L’inutile guerra sul “made in Italy” nella filiera agroalimentare..

  La bagarre è solo all’inizio. Da una parte Coldiretti e la “sua” Filiera Italia, dall’altra UnionFood (Confindustria) e Confagricoltura con Mediterranea. In mezzo il Governo di centro destra che pur avendo Coldiretti tra i suoi sponsor più coinvolgenti cerca di avere buoni rapporti anche con le altre due Confederazioni. La posta in gioco (in apparenza) è chi deve assumere, in commedia, la parte dello strenuo difensore del Made in Italy.

Sarà Coldiretti, quindi il settore primario da loro interpretato, a dare le carte e le patenti a tutta la filiera o toccherà all’industria agroalimentare con le “cattive” multinazionali dell’agroalimentare al seguito? Confagricoltura, da parte sua,  probabilmente si era stancata di essere tenuta ai margini da questo Esecutivo “innamorato” della concorrente   e, così, tra un “avversario” che gli sta davanti e un “nemico” che gli sta alle spalle ha scelto di stare con l’avversario. “Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei” ha tuonato Luigi Scordamaglia a nome di Filiera Italia, attaccando frontalmente Confagricoltura per la subalternità all’industria nell’operazione “Mediterranea”.

Ma di cosa stiamo parlando? Parole forti a parte, l’obiettivo dell’insolita alleanza tra Confagricoltura e Unionfood resta un altro: ridimensionare  il nemico comune: la Coldiretti. “Mediterranea”  non nasce a caso. È l’alleanza tra produttori e trasformatori agricoli promossa proprio da Confagricoltura e UnionFood in risposta a Filiera Italia, l’alleanza tra la produzione agricola con un centinaio di imprese italiane di trasformazione alimentare e diverse catene della distribuzione organizzata, creata da Coldiretti. In campo i due leader di Mediterranea. Il presidente di Confagricoltura, Massimiliano Giansanti, e il presidente di Unione Italiana Food, Paolo Barilla con l’obiettivo dichiarato di “rafforzare le filiere e la loro efficienza dal campo alla tavola e per promuovere la Dieta Mediterranea nel mondo.  Mediterranea” rappresenta una compagine del valore di 106 miliardi di euro con 650mila addetti”. In realtà l’obiettivo è regolare i conti con l’arcinemica Coldiretti.

In epoca di disintermediazione l’insieme dell’associazionismo di impresa è oggettivamente più debole. Cerca così spazio facendosi concorrenza tra associazioni più che dedicarsi ai temi comuni della filiera e a come risolverli. Il Governo parla con gli imprenditori (e con il mondo del lavoro) spesso direttamente scavalcando, se serve,  le stesse organizzazioni  di rappresentanza. Queste ultime cercano quindi di riposizionarsi. Chi schierandosi in posizione sostanzialmente filogovernativa, chi, più defilata e chi, come la CGIL tra i sindacati, decisamente all’opposizione. Tra quelle filogovernative, Coldiretti è la più determinata. Ha un rapporto privilegiato con il MASAF (Ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste) e con il Ministro Francesco Lollobrigida.

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Quanto vale (e quanto costa) un TOP CEO della Grande Distribuzione nel mondo…

pastedGraphic.pngNell’ultima Assemblea Generale Carrefour ad Aubervilliers (Seine-Saint -Denis), venerdì 24 maggio, tra i vari punti all’ordine del giorno, c’era anche la definizione del compenso del CEO. Un argomento che scatena appassionate quanto inutili discussioni tra chi si indigna per le cifre e chi sa che a certi livelli gli elementi che compongono il compenso tengono conto di una serie di fattori complessi legati al mercato e al valore dell’azienda che rendono inutili le discussioni stesse. Prendere posizione è però facile come “sparare sulla croce rossa”. Occasione d’oro anche per i rappresentanti dei due sindacati francesi CGT e CFDT presenti in sala.

Decisi a disturbare Alexandre Bompard hanno scatenato una bagarre con canti, slogan, invettive e hanno chiesto a gran voce  “aumenti salariali per i lavoratori e non vantaggi per gli azionisti”. C’è da ricordare che in  Francia queste contestazioni non rappresentano una novità particolare  anche perché i sindacati sono tradizionalmente presenti alle assemblee  e hanno l’opportunità di parlare. I sindacalisti  francesi, hanno contestato l’approvazione del pacchetto retributivo del CEO la cui corresponsione  è stata poi approvata dal 70% degli azionisti per ciò che riguardava la chiusura del 2023 e dal 93% per la proposta per  il 2024, un gradimento, va sottolineato,    molto più alto rispetto all’anno scorso approvato solo dal 56%. Il 70% degli azionisti ha quindi approvato la “retribuzione e i benefit collegati” di Alexandre Bompard.

