa di un rinnovo contrattuale (il 50,5% per l’esattezza) e sempre a dicembre, l’attesa media di un rinnovo calcolata sul totale dei dipendenti è di 27,1 mesi, in crescita rispetto ai 22 mesi di un anno fa”. Ci rendiamo conto che la situazione rischia di creare un innesco molto pericoloso al quale non di può rispondere con i timidi segnali di controtendenza emersi sul piano economico e occupazionale.

Pensare di affrontare questa situazione con la “carta dei diritti” proposta dalla CGIL in solitaria o chiamando al referendum su voucher e appalti è come voler affrontare una polmonite con l’aspirina. In un Paese dove oggi un terzo dell’economia reale non rispetta alcunché che senso ha voler continuare a colpire chi, le regole, pur in situazioni di grande difficoltà, cerca di rispettarle? E per colpire quel terzo,  a mio parere, occorrerebbe una convergenza di tutto il Paese.

Le nuove regole andrebbero concordate e proposte insieme, da tutte le organizzazioni di rappresentanza, per essere efficaci.  Non servono fughe in avanti. Pensare di superare le proprie difficoltà organizzative (rinnovi contrattuali, adesioni marginali agli scioperi proclamati nel privato, declino organizzativo, ecc.) lanciando la palla nel campo della sinistra politica e parlamentare aumentandone la confusione serve solo ad aprire ancora di più uno spazio di iniziativa a chi ritiene di poterlo occupare con maggiore diritto perché in grado di reinterpretarlo aggiornandolo e finalizzandolo proprio a disintermediare e quindi mettere in difficoltà le organizzazioni di rappresentanza.

In nessun Paese del mondo si è riusciti a riportare indietro l’orologio del tempo a favore dei “vinti” della globalizzazione con la cultura del 900. Anzi. Bernie Sanders e Jeremy Corbin sono lì a dimostrare cosa succede immediatamente dopo quando si insiste a voler occupare con vecchi discorsi uno spazio politico quando il vento soffia altrove.

Carta dei diritti o Carta delle opportunità?

La mia personale critica alla “carta dei diritti” propugnata dalla CGIL parte da alcune considerazioni di fondo. Innanzitutto la visione del mondo del lavoro.

È vero che nel nostro Paese permangono ingiustizie profonde. Un terzo della nostra economia sprofonda nel sommerso e sfugge a statistiche e analisi approfondite.

Il lavoro nero è una piaga affatto ridimensionata e la presenza di un tessuto di micro imprese può certamente impedire o rallentare l’affermarsi di una cultura condivisa dei diritti e dei doveri.

Ed è evidente che i contratti nazionali non sono sufficienti a governare questi fenomeni o a far crescere una cultura della responsabilità e del rispetto reciproco. La stessa globalizzazione (sia quella in crisi di identità che quella che si affermerà comunque) impone la definizione di veri e propri diritti di cittadinanza che siano disponibili per tutti indipendentemente dalla dimensione dell’impresa o dalla tipologia del rapporto di lavoro. Diritti che dovrebbero essere condivisi da chi opera sullo stesso mercato. Lo slogan: “stesso mercato, stesse regole” dovrebbe valere per tutte le componenti coinvolte. Anche per il lavoro.

Ma è da qui in avanti che la “carta dei diritti” disegna una realtà surreale perdendosi in un oceano di vincoli che non c’entrano nulla con i diritti di cittadinanza. Innanzitutto la qualità del rapporto di lavoro nelle aziende che applicano un contratto nazionale è infinitamente migliore rispetto al periodo dove fu necessario introdurre nella nostra legislazione lo Statuto dei lavoratori. Nella visione della CGIL sembra, al contrario, addirittura peggiorata.

Oggi il diritto al lavoro si sostanzia concretamente con il diritto all’impiegabilità. Nella “carta dei diritti” questo aspetto non esiste. Esiste il rapporto di lavoro, la sua qualità e le norme che lo dovrebbero sostanziare nella singola azienda e nel rapporto con l’imprenditore. Il mondo di riferimento che permea quella cultura è il luogo di lavoro, non il mercato del lavoro. Quindi un tentativo di cristallizzazione dell’esistente.

