Voucher e FCA viaggiano insieme.

Pedretti, segretario generale dello SPI CGIL, è una persona equilibrata. Nell’intervista al Corriere dimostra quella pacatezza e quella lungimiranza che solo chi ha cominciato a lavorare a 15 anni ed ha attraversato tutte le principali vicende sociali del nostro Paese può avere.

Conosce la CGIL e la FIOM come le sue tasche. Distribuiva l’Unità nelle fabbriche quando il solo fatto di leggerla poteva portare al licenziamento. Non come oggi dove nessuno la legge più e i suoi giornalisti vengono licenziati. È cambiato il mondo e lui lo sa bene.

Nella vicenda dei voucher si è mosso con coerenza. Sa benissimo che dovrà alimentare con i suoi, gazebo e manifestazioni a favore dell’abrogazione dei voucher, e continuare ad utilizzarli per pagare i pensionati che aprono e tengono vive le sedi del sindacato.

Come sa benissimo che, alla fine di questa vicenda, esisteranno ancora strumenti analoghi. L’ha detto lui e lo ha ribadito con altre parole Susanna Camusso: per la CGIL, i voucher non devono sostituire lavoro altrimenti regolamentabile. Segnali comunque di disponibilità, se li si vogliono cogliere all’interno di un negoziato serio.

Dove temo la CGIL sopravvaluti la fase politica e sociale attraversata dal nostro Paese è quando ritiene che questo referendum sta rimettendo al centro del dibattito il tema del lavoro. Purtroppo non è così. O meglio questo dovrebbe essere lo sforzo che i corpi sociali insieme dovrebbero fare anziché rinchiudersi nei rispettivi recinti.

Il tema centrale per chi vive i problemi e forse meno per chi ne discute, lo hanno capito benissimo i grillini, è il reddito delle persone. Anche di chi lavora. E questo indipendentemente da come questo reddito sia costruito. Lo ha capito benissimo anche Trump che, nonostante la ripresa del lavoro ottenuta sotto Obama, ha vinto le elezioni anche su questo.

Il referendum sui voucher così come sarebbe stato quello sull’art. 18 è permeato da una cultura sindacale profondamente nordista che vede il lavoro e le sue regole come erano state concepite nel 900. Ovviamente per chi quelle regole poteva dettarle o contribuire a scriverle.

È una cultura lontana dai problemi reali di chi il lavoro non lo trova, di chi lo trova solo in nero, di chi, pur trovandolo, deve restituire parte del suo guadagno al caporale di turno, da chi vive con la pensione di qualcun altro, di chi deve emigrare.

Sul reddito di cittadinanza condivido le tesi di Ricolfi sulla sua impossibile realizzazione però è indubbio che ha un potere semplificatorio e di attrazione di cui occorre tenere conto.

Il referendum e il dibattito che lo accompagnerà scoprirà inevitabilmente questo vaso di Pandora. E la CGIL non aprirà una nuova stagione all’insegna dei diritti da riconquistare. Abbasserà solo il ponte levatoio consentendo a chiunque di infilarsi con la propria demagogia.

Come si fa a non accorgersi che il disagio sociale ha già preso altre strade sul piano politico inseguendo altri pifferai e non lo si recupera più richiudendosi in parole e slogan che non scaldano più i cuori da tempo neanche dei militanti più stretti ma, al contrario, accettando la sfida del cambiamento?

Occorre stabilire alcune priorità, condividerle nel movimento sindacale ma individuare anche i luoghi del confronto e della proposta con le organizzazioni datoriali prima che sia troppo tardi. E la CGIL oggi ha un dovere in più rispetto allo stato di difficoltà strategica in cui versano altri sindacati. Oggi soli non si va da nessuna parte.

Per questo, ad esempio, non capisco il silenzio di Landini sulla vicenda FCA. FIM e UILM si sono pronunciate. Così come la solita sinistra dei salotti televisivi tutta soddisfatta delle accuse all’arcinemico Marchionne.

La FIOM non può stare in mezzo al guado. Il nostro PIL, giusto o sbagliato, è trascinato dalle vendite delle auto FCA, se c’è una possibilità di ripresa dobbiamo assolutamente consolidarla soprattutto in questo momento di incertezza.

Se di fronte alla prima prova di unità il sindacato dei metalmeccanici anziché reagire come i colleghi della IG metall in difesa dell’industria nazionale si smarca, non la vedo molto bene. Voucher e FCA sono due facce della stessa medaglia.

Ognuno evidentemente è libero di scegliere di andare nella direzione che crede. Ma un vero segnale di cambiamento passa da come il più importante sindacato italiano ricostruisce un tessuto unitario e propositivo e uno dei suoi più importanti sindacati di categoria reagisce di fronte alla delegittimazione della principale industria italiana.

Ed è su questo che si misura la qualità dei gruppi dirigenti. Non è tempo, questo, di né né.

Il futuro non si attende. Si fa.

“Employability” è la parola chiave. Potrà aprire molte porte. La traduco subito per evitare che Landini ci veda subito una fregatura: impiegabilità. È, in concreto, l’unica opzione possibile nel mondo del lavoro di oggi, ma soprattutto di domani.

Necessita innanzitutto di una convinta responsabilità personale corroborata da strumenti e opportunità definite dalle leggi o dai contratti. Nel recente contratto del metalmeccanici le parti hanno concordato attraverso il diritto individuale alla formazione un primo strumento fondamentale. L’importanza di questa intuizione va ben oltre il testo contrattuale. È però il primo passo nella direzione giusta.

In un mondo globalizzato il lavoro e i suoi diritti collegati non si possono tutelare astrattamente. Capitale e lavoro si muovono con spazi e logiche diverse. Pensare che possano valere le regole del 900 quando il lavoro a tempo indeterminato era la regola e quando il lavoro si svolgeva sostanzialmente in una o poche aziende è una illusione che rischia di costare molto cara ad una intera generazione.