La quota fissa (1,6 milioni di euro) non cambia, ma la parte variabile, potrebbe arrivare fino al 190% del fisso, calcolata in base a sei criteri (fatturato, risultato operativo corrente, free cash flow, qualità della governance, relative strength Index (RSI) e net promoter score (NPS). Ovvero un totale di 4,5 milioni di euro a cui si aggiunge una quota di remunerazione a lungo termine pari al 55% della retribuzione complessiva massima (5,3 milioni di euro). Un pacchetto retributivo in linea con i top CEO world wide.

Nella classifica delle 250 aziende più importanti per fatturato della GDO mondiale le europee sfiorano il 35%. I Paesi più rappresentati sono Germania (17 aziende), Regno Unito (19) e Francia (12). I CEO in grado di competere per guidare le principali realtà del comparto sono “merce” rarissima. Come peraltro  in tutti i comparti economici. I migliori sono contesi come i top player del calcio. Sfilare Rami Baitiéh CEO di Carrefour France per portarlo a Morrison o Tony Hoggett  da Tesco o Claire Peters da Woolies (Woolworths) in Australia entrambi in direzione Amazon, ad esempio, sono state operazioni che hanno creato vuoti importanti nelle imprese da dove sono usciti. Leggi tutto “Quanto vale (e quanto costa) un TOP CEO della Grande Distribuzione nel mondo…”

Giovanni Arena. Un potenziale interprete “predestinato” del futuro della Grande Distribuzione

Ho aspettato qualche giorno prima di proporre le mie riflessioni sulla nomina a Cavaliere del Lavoro, da parte del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, di Giovanni Arena un  imprenditore della GDO nazionale oltreché siciliana. Un riconoscimento importante, il cavalierato,  istituito da Vittorio Emanuele III nel 1901 per valorizzare i protagonisti del mondo del lavoro distintisi per spirito di iniziativa, coraggio e intelligenza imprenditoriale. Ovviamente mi unisco ai complimenti per la scelta e per la persona.

Giovanni Arena  Amministratore Delegato e Direttore Generale del Gruppo omonimo, è riuscito a creare valore nel passaggio generazionale, vero punto debole dell’intera  GDO, al nord come al sud, trasformando un’eredità familiare in una realtà   importante e riconosciuta della distribuzione organizzata non solo in Sicilia. Ovviamente insieme alla sua famiglia e alla sua squadra. Impegnato in diversi ruoli nella Fratelli Arena S.r.l., fondata nel 1976 e con radici che risalgono al 1922, oggi occupa più di 3.300 addetti, conta quasi 200 punti vendita presenti in tutte le province siciliane e in quella di Reggio Calabria ed opera con le insegne Iperstore Decò, Superstore Decò, Maxistore Decò, Supermercati Decò, Gourmet Decò, Local Decò e SuperConveniente. La realtà imprenditoriale più importante della grande distribuzione, in Sicilia e non solo con oltre 1 miliardo di fatturato. Nel 2022 ha istituito la Fondazione Gruppo Arena, con iniziative nella solidarietà alimentare e nel campo culturale, sociale ed educativo.

“Per me è un grande orgoglio ricevere questo grande e meritato riconoscimento, ma che devo sicuramente a tutta la mia famiglia, a tutto il mio gruppo di lavoro, dai manager a tutti i miei collaboratori”. Ha commentato il neo Cavaliere che ha anche aggiunto: “Si può fare impresa anche in Sicilia stando all’interno delle regole e dei sani principi, facendo crescere, oltre che la propria azienda, anche il territorio”.

Socio di Confcommercio Caltanissetta-Enna da sempre, nel 2010, a soli 32 anni è stato nominato presidente dal direttivo regionale siciliano di Confcommercio. Attivo e intraprendente fin da giovanissimo sempre con uno sguardo attento all’associazionismo di categoria. AD e DG del Gruppo Arena, nonché Presidente di Gruppo VéGé. Non elenco i numerosi riconoscimenti in Sicilia e nel Paese che ne caratterizzano il percorso imprenditoriale  e il profilo personale. Come si dice in gergo calcistico: un “predestinato”. Fin qui, dunque, ciò che ha fatto e che tutti hanno giustamente sottolineato. Leggi tutto “Giovanni Arena. Un potenziale interprete “predestinato” del futuro della Grande Distribuzione”

Bennet. La strategia del gambero….