Non c’è nulla di significativo sul fatto che il lavoro si ottiene e si perde molto diversamente che in passato. Che la tipologia dello stesso può variare nel tempo e che crescere o decrescere nella stessa azienda o sul mercato è fisiologico. Soprattutto che si resta sul mercato per molti più anni e quindi in una situazione di oggettiva fragilità.

La competizione così come i mercati sono globali, le imprese sono inserite in filiere internazionali dove le regole del gioco non vengono decise in un singolo Paese. Giocare in difesa creando vincoli in un solo Paese significa solo spingere le imprese ad aggirare l’ostacolo con conseguenze facilmente immaginabili.

Diverso sarebbe accettare la sfida puntando decisamente verso una cultura della collaborazione, della condivisione dei rischi e, ovviamente, dei benefici. Quindi puntare decisi verso un contesto che offra opportunità.

Opportunità, ad esempio, di crescita professionale conseguente a sistemi di valutazione e sviluppo concordati, di gestire le proprie transizioni lavorative tra un’attività e un’altra, di definire, anche tramite i propri rappresentanti, i livelli di coinvolgimento e partecipazione sugli obiettivi dell’azienda, di poter contare su di un welfare contrattuale robusto e moderno, di aver garantito, anche attraverso un sistema bilaterale efficace ed efficiente, un contesto di rispetto del proprio lavoro, dei propri diritti ma anche dei propri doveri.

Purtroppo la “carta dei diritti” da per scontato che tutto ciò non è possibile. O meglio che tutto ciò addirittura sarebbe ottenibile solo affidando ad altri (un giudice terzo che di lavoro e della sua evoluzione in corso non ne capisce nulla), l’interpretazione di un avverbio, di un contesto lavorativo, di una situazione.

La mia sensazione è che una parte del sindacato preferisca rinchiudersi in una sorta di “Fort Alamo” dove una generazione, la mia, preferisce riconoscersi nei gesti, nelle parole e nelle convinzioni di sempre anche se tutto questo dovesse essere sempre più estraneo a dove sta andando il mondo del lavoro e dell’impresa.

Oltretutto questa deriva rischia di interrompere un percorso di confronto e avvicinamento non solo tra organizzazioni sindacali ma anche nel rapporto e di confronto con il mondo delle imprese e delle loro rappresentanze.

L’accoglienza favorevole degli iscritti FIOM di un contratto nazionale complesso e innovativo, così come quella dei lavoratori delle imprese non sindacalizzate dovrebbe far riflettere sulle traiettorie sulle quali le rappresentanze dei lavoratori e delle imprese dovrebbero impegnarsi con maggiore convinzione. Purtroppo il tempo a disposizione non è molto.

I sindacati tra tattiche e strategie..

La chiusura unitaria del CCNL dei metalmeccanici ha segnalato un dato importante. Dove più acuta era la crisi di rapporto tra le diverse organizzazioni sindacali (e la rispettiva controparte) il lavoro di ricucitura messo in campo dai rispettivi protagonisti è stato più costruttivo e convincente che altrove.

Il fatto segnala indubbiamente una maturità e una visione che i lavoratori, soprattutto quelli più vicini alle rispettive organizzazioni sindacali, non hanno mancato di apprezzare.

Proporre, come chiave di lettura, una FIOM consenziente perché militarizzata e quindi dipendente dai voleri di Maurizio Landini come ha fatto Giuliano Cazzola mi sembra francamente esagerato anche perché tenere in una perenne tensione inconcludente una organizzazione sindacale e i suoi militanti può funzionare con un COBAS di modeste dimensioni non con una grande organizzazione che comunque fa parte della CGIL.

Il contratto dei metalmeccanici non è affatto sbilanciato a favore delle imprese. Contiene impegni, costi, soprattutto futuri, che vanno ben al di là di di quanto un’associazione di imprese ha mandato di sottoscrivere se non in una fase di riorientamento strategico delle relazioni sindacali, dei ruoli della contrattazione e del futuro dell’intero sistema.