Se alziamo lo sguardo da qui a dieci anni il lavoro prevalente sarà profondamente diverso da oggi. Meno lavoro a tempo indeterminato nelle forme oggi conosciute e più lavoro autonomo in forme che già oggi si stanno delineando nel resto del mondo. Un confine destinato a diventare sempre meno netto.

Il lavoro operaio stesso cambierà profondamente. Sia verso l’alto dove l’uso di macchinari sempre più complessi imporrà titoli di studio e continue specializzazioni sia verso il basso dove dove la concorrenza sul costo del lavoro metterà sempre più a rischio le tutele tradizionali.

I luoghi del lavoro, la sua durata giornaliera, le competenze per mantenerlo o per cambiarlo saranno profondamente diversi rispetto ad oggi. E se il lavoro si dovrà cercare con maggiore frequenza, mantenere con professionalità forti e aggiornate, gestire nelle fasi di transizione, le politiche attive saranno fondamentali. Soprattutto davanti al rischio di una ripresa di sviluppo senza ripresa occupazionale.

Il futuro non si aspetta. Si fa.

Su queste nuove traiettorie ci si può impegnare ciascuno per la propria parte (sindacati, imprese, studiosi della materia) oppure si può attendere e subirle. E, nel frattempo parlare d’altro.

Ma dietro il futuro del lavoro non c’è solo il destino di una generazione. C’è in gioco il ruolo dei contratti, delle organizzazioni di rappresentanza, l’evoluzione stessa dei sistemi formativi, della scuola, del welfare vecchio e nuovo, delle politiche del lavoro.

Di tutto questo, oggi, c’è poco all’ordine del giorno. Ci sono opinioni, studi, segnali ma non c’è una volontà comune che punta decisa in quella direzione. Per questo il rinnovo del contratto dei metalmeccanici ha dato un segnale importante che non va sottovalutato. Né fatto fallire.

Sarebbe deprimente dover discutere e duellare per un anno sul tema dei voucher trasformati in una sorta di Fort Alamo del 900 pur sapendo che nulla hanno a che fare con il contesto tracciato sopra.

Una cosa è certa e il rinnovo del contratto dei metalmeccanici ne è la dimostrazione plastica. Non c’è aria per battaglie ideologiche nel Paese. Né di rivincite per minoranze di Partito. C’è una precisa volontà di delegittimazione della Politica e delle Istituzioni. E i soggetti preposti a realizzare questo obiettivo sono già in campo.

Non saranno i voucher a spostare consenso. Anzi. Il punto vero è che nel furore di questa battaglia di retroguardia si rischia di non capire che il resto del lavoro si modellerà da solo sui rapporti di forza imposti dalla competizione globale.

La durata dell’orario di lavoro. Solo una convenzione del 900?

Otto ore di lavoro, otto per vivere e otto per riposare sono stati un obiettivo per molti anni nel secolo scorso del movimento operaio e sindacale. Una volta raggiunto, si è tradotto nelle leggi e nei contratti diventando un riferimento per tutti. Una convenzione, appunto, accettata da tutti.

Sopra questo limite c’è il lavoro straordinario, sotto il part time. Per molti lavori è ancora così. Per altri, i nastri orari e una diversa distribuzione dell’orario settimanale dovuta ad esigenze di ottimizzazione degli impianti o di servizio, hanno abbassato quella soglia.

A questo schema nato e cresciuto nell’era fordista si sono aggiunti ferie, permessi e quant’altro che, pur rappresentando legittime conquiste, accentuano il divario tra le ore potenzialmente lavorabili in un anno e le ore effettivamente lavorate.

Questo, ovviamente, per tutti quei lavori dove è l’ora di lavoro che può rappresentare un indicatore convenzionale accettato da tutti. Per altri è la prestazione in sé, la realizzazione o meno di uno o più obiettivi concordati a stabilire la quantità di tempo necessario al loro raggiungimento.

Quindi, in questi caso, le cosiddette otto ore sono solo un indicatore formale di riferimento ma non hanno nessun legame con la retribuzione o il tempo di lavoro. E, tutto questo, senza voler entrare nel merito del lavoro autonomo o professionistico dove l’indicatore orario è decisamente fuori luogo.

È del tutto evidente che se l’organizzazione aziendale cambia sia in termini qualitativi che quantitativi anche grazie alla introduzione di tecnologia o di innovazioni organizzative una tradizionale distribuzione dell’orario di lavoro produce inevitabilmente esuberi a meno che non si intervenga introducendo nuove attività supportandole con formazione adeguata e non si attivino politiche attive in grado di gestire le transizioni tra un posto e l’altro.

Ma queste politiche che, nel nostro Paese, a differenza che altrove, si configurerebbero già come risposte innovative e assolutamente necessarie non sono in grado, da sole, di rispondere a ciò che, la crisi da un lato e, l’innovazione tecnologica e organizzativa dall’altro, mettono già oggi a disposizione delle imprese.

Quindi la riflessione dovrebbe andare oltre e provare a comprendere la necessità stessa di alcune tipologie di luoghi di lavoro, il tempo e le risorse economiche che occorrono per raggiungerlo, le modalità di esecuzione e, di conseguenza, il tempo necessario al suo svolgimento e infine il suo corrispettivo economico.

Contemporaneamente occorrerebbe ragionare sugli eventuali recuperi di produttività e su come redistribuirli uscendo, però, da una logica fordista. Ovviamente tutto questo porta a ulteriori riflessioni sulla tipologia dei contratti, sul ruolo delle organizzazioni di rappresentanza e sulla loro prospettiva.