Camminare all’indietro può sembrare strano. Alcuni animali lo fanno per diversi motivi. Per guardarsi  alle spalle, per difendersi dai pericoli  o per avere una migliore visuale. I gamberi sembrano camminare all’indietro.  In realtà non è così. Sono in grado di compiere movimenti differenti. In caso di pericolo, hanno la capacità di fare un balzo indietro, come se in realtà camminassero verso quella direzione.  Tuttavia, scampato il pericolo, i crostacei ritornano a muoversi normalmente; ma tra le loro capacità resta, senza dubbio, quella di potersi spostare con facilità in ogni direzione.

Bennet credo abbia scelto la strategia del gambero. Più che accollarsi costosi quanto problematici rilanci commerciali delle grandi superfici, inseguire nuovi formati distributivi sul loro terreno, ingaggiare manager profeti del  “ghe pensi mi”, sta ricentrando il proprio business ripiegando verso i suoi territori di elezione, mantenendo le importanti proprietà immobiliari  e cedendo le attività che non ritiene remunerative né rilanciabili in tempi ragionevoli. Nell’estate del 2019, quando acquistò tre punti vendita ex Auchan da Margherita distribuzione (Nerviano, Cesano Boscone e lo store di Viale Monza a Milano) mi ero convinto che avessero individuato, come Iper La Grande I,   la ricetta segreta per governare la crisi delle grandi superfici. In effetti i suoi punti vendita sembravano tenere testa ai concorrenti. Anche  per questo, credo,  si erano ottimisticamente accomodati al tavolo di Margherita Distribuzione rivendicando  una porzione dello spezzatino di Auchan in smobilitazione. 

Dei tre retailer medi lombardi  dotati di  un loro specifico DNA territoriale, la varesotta Tigros, la valtellinese Iperal e la comasca Bennet, è solo quest’ultima che ha deciso di premere il freno cercando di “tirare il fiato” e ripiegando su un perimetro commerciale meno turbolento e cercando di mettere a reddito  gli spazi che si vanno liberando di sua proprietà.  Le prime due, puntano decise ad insidiare la rendita di posizione di Esselunga in Lombardia. Ne hanno intuito l’affanno,  e quindi provano a marciare con una manovra a tenaglia sulla provincia di  Milano con punti vendita di grande qualità e sfruttando, dall’altro lato, l’analoga avanzata dei discount che costringe l’azienda di Pioltello a torsioni organizzative e di business particolarmente complesse sul piano delle scelte commerciali e dei costi. E ne stanno approfittando. Bennet, no.  La strategia del gambero impone altre mosse. Adriano De Zordi, il CEO, è uomo di numeri. Difficile eccitarlo con le fantasie dei colleghi commerciali. In Bennet si è sempre occupato di conti con l’incarico evidente  di farli tornare. Conosce l’azienda meglio delle sue tasche. Non è un caso che la “ritirata strategica” è stato accompagnata da cambiamenti manageriali in ovvia sintonia con il riposizionamento.
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LIDL a Verona va a caccia di record…

L’innovazione ha molte facce. Le tre più significative, quella Tecnologica, quella ambientale e quella sociale sono destinate ad accompagnare le traiettorie commerciali delle migliori realtà della distribuzione moderna dalla logistica al cliente finale. In sintonia con il motto “In cammino verso il domani” Lidl, non solo in Italia,  sta cercando di costruire il suo percorso attraverso una filosofia precisa e comportamenti coerenti con l’obiettivo di contribuire a “preservare gli ecosistemi, garantire standard sociali nelle catene di approvvigionamento e promuovere il consumo sostenibile”. In Germania Lidl si è impegnata per una gestione sostenibile dell’acqua in agricoltura: entro febbraio 2026 il 100% del suo assortimento di frutta e verdura proveniente da nove paesi a rischio sarà certificato secondo standard idrici riconosciuti. I paesi includono Spagna, Egitto, Grecia e Italia.