C’è un equilibrio sostanziale che rappresenta una indubbia particolarità in un contesto dove le piattaforme sindacali, pur preparate con cura, si sono infrante contro muri datoriali sempre meno disponibili.

Gli impegni contenuti e la gestione dello stesso contratto ne marcheranno il cammino, lo collocheranno nella giusta dimensione e ne consentiranno una giusta valutazione solo alla fine del percorso concordato tra le parti.

Modalità di partecipazione dei lavoratori alla crescita e allo sviluppo delle loro imprese, ruolo della contrattazione aziendale, revisione dell’inquadramento, formazione dei lavoratori come diritto soggettivo, sicurezza sul lavoro, solo per citare alcuni temi rilevanti, costituiscono una base di confronto di notevole contenuto e spessore. Ed è su questo che si chiariranno i confini dentro il quale il cosiddetto “Patto di fabbrica” troverà o meno uno sblocco plausibile e concreto. Oppure resterà solo sulla carta. Ed è per questo che il percorso di confronto tra i massimi organismi di FIM, FIOM e UILM avviato oggi è molto importante.

Non va però sottovalutato, che tutto questo avviene in un contesto di relazioni tutte da ricostruire tra le diverse organizzazioni sindacali sia in categoria che a livello confederale.

Innanzitutto in categoria dove le tendenze egemoniche della FIOM, che si sono manifestare fortunatamente solo nel rinnovo del contratti minori o in periferia, non sembrano destinate a rientrare facilmente nonostante l’impegno di tutte le segreterie nazionali.

Così come in FCA dove, sempre la FIOM, non segnala alcuna volontà concreta di “redenzione” quasi come continuasse ad attendere la realizzazione della profezia negativa evocata con una certa ossessione in tutti questi anni che ha trasformato Maurizio Landini in una sorta di Voldemort della saga di Harry Potter che, temendo di essere sconfitto da un bambino nato da poco, tenta di ucciderlo, continuando ad attaccarlo fino a quando, almeno nella saga è lui ad essere sconfitto definitivamente.

Per non parlare della carta dei diritti proposta dalla CGIL che, pur rappresentando un interessante punto di osservazione di una possibile evoluzione del mondo del lavoro non ha nulla che la possa mettere in relazione con il disegno strategico concordato con Federmeccanica nel dettato contrattuale dei metalmeccanici appena firmato se non sui principi generali. O con quanto ipotizzano tutte le organizzazioni datoriali per rilanciare il lavoro e favorire la ripresa.

Infine il referendum con la sproporzione evidente tra i contenuti rimasti sul tappeto e le conseguenze politiche e sociali che potrebbe innescare. Conseguenze che solo un sindacato unito su proposte chiare potrebbe evitare. Ultimi ma non ultimi gli imminenti congressi sindacali con tutte le tensioni e i nervosismi tipici delle stagioni riservate alla riproduzione.

Segnali a volte difficili da decifrare o da interpretare per un osservatore esterno soprattutto perché le tattiche e i segnali trasmessi rischiano di prevalere sulle necessarie strategie da mettere in campo.

D’altra parte le difficoltà della Politica sono evidenti. Così come sono altrettanto evidenti le difficoltà di una sinistra sociale che fatica a rientrare in campo perché insiste su un’idea di lavoro sempre più difficile da realizzare quindi lontana dalle esigenze del Paese e dalle urgenze delle nuove generazioni. E, come già sottolineato, sempre più lontana dalle disponibilità delle imprese e delle loro organizzazioni di rappresentanza.

Il rischio è di abbandonare la strada della concretezza e della contrattazione tipiche del sindacato per rifugiarsi nella pura testimonianza.

Ed è su questo, sulla comprensione del contesto e delle risposte che solo il confronto tra sindacati e con le rispettive controparti può determinare, che la differenza tra espedienti tattici e visione strategica chiarirà il ruolo che i gruppi dirigenti dei sindacati, confederali e di categoria ma anche di tutti i corpi intermedi, vorranno giocare nei prossimi mesi e che ne segnalerà il possibile rilancio o il declino. I segnali, purtroppo, sono ancora abbastanza contraddittori.