Giuseppe Sabella, sempre molto attento alle dinamiche del lavoro, ha scritto recentemente dell’esperienza emiliana a cui sta lavorando il giurista Piergiovanni Alleva. Al di là del caso specifico non sono molto convinto che quella sia la strada giusta. In altri termini temo che parlare del lavoro che c’è e su come distribuirlo su più teste non porti da nessuna parte. Non si esce dal paradigma fordista e quindi ci si blocca davanti alla entità dello scambio e a chi ne deve sopportare i costi.

Nel mercato globale le nostre imprese sono parte di filiere internazionali, ne condividono le strategie e ne subiscono i vincoli. Difficilmente li condizionano. E, in questi vincoli, il lavoro, se affrontato in modo tradizionale, è destinato a subirne le conseguenze in termini di quantità, qualità, costo e remunerazione. Addirittura di localizzazione. Sono gli stessi contratti di fornitura o di subfornitura che producono quei vincoli sempre più difficili da eludere.

E da questa situazione non se ne esce rivendicando una specificità nazionale  ma solo cercando di ridisegnare e innovare i modelli organizzativi e la qualità del lavoro. Tra l’altro il recente contratto dei metalmeccanici e il piano Calenda possono dare un aiuto importante nell’evoluzione di questa nuova cultura.

La CGIL tra referendum, grillini e congresso..

Com’è nel suo stile sempre attento e puntuale, Dario Di Vico sul Corriere non si è lasciato sfuggire lo scontro, aperto da un incauto intervento dell’on. Di Maio sulla vicenda Almaviva, tra grillini e CGIL.

Uno scontro che era inevitabile accadesse. La vittoria del NO al referendum ha avuto due vincitori indiscussi e ne ha rilanciato le rispettive ambizioni. Sul versante politico, il M5S, e, sul versante sociale, la CGIL. Ma questa divisione (politico e sociale) rischia di non avere più senso in una fase di grande debolezza della politica tradizionale.

I confini sono, di fatto, saltati. Non è un caso che i grillini rilanciano la loro proposta di reddito di cittadinanza mentre la CGIL si appresta ad una difesa orgogliosa e militante dei contenuti alla base del prossimo referendum. Quindi i due terreni si sovrappongono con tutti i rischi del caso.

Per il movimento 5 stelle la disintermediazione è nel DNA. Non è, come per Renzi, un modo per snobbare i sindacati. Non sono semplicemente previsti nel loro modello culturale e sociale. La “rete” non li prevede. Quindi, prima o poi, lo scontro sarebbe stato comunque inevitabile.

La CGIL ha dalla sua una lunga esperienza di scontro sia con Cisl e Uil che, alla sua sinistra con le innumerevoli sigle che hanno occupato negli anni la micronesia dell’estremismo sindacale e sociale ma sa che non è sufficiente difendersi o agitare slogan. Un sindacato deve sottoscrivere accordi, saper mediare, portare risultati.

Sul referendum costituzionale il sindacato di Susanna Camusso si è mosso con estrema cautela evitando di sconfinare dal merito. E questo ha pagato. Inoltre ha ricucito con CISL e UIL e sottoscritto con grande convinzione importanti accordi con le organizzazioni datoriali. Sicuramente ha prodotto più risultati di chi l’ha preceduta. E questo senza dimenticare l’importante riposizionamento della FIOM.

Il referendum e tutto quello che ragionevolmente verrà messo in campo per evitarlo va, anch’esso, nella direzione di rafforzare il ruolo sociale ma anche politico della Cgil. Se così sarà tanti frettolosi censori della gestione di Susanna Camusso dovranno rivedere giudizi e analisi spesso ingenerose.

Per i grillini, dopo la vittoria politica sul NO al referendum istituzionale, uno scontro sul referendum proposto dalla CGIL rappresenterebbe una manna inaspettata. Troppe incertezze alla guida di alcune amministrazioni cittadine, troppe fazioni e troppi proclami. Uno scontro vinto in partenza è quello che ci vuole.

Sapendo che, così come l’opinione pubblica si è già scordata dei promotori del referendum istituzionale, si scorderebbe altrettanto velocemente della CGIL come promotrice del nuovo appuntamento referendario. Per come è posto si trasformerà in un potente sfogatoio contro il sistema dove il merito sarà del tutto secondario.

Per questo la CGIL alza i toni. Chiamare i voucher “pizzini” e trasformarli nel male assoluto ha come unico scopo quello di alzare il prezzo della mediazione. La CGIL sa benissimo che la strada del negoziato con il Governo insieme a CISL e UIL è l’unica praticabile. Così come non sono un caso gli ormai quotidiani appelli alla ragionevolezza degli altri due sindacati.

Ora la parola passa alla Corte Costituzionale che valuterà se la materia dei quesiti referendari e materia che può essere sottoposta a referendum abrogativo. È chiaro che, in entrambi i casi, i grillini cercheranno di portare acqua al loro mulino.

È però la Cgil che deve scegliere. Nei metalmeccanici la FIOM ha scelto di guardare avanti insieme a FIM e UILM e a FEDERMECCANICA, lasciando per strada gli ex amici della estrema sinistra sociale. E i risultati tra i lavoratori hanno dimostrato che è stata una scelta giusta e condivisa.

Adesso tocca alla CGIL trovare le mediazioni, individuare gli interlocutori e, con essi, la strategia tradizionale o innovativa da proporre al prossimo congresso. Un impegno non da poco.

Disconnettersi o connettersi con il futuro del lavoro?

Dopo il CV anonimo proposto per evitare discriminazioni nelle assunzioni la Francia procede con una nuova legge sul “diritto alla disconnessione” entrata in vigore dal 1 gennaio 2017.