Ritornando da noi, è interessante notare come,  una città di medie dimensioni come Verona si palesi come un crocevia di sperimentazioni nella GDO. Dopo Dao Conad che ha inaugurato, proprio nella città scaligera, il suo primo punto vendita senza casse dimostrando la vitalità e la flessibilità di quel mondo, la proposta di Lidl non è da meno sul tema della  sostenibilità. Apre quindi il nuovo Lidl a Villafranca di Verona: il supermercato più sostenibile mai realizzato dall’insegna in Italia le cui caratteristiche lo differenziano da tutti gli oltre 12.200 supermercati Lidl nel mondo ed è stato ideato e realizzato in Italia in stretta collaborazione con la Casa Madre. Un test che farà strada. Non solo il balcone di Giulietta, l’Arena e la Fiera. Adesso ci sono almeno due buoni motivi, per chi si occupa di GDO, per visitare la città.

Per capire la traiettoria dell’azienda tedesca occorre partire dalla sua strategia globale: “Il nostro obiettivo di responsabilità sociale d’impresa è fornire un ambiente sicuro e stimolante per i nostri dipendenti, contribuire positivamente alle comunità in cui operiamo ed essere buoni amministratori dell’ambiente”. Il nuovo Lidl di Villafranca sostituisce lo storico punto vendita  presente nella città  dal 1992. Uno dei primi punti vendita aperti nell’anno del suo arrivo in Italia. In contemporanea con Verona, Lidl apre  a Caltanissetta, Cesano Maderno (MB), Paullo (MI).

Il nuovo supermercato veronese presenta un’area vendita di oltre 1.300 mq ed è stato realizzato con grande attenzione all’ambiente e all’efficienza energetica. L’insegna ha costruito questo nuovo store a consumo di suolo zero riqualificando un’area dismessa dove sorgeva in precedenza una concessionaria di auto. L’edificio rientra in classe energetica A4, è dotato di ampie vetrate per favorire la luminosità naturale e dispone di un impianto fotovoltaico da 575.000 kWh/anno – corrispondenti al consumo di oltre 230 abitazioni. la struttura portante è costruita in legno proveniente da foreste gestite in modo sostenibile e certificate PEFC. Grazie al suo impiego è stato evitato l’utilizzo di 1.650 tonnellate di calcestruzzo. Il punto vendita dispone di un sistema di recupero dell’acqua piovana per uso irriguo che impiega cisterne sotterranee di raccolta. Tali cisterne alimentano il sistema di irrigazione dell’area verde consentendo una riduzione del 65% del prelievo da rete idrica. Anche l’acqua piovana che cade sul piazzale filtra lentamente nel terreno attraverso un apposito sistema drenante. Leggi tutto “LIDL a Verona va a caccia di record…”

Grande Distribuzione e infiltrazioni della criminalità organizzata..

Ben cinquantaquattro anni fa  Leonardo Sciascia spiegò a Giampaolo Pansa “la teoria della palma” per indicare l’espansione della mafia al Nord.  Era l’ottobre del 1970. Scrisse Pansa nel suo famoso Bestiario: “Andai a trovare Sciascia a Palermo. Tra le verità che mi offrì, una soprattutto mi colpì per la carica profetica. Lo scrittore mi domandò: “Conosce la teoria della palma?”. Ammisi di no. Lui proseguì: “Secondo una teoria geologica, per il riscaldamento del pianeta la linea di crescita delle palme sale verso il nord di un centinaio di metri all’anno. Per questo motivo, fra un certo numero di anni, vedremo nascere le palme anche dove oggi non esistono”.

Gli chiesi: “Che cosa c’entrano le palme con la mafia?”. Sciascia sorrise: “Anche la linea della mafia sale ogni anno. E si dirige verso l’Italia del nord. Tra un po’ di anni la vedremo trionfare in posti che oggi sembrano al riparo da qualsiasi rischio. E anche al nord la mafia avrà gli stessi connotati che oggi ha nel sud. Qui da noi il mafioso si è mimetizzato dentro i gangli del potere. Una volta in Sicilia c’erano due Stati, adesso non ci sono più. Quello della mafia è entrato dentro l’altro. Un sistema dentro il sistema”.

L’accusa ripiombata in questi giorni, suona come una sentenza di Cassazione. E per chi opera onestamente nel settore della Grande Distribuzione credo sia  un pugno nello stomaco: «Tutti i supermercati dell’hinterland milanese sono in mano alla ‘Ndrangheta, idem i locali di divertimento dove vanno i vip». Lo ha detto il Procuratore di Napoli Nicola Gratteri intervenendo a Palermo al convegno “Le rotte e le logiche del traffico internazionale di stupefacenti e le evoluzioni della criminalità organizzata transnazionale” organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura, dalla Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, con il Programma Falcone Borsellino del Ministero degli Affari Esteri.