Ristrutturazioni aziendali e responsabilità da condividere.

Se per quanto riguarda una qualsiasi attività produttiva è possibile ipotizzare una sua riconversione non è così per un punto vendita della GDO. Soprattutto se di grandi dimensioni.

Se il fatturato non è adeguato il negozio, piccolo o grande che sia, va chiuso. Più tardi lo si fa, peggio è sia per la redditività complessiva dell’azienda ma anche per i lavoratori.

La reazione del sindacato, in questi casi, è generalmente pavloviana. Sanno tutti benissimo che non ci sono alternative e che la procedura non andrà oltre i 75 giorni ma nessuno se la sente di proporre altro, oltre a qualche ora di sciopero che, nella maggioranza dei casi, non serviranno a nulla.

Le parti sociali nel nostro Paese sono in grado di gestire qualsiasi situazione meno la più grave: il licenziamento. Se stiamo all’ultima vicenda in ordine di tempo e che coinvolge una grande multinazionale francese il comunicato della Filcams CGIL recita: “Le argomentazioni dell’impresa hanno portato ad evidenziare rilevanti problematiche sugli andamenti aziendali, quali il fatturato, il costo del lavoro e la redditività dell’anno. Gli ipermercati risultano particolarmente penalizzati”.

Motivazioni chiarissime. Ma per evitare un giudizio di merito il comunicato conclude con: “Le informazioni declinate dall’impresa sono risultate generiche e improvvisate”.

Si preferisce quindi addossare le colpe all’azienda, pronunciando frasi di rito, proclamando lo stato di agitazione e lasciar passare il tempo. L’azienda, dal canto suo, sa che questo è il prezzo da pagare. Un dialogo tra sordi.

Così come i trasferimenti di sede o di attività. Le aziende devono essere sempre attente ai costi. Ottimizzano strutture, semplificano gli organigrammi, concentrano attività.

Giampiero Castano, coordinatore dell’unità del ministero dello Sviluppo economico per la gestione delle vertenze delle imprese in crisi, ed ex sindacalista, insinua che queste operazioni possono nascondere la volontà di ridurre il personale. Non è così.

Due unità produttive sottoutilizzate o sovradimensionate sono entrambe a rischio. Concentrare le attività in una sola consente di gestire meglio i servizi comuni, gli affitti dei siti e determinare migliori sinergie. Molte sedi direzionali saranno a rischio nei prossimi anni. Così come molti siti produttivi.

L’insegnamento da trarre in queste vicende è se esistono o meno alternative di gestione e quindi se le parti sociali anziché agire o reagire passivamente, pur nel rispetto di leggi e contratti, sono in grado di assumere iniziative, individuare strumenti specifici, studiare formule di accompagnamento perché come sostiene Fabio Savelli, a commento di un ottimo articolo di Rita Querzé sul Corriere di oggi, “il proprio lavoro lo si salva solo spostandosi”. Su questo, fortunatamente, non partiamo da zero. In alcune categorie si stanno sperimentando opzioni interessanti. Però non ancora unitariamente.

È chiaro che per i singoli colpiti da un licenziamento la strategia del “il posto di lavoro non si tocca…” oggi non funziona più. Al massimo funziona nella prima parte della procedura. Poi scatta il “si salvi chi può”. Gli attuali ammortizzatori sono studiati per lasciare, di fatto, la persona sola con il suo problema.

Strumenti quali, il trasloco, la differenza sul costo di affitto, i distacchi temporanei, un interlocutore per le pratiche burocratiche, un supporto sui servizi sociali (scuola, sanità, relazioni, ecc.) e sulle modalità dell’inserimento lavorativo sarebbero molto più importanti se gestiti insieme dall’azienda e dai rappresentanti sindacali. Nelle aziende di cultura francese alcune di questi aspetti vengono gestiti attraverso il cosiddetto “plan social”.