Una legge voluta dalla Ministra del Lavoro Miryam El Khomri che obbliga le aziende con oltre 50 dipendenti a stabilire, con i propri collaboratori, delle regole per consentire loro il diritto di ignorare email, messaggi o SMS aziendali fuori dall’orario di lavoro.

Non è chiaro però come verrà effettivamente attuata. Quello che è certo è che, in mancanza di accordo tra le parti coinvolte le aziende sarebbero tenute a comunicare esplicitamente cosa verrà chiesto ai dipendenti al di fuori dell’orario di lavoro.

Le nuove tecnologie portano con sé una modifica sostanziale del luogo, del tempo, del contenuto e delle modalità di effettuazione di molti lavori. Pensare di riportare tutto dentro leggi e contratti costruiti nel novecento è sinceramente assurdo. In Italia nella vecchia cultura aziendale industriale il tempo passato sul posto di lavoro era un elemento di valutazione positiva del collaboratore.

Chi faceva gli “straordinari” era giudicato un leale e fedele collaboratore. Poi via via negli anni, agli straordinari “pagati”, nel rispetto del contratto nazionale, si sono sostituiti indennità omnicomprensive, superminimi, reperibilità, gettoni di presenza, ecc. con l’obiettivo di forfetizzarne il pagamento sganciandolo così dalle ore effettivamente effettuate in più o in meno. I vecchi “straordinari”, pagati ad ore, sono rimasti (ancora oggi) solo ai livelli più bassi dell’inquadramento professionale. E, in molte situazioni, se vogliamo dirla tutta, solo per i lavoratori con contratto a tempo indeterminato.

Per tutti gli altri, in molti casi, gli straordinari pagati sono, piano piano, scomparsi. Sono però rimaste le prestazioni oltre l’orario. La tecnologia ha fatto il resto rendendo il proprio impegno aziendale sostanzialmente ininterrotto.

Prima ritenuta un benefit e quindi uno status symbol esclusivo la tecnologia si è trasformata, in alcuni casi, in un’ossessione per molti. In Germania, in diverse aziende, ad una certa ora, viene tagliata la connessione, in altre aziende le mail, oltre un certo orario, vengono cancellate. Forse basterebbe un po’ di buon senso e di maggiore capacità di organizzare il proprio e l’altrui lavoro.

Funzionerebbe in Italia una legge come quella francese? Personalmente credo di no. Non c’è ancora una cultura adeguata in molte aziende. I rapporti interpersonali, anche a certi livelli, non sono paritari. Il capo “democratico” esiste fino ad un certo punto come sa bene chiunque si è trovato in situazioni concrete di disagio.

E se il capo non sa gestire i collaboratori, li tiene inchiodati alla scrivania fino a tardi o pensa che sia assolutamente legittimo gestirli “a chiamata” come e quando vuole, non c’è legge che tenga. Meglio cambiare il capo.

In genere non sono mai le aziende in quanto tali a pretendere determinati comportamenti. Quindi nascono e si diffondono per precise manie di alcuni responsabili o per loro difficoltà a gestire picchi di attività e coinvolgere i propri interlocutori solo in orari decorosi.

Non è un caso che quando una persona non è all’altezza della posizione che occupa scarica sui collaboratori responsabilità, tensioni e stress. Figuriamoci se può intensificare la “tortura” ben oltre il raggio della scrivania! Personalmente più che una legge che rischia di non essere applicabile o di portare con sé reazioni e conseguenze negative in contesti organizzativi complessi opterei per delle regole aziendali da comunicare all’atto dell’assegnazione del cellulare o del pc.

Come per l’auto aziendale. Se è a totale disposizione della persona il suo utilizzo dovrebbe valere in entrambe le direzioni. E quindi, come prevede la legge francese, stabilirei un elenco ragionato di opzioni di chiamata oltre l’orario di lavoro. Così come sul posto di lavoro bilancerei il diritto a non essere controllato a distanza con un altrettanto modesto utilizzo personale degli strumenti tecnologici messi a disposizione dall’azienda durante l’orario di lavoro. Viceversa se il telefono, ad esempio, è di esclusivo uso aziendale, non ha senso il suo utilizzo fuori dal normale orario di lavoro se non per motivi estremamente seri. Ma questi restano interventi utili solo se ci si concentra sul breve.

Il punto però è che la tecnologia mette e metterà sempre più a disposizione sistemi che amplificano la produttività individuale e di gruppo, che superano sempre più il confine tra tempo di lavoro e tempo da dedicare a se stessi o ai propri cari, che mantengono perennemente connesse le persone tra di loro e, inevitabilmente, ne consentono però un controllo molto più accurato sulla loro attività.

Questo implica un forte salto di qualità culturale innanzitutto nei modelli organizzativi aziendali che dovranno essere più aperti e coinvolgenti e quindi nella gestione dei collaboratori, soprattutto dai millenials in avanti ma anche nella progettazione dei luoghi di lavoro che già oggi sono sempre meno simili a quelli tradizionali.

In questo senso più che una legge che, di fatto, cerca di stabilire regole facilmente aggirabili da chiunque occorrerebbe riflettere e lavorare su come rendere meno novecentesco il lavoro.

I confini tra lavoro tradizionale e lavoro autonomo, tra tempo di lavoro e tempo per sé, la sua durata, il suo riconoscimento, il suo inquadramento, i modelli formativi necessari, le politiche attive, il welfare vecchio e nuovo, il tempo perso per andare e per tornare dal lavoro, la necessità o meno dei tradizionali luoghi di lavoro, le forme di coinvolgimento e di partecipazione agli obiettivi e ai risultati aziendali.