Ben dieci anni fa, a Firenze, a margine di un convegno sull’usura, l’allora Procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria Gratteri sottolineava:  “La ‘ndrangheta vuol comprare ciò che è in vendita da Roma in su, lo vediamo nel campo della grande distribuzione commerciale e della gastronomia”.  Con la  denuncia di questi giorni ha rilanciato, confermando come la malavita organizzata  è riuscita a infiltrarsi profondamente nel tessuto economico del nord Italia. Evidenziando però un “controllo” quasi totale sui supermercati situati nell’hinterland  di Milano, senza precisare fatti e persone, può  scatenare una cultura del sospetto generale che colpisce trasversalmente il settore e l’insieme delle insegne con gli imprenditori per bene che vi operano. 

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Auchan. Che succede in Russia?

È chiaro che alcune multinazionali  hanno sbagliato i conti scommettendo sulla durata limitata del conflitto scatenato dalla Russia, con l’invasione dell’Ucraina. D’altra parte l’esodo delle aziende, che ne è seguito, dopo l’invasione dell’Ucraina nel 2022, sembra sia  costato alle società straniere più di 107 miliardi di dollari in svalutazioni e perdite di entrate, come ha dimostrato un’analisi Reuters dei documenti e delle dichiarazioni aziendali. Chi è rimasto in Russia lo ha fatto nella speranza di una rapida vittoria di Putin. Non ha messo in conto  che un modello di globalizzazione era al tramonto e quella guerra ne rappresentava un forte segnale a cui ne sarebbero seguiti altri. Difficile, ieri come oggi, fare previsioni geopolitiche attendibili.

Auchan,  è in Russia dal 2002, ed è il terzo distributore  dopo Magnit e X5 Retail, ha ancora 30.000 dipendenti e 230 punti vendita tra ipermercati  e supermercati con i brand Auchan City, Auchan Supermarché e ATAK. E cosa di non poco conto in un conflitto militare, è attivo anche dall’altra parte della barricata,  in Ucraina, dal 2008 con circa 7.000 dipendenti e 43 punti vendita tra ipermercati e superstore. Auchan, a parte  l’Italia, che ha lasciato nel 2019, è una realtà importante a livello mondiale. Non solo nella GDO. È presente in 14 Paesi e in 3 continenti con un fatturato 2023 di 32,9 miliardi pur con una perdita di 379 milioni di euro.  Una grande azienda padronale solida economicamente pur con tutti i difetti tipici di queste realtà in termini di complessità decisionale, gestione delle cordate familiari e selezione del management.

La situazione in Russia si va però complicando. Le nazioni occidentali hanno congelato circa 300 miliardi di dollari delle riserve auree e valutarie della Banca di Russia dopo l’invasione dell’Ucraina. La Germania ha nazionalizzato lo stabilimento tedesco di Gazprom, ribattezzandolo Sefe, e ha posto la raffineria Schwedt di Rosneft sotto amministrazione fiduciaria tedesca. La Russia ha promesso di reagire contro le proposte dell’UE di ridistribuire miliardi di euro di interessi maturati sui suoi beni congelati, avvertendo di conseguenze catastrofiche e affermando che qualsiasi tentativo di impossessarsi dei suoi capitali o interessi sarà ritenuto “banditismo”. Anche le banche occidentali sono preoccupate per le controversie legali che un’eventuale confisca potrebbe generare (vedi il caso della tegola giudiziaria in Russia per Unicredit. Il Tribunale arbitrale di San Pietroburgo e della regione di Leningrado ha posto sotto sequestro conti e proprietà della banca italiana per un valore di quasi 463 milioni).