Un insieme di strumenti che devono consentire al lavoratore licenziato di rimettersi in gioco. Ma con una assunzione di responsabilità anche dell’azienda che lo licenzia.

Nelle riflessioni sulle politiche attive il tema sulle concentrazioni di attività, sui trasferimenti intergruppo, i distacchi presso terzi, le nuove opportunità interne e la formazione aziendale necessaria e, non ultimo, tutti gli strumenti alternativi al licenziamento dovrebbero trovare la possibilità di approfondimento indispensabile.

Oggi il lavoro si perde e si trova dove c’è. Dare per scontato che quando lo si perde in un’azienda, lo si può trovare solo fuori e da soli non è così scontato. Almeno occorrerebbe crederci, superare i pregiudizi ideologici e provare ad individuare soluzioni percorribili.

Aziende industriali, contratto del terziario…

Secondo i dati più recenti citati da Rita Querzé sul Corriere di oggi un terzo delle aziende iscritte ad Assolombarda (Confindustria) applica il contratto del Terziario firmato da Confcommercio.  E questo non da ieri.

Quindi l’idea sottesa nel cosiddetto “patto di fabbrica”, proposto dal Presidente Boccia ai sindacati confederali, sulla necessità di sviluppare una contrattazione nazionale specifica di produzione  confindustriale su industry 4.0 c’entra fino ad un certo punto.

La ragione della scelta delle imprese è molto semplice. Nel comparto manifatturiero i contratti sono settorializzati quindi risentono delle differenti culture (sempre di stampo fordista) prodotte nei differenti comparti merceologici. E questo crea, costi diretti, indiretti e vincoli organizzativi.

Nel terziario il contratto è uno solo. Da sempre. Costruito proprio per potersi adattare a settori molto diversi tra di loro. Quindi molto lasco. Questo lo rende decisamente più moderno, gestibile e modellabile su misura di esigenze specifiche o particolari.

Le aziende generalmente badano al sodo. Lo stesso sistema bilaterale costruita intorno al welfare aziendale ha bisogno di masse critiche rilevanti e di una cultura della flessibilità e del bilateralismo che non si improvvisa né nelle associazioni datoriali, né nei sindacati.

Qualche esempio. Nel CCNL del terziario, orari e organizzazione del lavoro hanno, come obiettivo principale, il soddisfacimento del cliente e l’adattabilità al mercato. Non è così nei comparti industriali dove al centro, che lo si voglia ammettere o meno, c’è ancora il prodotto e chi lo produce.

Il diritto soggettivo alla formazione giustamente sottolineato da tutti come rilevante nell’ultimo contratto dei metalmeccanici, è presente nel contratto dei dirigenti del terziario già dal 1994. Così come, dallo stesso anno, per i Quadri che sono nel CCNL dei lavoratori del terziario. La formazione è centrale ed è diffusa a tutti i livelli, il welfare sanitario copre già oltre un milione e mezzo di lavoratori. 

Infine se pensiamo alla implementazione di una nuova attività, la fase di test di un prodotto o di un servizio e la loro relazione con il lavoro necessario sia in termini di costo, durata, qualità e inquadramento ci rendiamo conto della profonda differenza  tra i differenti modelli contrattuali e quello del terziario.

La stessa Federdistribuzione, nel suo tentativo di uscita dal CCNL del terziario (in corso da oltre due anni), vorrebbe mantenerne la flessibilità, gestire autonomamente parte (non tutta) della bilateralità, e pagare ancora meno i lavoratori di quanto stabilito nel CCNL firmato da Confcommercio. Operazione non facile da realizzare e soprattutto che rischia di innescare una inevitabile fase di dumping pericolosa per tutto il comparto spinto ad una infinita gara al ribasso con risultati immaginabili per i lavoratori coinvolti.

Nel comparto industriale i metalmeccanici hanno appena concluso un contratto propedeutico anche ad industry 4.0. Come può pensare Confindustria di costruire un “patto di fabbrica” che prescinde da questa realtà consolidata? E con chi? Che cosa è il CCNL dei metalmeccanici se non la base per il “patto di fabbrica”?