Su questo siamo veramente indietro tutti troppi occupati a pensare a come ci si difende nei territori noti (da entrambe le parti) e non come esplorare insieme le opportunità offerte dal mondo che ci si sta aprendo di fronte.

Il difficile rapporto tra imprese e giovani..

Ferruccio de Bortoli chiede, in un interessante intervento sul Corriere, una maggiore generosità delle imprese nei confronti dei giovani e fatica a comprendere come mai qualsiasi strumento proposto per favorirne l’occupazione viene utilizzato quasi esclusivamente per ridurre il costo del lavoro.

È stato così, a suo tempo, con i CFL (contratti di formazione lavoro), poi con gli stages, con i voucher e, infine, anche con i contratti di apprendistato. Le stesse grandi operazioni di “svecchiamento” messe in atto soprattutto dalle grandi imprese di stampo fordista (non solo industriali) dove le sostituzioni erano anch’esse comunque dovute alla necessità di contenere i costi, si sono fermate con la crisi.

Il costo del lavoro e il suo contenimento hanno indubbiamente caratterizzato la vita della stragrande maggioranza delle imprese almeno negli ultimi trent’anni.

Ma anche nel pubblico impiego e nelle professioni ordinistiche non è andata molto diversamente. Aggiungo che, in molte multinazionali intorno agli anni 90, si poteva diventare dirigenti prima dei 35 anni. Oggi non è più così. Si diventa dirigenti più tardi quindi si cresce più lentamente e si cambia lavoro con meno frequenza.

È evidente che un meccanismo si è inceppato e i primi a pagarne le conseguenze sono coloro i quali non riescono a proporsi alle imprese ed avere una chance di partenza.

Questa cultura si è poi consolidata con la crisi e non la si modifica solo chiedendo una maggiore generosità agli imprenditori. Purtroppo non basta.

Spesso si ha un’idea stereotipata dell’imprenditore o del manager impegnati a gestire un’azienda o una filiale italiana di una multinazionale.

Chi gestisce un’impresa sia esso il proprietario o un dirigente in realtà è solo. Deve garantire risultati certi e misurabili. Deve saper guardare lontano, motivare risorse, scelte e decisioni ma senza dimenticare che verrà misurato sul budget (se va bene dell’anno) e sui suoi scostamenti.

Il futuro della propria organizzazione non passa solo attraverso l’innovazione tecnologica, nuove idee e i conseguenti processi di cambiamento da mettere in atto ma soprattutto dalla capacità di ingaggiare i propri collaboratori formandoli, motivandoli, valorizzandone il contributo, premiandone l’impegno e la condivisione dei valori dell’impresa e delle sue strategie. E quindi anche dalla volontà e dalla capacità dei collaboratori di accettare questa sfida.

L’azienda è cambiata. Non è più la “mamma” di un tempo disposta a scambiare la fedeltà con la sicurezza del posto di lavoro. L’azienda, sempre più, tende e tenderà a proporre a ciascun collaboratore un patto che non è destinato a durare necessariamente per sempre ma solo fino a quando i contraenti saranno in grado di scambiare qualcosa di professionalmente utile ad entrambi.

Per questo se si vuole offrire opportunità ai giovani occorrerebbe operare su più piani. Innanzitutto limitando gli stage al post diploma o durante il percorso universitario. E questo implica un rapporto diverso, nel territorio, tra imprese e mondo della scuola.

Poi andrebbe costruito un modello di apprendistato senza oneri economici e organizzativi per le imprese ma con un sistema trasparente di valutazione dei comportamenti dell’apprendista e dell’azienda che lo ha preso in carico tale da premiare i comportamenti virtuosi o disincentivare le furbizie di imprenditori scorretti. Un sistema tipo trip advisor (ad esempio).

Infine occorrerebbe finanziare tutte quelle iniziative delle imprese volte a costruire vivai, percorsi di carriera nazionali o internazionali per under 35, valorizzazione dei talenti, staffette generazionali, ecc. Però non basta lavorare sul versante delle imprese.

Occorre passare messaggi corretti ai giovani. Innanzitutto su cos’è oggi il mercato del lavoro. Sulla sua qualità ma anche sulla sua inevitabile dimensione planetaria.

Quindi sulle conseguenze che determinate quanto legittime scelte personali possono determinare sul loro futuro. Un esempio. Se in Italia abbiamo 14 facoltà di veterinaria e in Germania solo 3 forse dovremmo suggerire ai futuri aspiranti veterinari di imparare il tedesco perché solo lì potranno trovare lavoro. E questo vale in molti altri casi.

Sperare di trovare il lavoro che piace sotto casa e alle proprie condizioni credo sia sempre più difficile. Ma questo non viene recepito dalle famiglie essenzialmente per ignoranza ma anche per opportunismo della politica, delle istituzioni scolastiche e degli ordini professionali.

Queste sono essenzialmente alcune delle ragioni per le quali chiedere un maggiore impegno agli imprenditori è utile ma non sufficiente. Le imprese, tra l’altro, oggi non assumono perché non intravedono i segnali chiari di una possibile ripresa economica.

Però è vera una cosa. Prima ci si confronta per trovare come comporre il puzzle prima saremo pronti per rimettere al centro una nuova cultura del lavoro. E se vogliamo che questo comprenda i giovani (di oggi) dovremmo farlo in fretta….

Lavoro, strumentalizzazioni e buona politica…

Tre notizie, quasi da prima pagina, che fanno discutere.

I voucher trasformati in problema prioritario e drammatico, la sentenza della Cassazione che ha ritenuto non necessario essere in presenza di una crisi aziendale, un calo di fatturato o bilanci in rosso per procedere a un licenziamento e, infine il caso Almaviva con le sue implicazioni sindacali e sociali.