Come ha giustamente sottolineato Luca Picotti su Startmag  uscire dalla Russia oggi non è solo  “una questione di scelta. È molto più complesso: ci sono equilibri tra ordinamenti giuridici, asset, conti e investimenti da tutelare, autorizzazioni da attendere, rischi di nazionalizzazioni e via dicendo. A volte è scelta, altre è geo-diritto. Non è tutto riducibile all’opportunità politica”. L’agenzia di stampa statale russa RIA ha calcolato che l’Occidente rischierebbe di perdere beni e investimenti per un valore di almeno 288 miliardi di dollari se Mosca dovesse reagire. Le nazioni UE detengono 223,3 miliardi di dollari di asset, di cui 98,3 miliardi di dollari erano formalmente detenuti da Cipro, 50,1 miliardi di dollari dai Paesi Bassi e 17,3 miliardi di dollari dalla Germania. Le aziende che ancora operano o fanno affari in Russia includono oltre ad Auchan, Mondelez International, PepsiCo, Nestlé, Unilever, Reckitt e British American Tobacco. Altri, tra cui Intesa Sanpaolo, si trovano ad affrontare ostacoli burocratici mentre cercano di andarsene. Leggi tutto “Auchan. Che succede in Russia?”

Federdistribuzione e il futuro del lavoro…

Parlare di futuro, presentare scenari e tendenze fa parte dell’attività di un’associazione. Federdistribuzione ha imposto una levataccia a molti per poter presentare a Roma ai suoi soci, nella sede del CNEL, i risultati di alcune ricerche commissionate dalla federazione stessa. Qualcuno, forse  ingenuamente, pensava che venisse presentata anche la strategia e i capisaldi della famosa “distintività” pretesa dalla Distribuzione Moderna, che giustifichi la presenza di un CCNL in concorrenza con altri. Così non è stato.

D’altra parte, il titolo dell’iniziativa era ambizioso: “Il lavoro nel settore Retail 2030. La sfida del lavoro sostenibile per i lavoratori e imprese”. L’impressione, leggendo il comunicato  che, al contrario,  ci fosse  voglia di parlare d’altro non avendo ancora nulla da raccontare di nuovo  sul tema della centralità di un CCNL appena firmato che avrebbe bisogno di una profonda rivisitazione.  In questi casi le presentazioni di contesto  aiutano. Sui dati, c’è poco da aggiungere. Uno  studio di PWC fotografa il settore distributivo che conta oltre 440 mila occupati, con un trend in crescita del +7% tra il 2018 e il 2022 mentre l’incidenza del part-time è del 44%; l’occupazione femminile raggiunge il 63%, superiore alla media nazionale del 42%. Non è chiaro quanto part time  involontario è femminile  e quale percentuale ricopre rispetto al  44% del totale del part time. 

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Il commercio cinese in Italia. Il caso Aumai

La recente ordinanza di custodia cautelare emessa dalla procura di Monza nei confronti di cinque persone di nazionalità cinese nell’ambito di un’inchiesta per frode fiscale in cui è coinvolta la catena di supermercati Aumai Shopping, attiva proprio  nel Nord Italia, mi dà lo spunto per riprendere e approfondire quella realtà. Sull’indagine, anche in questo caso bisognerà attendere la fine del percorso giudiziario per evitare  di emettere “sentenze” mediatiche. Credo sia però interessante capire le traiettorie di questa azienda e il suo proprietario, vero apripista del commercio cinese in Italia.

La Cina è da anni una potenza economica e uno dei principali partner commerciali per l’Europa e per l’Italia, in particolare. E questo nonostante le cronache sui prodotti contraffatti vedano a volte protagonisti negozi, rivenditori, distributori o produttori di origine cinese. Nella gara alla convenienza di insegna del no food non vanno mai sottovalutati. Per ora ancora cauti sul nostro mercato. Non ricordo l’anno ma ricordo ancora oggi la faccia dei colleghi  tedeschi, e non solo, quando si presentò un potenziale acquirente del negozio Standa di via Paolo Sarpi a Milano in piena Chinatown. Aveva un sacchetto in plastica di un supermercato concorrente zeppo di contanti. Essendo cresciuto non troppo distante da quella via, mi colpì più la reazione stupita dei colleghi del fatto in sé. In quegli anni la comunità cinese ancora molto chiusa in sé stessa  e guardata con sospetto dal resto della città, non usava ancora banche e computer. Trattava qualsiasi cosa in contanti. Ovviamente non se ne fece nulla.