Tempo fa Marco Bentivogli prospettava la costruzione di un sindacato industriale di nuovo conio, in grado di valorizzare la manifattura sul piano della difesa degli interessi nazionali del settore e dell’evoluzione del lavoro sia nei contenuti che nel rapporto con l’impresa. Quella, credo, resta l’unica strada praticabile.

Le organizzazioni di rappresentanza, datoriali e sindacali, devono rendersi conto che il problema non è come recuperare le aziende o i lavoratori sotto le proprie insegne con operazioni di semplice presidio dell’offerta di servizi. O di concorrenza tra sigle. Altrimenti si aprirà ad una fase incontrollabile di dumping contrattuale.

Il tema centrale è quale rappresentanza è, e sarà, funzionale alle imprese e ai lavoratori in un mondo globalizzato.

Il 900 ha costruito intorno alla manifattura fordista una ideologia è un modello organizzativo e contrattuale prevalente che si è esteso a tutti i settori. Quel modello è in declino.

Probabilmente, nel privato, servirà puntare decisamente verso un modello contrattuale nazionale più leggero costruito intorno a 3 comparti principali: terziario, industria, agroalimentare con contrattazione aziendale, territoriale o di comparto collegate.

Il punto è se i corpi intermedi saranno in grado di comprendere che il futuro non è nella competizione organizzativa sull’esistente ma nell’individuare cosa, imprese e lavoratori, hanno bisogno nella transizione verso il nuovo paradigma economico e sociale e di come metterlo loro a disposizione.

È lì, è solo lì, che chi avrà  più tela da tessere….

Scuola e impresa: due mondi che si possono parlare.

Dunque l’Anpal comincia a fare sul serio.

L’idea di formare un migliaio di nuove figure professionali specializzate nell’avvicinare il mondo della scuola a quello dell’impresa è importante e per questo fa bene Di Vico sul Corriere a sostenerla.

Oggi questo rapporto non funziona, se non sporadicamente e solo grazie alla autorevolezza individuale di alcuni professori. Nella stragrande maggioranza dei casi sono mondi che non comunicano tra di loro. Non comunicano per diverse ragioni e non tutte per responsabilità della scuola.

Nel progetto “fermenti vivi” lanciato anni fa nel Gruppo Danone a livello internazionale i giovani neolaureati godevano di un periodo di inserimento congruo, strutturato a 360 gradi, con sistemi di assessment in entrata, tutoraggio e valutazione delle competenze acquisite. Lo stagiaire era ritenuto un investimento e non un tappabuchi semi gratuito e sostitutivo di una richiesta di assunzione vera non andata a buon fine.

Fortunatamente ci sono anche oggi numerose aziende che investono sui giovani ma occorre considerare che molti dei passaggi auspicabili nelle fasi di inserimento di un giovane abbisognano di forme di tutoraggio e di gestione non presenti dappertutto.

Per questo è molto importante il coinvolgimento a monte delle imprese anche attraverso le loro associazioni di rappresentanza per costruire progetti specifici, definire priorità e modalità di relazione con le scuole stesse, di coinvolgimento dei titolari o dei manager delle imprese che potrebbero essere interessate in attività di presentazione nelle scuole coinvolte o da coinvolgere.

Un giovane che non è mai stato in un’azienda ha bisogno di almeno sei mesi per capire dov’è. E di almeno altrettanti mesi per essere utile e cominciare ad acquisire le competenze e le capacità necessarie a relazionarsi con il contesto. E questo se può contare su punti di riferimento precisi. Almeno in una realtà non tayloristica.

Per questo sono auspicabili tutti quegli interventi che, prima dell’inserimento, consentano ad un giovane di conoscere il contesto, le persone con cui ci si relazionerà, i valori, la cultura e le sfide su cui quell’azienda specifica ingaggia e valuta i propri collaboratori. L’azienda non è un “postificio”, non garantisce nulla, offre un’opportunità. Questo deve essere molto chiaro ad un giovane.