Nel primo caso la preoccupazione per il probabile referendum richiesto dalla CGIL ha scatenato una campagna di disinformazione con al centro la numerosità dei voucher e una serie di abusi commessi in alcune situazioni.

Pochi riferimenti internazionali a situazioni analoghe, scarso interesse a comprendere le dinamiche e i fenomeni correlati, disinteresse quasi totale all’endemico fenomeno del lavoro nero o malavitoso in Italia. Ma, soprattutto, il tentativo di far credere che, l’eliminazione dei voucher sia in sé un elemento positivo e possa portare a forme di stabilizzazione del lavoro saltuario.

A chi serve questa pessima gestione della notizia? Non credo alla CGIL che rischia di vincere una battaglia sull’onda emotiva del post referendum ma di perdere, immediatamente dopo, la guerra.

Né, credo, all’opinione pubblica che rischia di essere inutilmente trascinata in una discussione sulla precarietà del lavoro su presupposti scorretti perdendo di vista il problema principale: il lavoro. Come si crea, come e dove lo si può trovare, come lo si mantiene, e cosa si deve fare se lo si perde. E questo non è solo un problema per addetti ai lavori.

La sentenza della Cassazione sul licenziamento è, da questo punto di vista, paradigmatica. I motivi che spingono un’azienda a ricorrere a licenziamenti individuali o collettivi sono quasi sempre riconducibili a motivazioni organizzative o gestionali.

Il fatto che, secondo alcuni, si dovrebbe attendere sempre e comunque una situazione economica di non ritorno per poter procedere, ha solo determinato la proliferazione di accordi sindacali fantasiosi e lacunosi, di “non accordi” con ampia facoltà a procedere unilateralmente da parte delle aziende, di licenziamenti “spintanei” tollerati e di incentivazioni individuali di ogni tipo.

Adesso, con un certo ritardo, la Cassazione certifica ciò che chiunque ha avuto a che fare con ristrutturazioni o riorganizzazioni sa da sempre e cioè che come sosteneva il Macchiavelli, “non si può essere di sollievo al Principe e innocui al Popolo”.

A volte occorre prendere decisioni drastiche e in tempi certi. Altrimenti il problema diventa irrisolvibile. E non servono avverbi o aggettivi  per mascherare la realtà. Purtroppo.

Infine il caso Almaviva. Nessuno spiega che, una volta aperta una procedura di mobilità, una sua eventuale interruzione rischia di invalidare la procedura stessa.

Qualche anno fa mi trovai in una situazione analoga. Durante un difficile negoziato che coinvolgeva tutta una intera rete nazionale di vendita il sindacato confederale mi chiese di recuperare una filiale al sud che, chiusa l’anno precedente, stava terminando gli ammortizzatori sociali. In questo modo gli ultimi lavoratori rimasti avrebbero guadagnato un anno di ammortizzatori arrivando così alla pensione.

Faticai a convincere i vertici della multinazionale che non capivano perché fosse necessario riaprire un capitolo chiuso da tempo però concordammo con le OOSS che, per questi ultimi, non sarebbe stato ovviamente possibile prevedere alcun trasferimento al nord essendo in grado di agganciare la pensione.

Fatto l’accordo due lavoratori, tramite un avvocato suggerito dai COBAS, lo impugnarono sostenendo che, pur essendo vicino alla pensione sarebbero stati comunque disponibili al trasferimento in qualsiasi zona del Paese.

Nessuno però glielo aveva proposto proprio perché loro stessi avevano concordato, tramite i sindacati, un’altra soluzione.

Quella vicenda, costruita in buona fede insieme alle organizzazioni confederali e con il consenso tra le parti, avrebbe purtroppo potuto finire molto peggio causando l’annullamento della procedura con costi e conseguenze gravissime.

Per questo posso capire l’atteggiamento di Almaviva e questo indipendentemente da altri argomenti di cui non ho elementi sufficienti per giudicare.

C’è stato un tempo dove era possibile trovare un’intesa. Quel tempo però si è esaurito nei tempi e nei modi previsti dalla procedura stessa. Le lettere di licenziamento ne sono solo la conseguenza inevitabile.

Tre vicende apparentemente differenti con un unico comune denominatore. Nella materia del lavoro contano solo gli elementi oggettivi. Le norme e ciò che è scritto nelle leggi e nei contratti. Il resto appartiene alle opinioni.

La “Politica” può creare le condizioni affinché le parti in campo abbiano a disposizione strumenti adatti, opzioni concrete e tempistiche certe nelle quali esercitare i rispettivi ruoli.

Oppure la politica stessa può strumentalizzare, sulla pelle dei lavoratori, prospettando soluzioni inesistenti come ha fatto l’on. Di Maio un minuto dopo la conclusione della vicenda.

Purtroppo il Paese avrebbe bisogno di buona politica e di buoni politici. E di buona informazione. Soprattutto nelle vicende sindacali.

Il futuro dei voucher è con o senza Speranza?

C’è chi ha paragonato il PD Speranza a Turigliatto, chi ha ricordato che Bersani stava con Monti quando sono stati lanciati i voucher e che il Governo Renzi, semmai, ne ha solo regolamentato l’uso. Tutto inutile.

Intorno ai voucher sembra si stia giocando lo scontro finale sull’identità della sinistra italiana.

Il merito, come sempre in questo caso, non esiste. O meglio non interessa a nessuno. Per quanto riguarda non posso che condividere le parole di Anna Soru sulla Nuvola del Corriere con le quali sottolinea il rischio che, in caso di interventi, chiaramente emotivi, si peggiori addirittura la situazione “costringendo” un massiccio ritorno al lavoro nero.

Recentemente sono stati pubblicati dei dati che è meglio conoscere prima di schierarsi. Vediamoli pacatamente.