Solo nel 2013, sfrattata Oviesse che era subentrata a Standa, i due piani furono venduti  a un imprenditore cinese molto noto nel quartiere che ne rivoluzionò la destinazione d’uso. Bisognerà aspettare il 2017 con la famosa offerta  da 7,3 miliardi di euro per l’acquisizione di Esselunga per assistere ad un tentativo in grande stile di ingresso nel nostro mercato. Una proposta importante, quella avanzata dallo Yida Investment Group per acquisire l’azienda  fondata da Bernando Caprotti, che era scomparso da poco, il 30 settembre del 2016.  La cifra messa sul piatto da mister Yida Zhang era del 25% più alta rispetto a quella confezionata l’anno precedente  dai fondi internazionali Blackstone Cvc che avevano valutato Esselunga tra i 4 e i 6 miliardi a seconda dell’inclusione o meno dell’attività immobiliare da rilevare insieme alla gestione operativa. Non se ne fece nulla. 

Oggi, mentre l’immagine pubblica della comunità  cinese resta  in parte caratterizzata ancora dalla loro  separatezza e chiusura, per noi, acquistare beni e servizi dagli esercenti cinesi è divenuta un’abitudine sempre più comune. Molto più accentuata rispetto a quella di acquistare nei negozi etnici. In realtà l’espansione delle attività cinesi permette oggi di trovare, anche nelle nostre città, delle eccellenze made in China. A Milano, Roma, Torino e in tanti altri centri urbani si sono diffuse attività gestite da  cinesi (bar e caffè, edicole, negozi di parrucchiere, ristorantini che offrono specialità locali o una variegata cucina multietnica, piccoli negozi di quartiere che vendono merce di vario genere agli abitanti della zona). Spesso con dipendenti italiani.

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Esselunga. Appalti e tensioni con i sindacati di base…

Capita, non solo nelle relazioni sindacali, di dover riflettere sulla differenza tra decisioni che nel breve risolvono un problema apparentemente irrisolvibile in altro modo ma, contemporaneamente, rischiano di complicarlo nel lungo periodo.  È la differenza tra tattica e strategia. Quando si parla di appalti, terziarizzazioni di attività e impatti sull’organizzazione, sia nel caso  di affidamenti esterni che di ripresa in carico spesso si sottovalutano le conseguenze sull’azienda, sulle persone e sui soggetti collettivi coinvolti.

Per le aziende il punto dirimente è rappresentato dal proprio modello organizzativo e quindi dal vantaggio o dallo svantaggio di gestire internamente  o meno una determinata attività nell’immediato e nel lungo periodo. Per le persone coinvolte, rappresenta la quantità e la qualità del lavoro e quindi il senso stesso del loro impegno   e per i sindacati esterni determina il ruolo, la credibilità e  il peso associativo. Tre punti di vista molto diversi tra di loro. Ogni intesa sottoscritta sul tema tende a modificare il contesto (in meglio o in peggio) per ognuno dei tre soggetti coinvolti. Comprendere questo aspetto e gestirlo  è fondamentale.  Altrimenti il problema è solo rimandato.

Nel caso di Esselunga a Biandrate, a Pioltello o nella sua complessa rete territoriale, l’aver “internalizzato”  alcune attività,  prima gestite da terzi o averle giustamente passata a partner più affidabili, ha chiuso una fase di tensione ma ha contemporaneamente creato aspettative sul lungo periodo a sindacati e lavoratori  di difficile gestione. C’è da dire, in premessa, che Esselunga ha sempre avuto ottimi Direttori Risorse Umane in grado di affrontare situazioni di tensione con le organizzazioni sindacali. Il tipo di attacchi a cui oggi è sottoposta l’azienda da formazioni sindacali estreme e la loro frequenza  farebbe pensare che questa capacità di gestione sia venuta  meno.

Aggiungo che, almeno a parole, sembra sempre che tutti i soggetti in campo  abbiano interesse a far emergere situazioni radicate nel tempo   per riportarle ad un livello di maggiore trasparenza gestionale. Vale per le aziende che vogliono superare situazioni passate, vale per i sindacati confederali che hanno un interesse ad andare oltre  impostazioni che non li hanno  visti protagonisti. Non vale, però, per alcuni sindacati di base, persone o gruppi che, nelle fasi che hanno preceduto la normalizzazione, possono aver ottenuto vantaggi nella gestione di orari e attività, piccoli e grandi favori personali, riconoscimenti economici  (a volte) anche sottobanco.  Non sempre i vertici aziendali conoscono o approvano tutto ciò che avviene nei “piani bassi” nell’organizzazione. E spesso alcune situazioni incancreniscono fino a essere percepiti come “diritti acquisiti” o abitudini consolidate da chi ne gode i benefici. Elementi che, in presenza di cambi di gestione o di organizzazione, vengono inevitabilmente in superficie e rimessi in discussione.

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