Il principale lavoro del tutor sarà proprio quello di spiegare loro che entrare in un’azienda non è un punto di arrivo, oggi. È una occasione che va messa a profitto fino in fondo.

L’impegno messo fino a quel momento nello studio e la possibilità di affrancarsi dalla propria famiglia, soprattutto in termini economici, costituiscono il carburante necessario a mettersi in gioco.

Sapere che c’è una figura intermedia che aiuta a superare i problemi pratici ma anche di inserimento e adattamento è importantissimo. Sostenere questo percorso è un dovere che riguarda tutti.

E del CNEL, cosa ne facciamo?

Di tutti gli argomenti proposti nel referendum stravinto dal NO, quello sul CNEL era l’unico dov’è tutte le parti in causa ne auspicavano la soppressione.

L’operazione, tra l’altro, era già iniziata con lo spostamento di parte dei dipendenti, la promessa al CSM della sede e le dimissioni di molti consiglieri. L’esito del referendum pone evidentemente un problema.

Cosa fare di un organo costituzionale nel quale nessuno ha creduto più di tanto per decenni. Un dato mi sembra inequivocabile. Tra l’intenzione dei costituenti e la pianta ormai appassita che avrebbe dovuto essere abolita con il referendum il salto logico è enorme.

L’art. 99 della Costituzione recita: “Il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro è composto, nei modi stabiliti dalla legge, di esperti e di rappresentanti delle categorie produttive, in misura che tenga conto della loro importanza numerica e qualitativa.
E’ organo di consulenza delle Camere e del Governo per le materie e secondo le funzioni che gli sono attribuite dalla legge. Ha l’iniziativa legislativa e può contribuire alla elaborazione della legislazione economica e sociale secondo i principi ed entro i limiti stabiliti dalla legge.”

I costituenti non avevano affatto pensato a quel simbolo dello spreco di risorse pubbliche che nel tempo il CNEL ha dimostrato di essere ma a qualcosa di importante, utile al Paese perché in grado di portare la voce e le proposte dell’Italia che lavora e produce integrandole, in un contesto di democrazia rappresentativa, al Parlamento.

Un ruolo, a mio parere, ancora più importante oggi dove la distanza tra il Paese reale e le sue rappresentanze è sicuramente aumentata. Una cosa però è certa.

Questa ridefinizione del ruolo dell’istituto non può essere lasciata a chi oggi ne occupa ancora qualche vecchia e traballante poltrona. Leggere che Presidente e vice Presidente rimasti in carica stanno autonomamente presentando ad altri organi costituzionali proposte di autoriforma rende ancora più triste l’epilogo di un fase che va, al contrario, prontamente chiusa.

Il compito di ridisegnarne i nuovi confini non spetta a loro. Spetta alle organizzazioni delle imprese, del lavoro e del volontariato. Personalmente spero se ne facciano carico presto.

Auspico tre caratteristiche fondamentali. Innanzitutto il CNEL dovrebbe diventare un luogo di elaborazione, di confronto e di proposta comune sui temi del lavoro. I componenti dovrebbero essere pochi, non pagati essendo retribuiti dalle rispettive organizzazioni, soprattutto di alto livello e realmente rappresentativi della loro parte.

Dipendesse da me metterei anche qualche vincolo sull’età dei consiglieri e sulla loro provenienza perché di tutta questa gente che ripete a pagamento le stesse cose da almeno quarant’anni non se ne può più. Ma questo so che resterà solo un pio desiderio.

Spazio alle imprese, ai manager, al lavoro. Alla cultura della partecipazione e del confronto. Luogo di certificazione della contrattazione e dell’innovazione sociale e organizzativa. Un luogo vivo, vivace e strategico per il Paese.

Stiamo vivendo anni decisivi per il futuro del lavoro. Pensare di creare un luogo riconosciuto dove i corpi intermedi si possano impegnare positivamente e costruttivamente insieme per il bene del Paese e senza pretendere nulla in cambio mi sembrerebbe un buon viatico.

Non solo per un nuovo CNEL.