Innanzitutto Il voucher è l’unico strumento per retribuire in modo regolare “lavori saltuari”. Non ha alternative, né possiamo davvero credere che queste attività saltuarie si coprano con assunzioni “tradizionali”.

Il suo utilizzo assicura un riconoscimento retributivo comprensivo anche del pagamento di contributi previdenziali per prestazioni saltuarie e accessorie e la copertura assicurativa INAIL.

L’utilizzo dei buoni lavoro, è aumentato perché le riforme di questi ultimi anni hanno di fatto tolto alla disponibilità’ delle imprese qualsiasi strumento regolare per pagare prestazioni accessorie.

Infine, occorre ricordare che, mediamente ogni persona, con il voucher, prende 600 euro all’anno; pensare dunque che ci sia un forte abuso generalizzato è una lettura forzata.

La stessa INPS attraverso le analisi pubblicate sul suo sito ci dice che:

1) Per la maggior parte dei prestatori di lavoro accessorio, il volume di voucher percepiti è modesto: in media nel 2015 si è trattato di 60 voucher pro capite e la mediana è decisamente inferiore: 29 voucher.

2) I lavoratori che hanno percepito più di 1.000 euro netti con voucher risultano 207.000 mentre coloro che hanno percepito meno di 500 euro risultano quasi un milione e quindi evidente che non si tratta di lavoro sostitutivo.

3) Circa il 50% dei prestatori sono lavoratori attivi con altra occupazione o percettori di ammortizzatori sociali (sono il 50% del totale stabilmente dal 2013)

Per essere più precisi sono :

– Pensionati: la loro quota risulta pari all’8%. (Tre su quattro sono pensionati di vecchiaia).

– Soggetti mai occupati: sono pari al 14% (meno di 200.000). Si tratta essenzialmente di giovani (la mediana è vent’anni).

– Silenti (ex occupati e disoccupati di lunga durata ): sono attorno al 23%.

– Indennizzati (essenzialmente percettori di Aspi, MiniAspi o Naspi): sono il 18%

– Occupati presso aziende private: sono il 29% (quasi 400.000). Tra questi si individuano:
− 26% occupati a tempo indeterminato e full time;
− 28% occupati a tempo indeterminato e part time;
− 46% occupati, soprattutto giovani, con contratti a termine subordinati

– Altri occupati: pari all’8% sono lavoratori domestici, operai agricoli, lavoratori autonomi, casse professionali, dipendenti pubblici).

Per queste ragioni possiamo affermare, senza nessuna possibilità di smentita che:
l’effetto di sostituzione di precedenti rapporti di lavoro è molto limitato e i soggetti interessati sono in maggioranza studenti, pensionati e lavoratori in regime di ammortizzatori sociali.

Questo dicono i numeri. Il resto sono strumentalizzazioni ideologiche di chi non ha argomenti veri. A mio parere il Governo deve continuare ad insistere sulla strada della tracciabilità e dei controlli per evitare usi impropri dei voucher penalizzando chi non ne fa un uso corretto.

Scegliere, al contrario, di abolirli o di ridurne fortemente l’utilizzo senza introdurre altri strumenti analoghi sarebbe solo un grave errore.

Perché difendo il “maleducato” Poletti

Non ho nessun rapporto con l’attuale ministro del lavoro né gli invidio il suo ruolo.

Sono tempi difficili e Poletti, sia chiaro, non è né Brodolini né Giugni. Da quando è al Ministero del Lavoro tutti, molto più di lui, si sono “impicciati” di lavoro mettendolo spesso in ombra.

Sopra, il Presidente del Consiglio Renzi, al Senato il Presidente della commissione lavoro Sacconi, alla Camera, Cesare Damiano. All’INPS Boeri. Senza parlare di Nannicini, ministro ombra o, al PD, il suo partito, di Taddei.

L’energia e i cervelli messi in campo sul lavoro in questi ultimi anni non hanno uguali in nessun altro dicastero. E senza la scusa della concertazione. Quindi senza l’assillo dei sindacati.

Poletti non verrà ricordato per nulla di tutto ciò che, nel bene e nel male, si è prodotto in questo periodo. Altri si prenderanno i meriti e i demeriti. Verrà forse ricordato per aver fatto il Ministro del lavoro mentre altri si occupavano alacremente di lavoro.

A lui è rimasto il compito più ingrato. Vendere i risultati. Non al Paese perché lì ci hanno pensato e provato altri. Ai media, ai tecnici e agli esperti. Mission impossible, direbbe qualcuno.

Poletti non mi piace quando strizza l’occhio sottobanco a certi personaggi della GDO favorendo, di fatto, situazioni di dumping tra imprese che operano sullo stesso mercato né quando si sbilancia troppo perdendo quel ruolo terzo che invece credo sia importante per chi si occupa di lavoro. È una materia ad alta sensibilità sociale. Troppi morti in Italia per cambiare il lavoro, troppi bersagli additati alla pubblica opinione. Troppi estremismi e troppi conservatorismi. E oggi diciamolo pure, ancora pochi risultati concreti.

Però credo che in questo Governo Poletti sia uno dei pochi esponenti con valori, idee e cultura del lavoro e della società molto più moderni e innovativi di altri ben più gettonati di lui.

Vorrei ricordare, innanzitutto a me stesso, che questo è un Governo di centro sinistra. E che se c’è una cosa che deve fare il centro sinistra è ritrovare un senso, una direzione di marcia intorno a valori condivisibili e praticabili.

il disagio sociale che è emerso con forza dal referendum lo dice chiaramente.

Quando parla Poletti non dice mai cose ovvie o scontate. Rischia quasi sempre l’autogol perché è fatto così. Dice quello che pensa. È difficile trovare, in politica, una persona che può darti la sensazione che le sue affermazioni traggano radici da convinzioni profonde, genuine. Credo siano le sue origini e il contesto nel quale è cresciuto.

Marta Fana sbaglia. Nell’articolo sull’Espresso usa una frase maleducata e fuori luogo del Ministro per addebitargli tutto ciò che è successo o non è successo in questi anni. Compreso il NO al referendum. Sarebbe tutta colpa di Poletti individuato come unico capro espiatorio di una situazione che ha ben altre cause e ben altre responsabilità.

Anziché completare il percorso iniziato con la Biagi lavorando sul nuovo concetto di lavoro e sulle politiche attive si è preferito tornare indietro illudendosi di poter ritornare a “contare” i posti di lavoro come antidoto alla mancanza di lavoro. E creare così un circolo virtuoso. Così si sono sprecate risorse importanti, si è inconsapevolmente  rilanciata una vecchia cultura del posto di lavoro come modello da perseguire ma impossibile da realizzare concretamente e, alla fine, ci si ritrova con un referendum, proposto dalla CGIL, che, se effettuato, riporterà il tema al punto di partenza in un contesto politico e sociale sempre meno disponibile all’innovazione e al cambiamento. Basti vedere la vicenda dei voucher dove nessuno ha voglia di entrare nel merito o di valutare i dati reali.

Poletti ha sbagliato a parlare di una parte dei giovani espatriati quasi fosse soddisfatto di averli persi. Ha detto una grande sciocchezza. Come Fornero sui giovani tutti choosy, Padoa Schioppa sui bamboccioni o Martone sugli sfigati. Di questi tempi basta molto meno per essere invitato a farsi da parte. Allora le polemiche sono rientrate velocemente. Spero succeda così anche questa volta.

Il Ministero del Lavoro ha da gestire partite molto delicate mei prossimi mesi. Poletti è la persona giusta? Io credo di sì. Sia per parlare con tutti i sindacati sia con quella parte del PD che nutre pericolosi sentimenti di rivincita.

Condivido che, se non dovesse aver più voglia di fare il Ministro ė giusto che si faccia da parte. Ma se così non fosse, dopo aver chiesto scusa, affronti con maggiore determinazione e presenza tutte le partite aperte.

Dimostri che il suo Ministero è in grado di ridare una rotta al lavoro. Proponga un momento di condivisione e di proposta di tutti i soggetti in campo e di tutte le proposte praticabili. Il referendum appena svolto ha determinato un reset profondo di cui bisogna tenerne conto anche sul tema lavoro.

C’è un disagio sociale che va interpretato e a cui vanno date risposte. Non insista su litanie prive di significato, oggi. Dimostri, con i fatti, la capacità di imboccare una nuova direzione di marcia.

Se così farà quello che ha detto si dimostrerà solo uno stupido quanto modesto incidente di percorso. 

The Times They Are A-Changin’ di Bob Dylan (traduzione)

 

L’ultimo libro di Daniel Goleman e Peter Senge  (A scuola di futuro, manifesto per una nuova educazione) si conclude con un aneddoto interessante.

E’ il 2012. In una scuola il gruppo di Peter Senge ha animato il lavoro di bambini in progetti che applicano il pensiero sistemico per comprendere le conseguenze delle nostre azioni su scala globale.

Il progetto presentato da una studentessa di 12 anni si riassumeva in una foto di una turbina a vento installata di fronte alla scuola.

A quel punto, avendo catturato l’attenzione di un pubblico per lo più stupefatto, la dodicenne lo ha affrontato direttamente, con tutti i suoi 30 chili di determinazione, e ha detto con calma: “spesso sentiamo che noi ragazzi «siamo il futuro».

Non siamo d’accordo. Non abbiamo tutto questo tempo. Dobbiamo cambiare le cose ora. Noi ragazzi siamo pronti, e voi?

Molti di noi, ragazzini nel 1964 e liceali nel 1968, ci sentivamo pronti. Scriveva Bob Dylan, oggi premio Nobel,  nel 1964, a 23 anni…..

I tempi stanno cambiando

Venite intorno gente
dovunque voi vagate
ed ammettete che le acque
attorno a voi stanno crescendo
ed accettate che presto
sarete inzuppati fino all’osso.

E se il tempo per voi
rappresenta qualcosa
fareste meglio ad incominciare a nuotare
o affonderete come pietre
perché i tempi stanno cambiando.

Venite scrittori e critici
che profetizzate con le vostre penne
e tenete gli occhi ben aperti
l’occasione non tornerà
e non parlate troppo presto
perché la ruota sta ancora girando
e non c’è nessuno che può dire
chi sarà scelto.

Perché il perdente adesso
sarà il vincente di domani
perché i tempi stanno cambiando.

Venite senatori, membri del congresso
per favore date importanza alla chiamata
e non rimanete sulla porta
non bloccate l’atrio
perché quello che si ferirà
sarà colui che ha cercato di impedire l’entrata
c’è una battaglia fuori
e sta infuriando.

Presto scuoterà le vostre finestre
e farà tremare i vostri muri
perché i tempi stanno cambiando.

Venite madri e padri
da ogni parte del Paese
e non criticate
quello che non potete capire
i vostri figli e le vostre figlie
sono al dì la dei vostri comandi
la vostra vecchia strada
sta rapidamente invecchiando.

Per favore andate via dalla nuova
se non potete dare una mano
perché i tempi stanno cambiando.

La linea è tracciata
La maledizione è lanciata
Il più lento adesso
Sarà il più veloce poi
Ed il presente adesso
Sarà il passato poi
L’ordine sta rapidamente
scomparendo.

Ed il primo ora
Sarà l’ultimo poi
Perché i tempi stanno cambiando.