È vero come sostiene oggi Di Vico sul Corriere che il referendum richiesto dalla CGIL con oltre tre milioni di firme, se confermato, avverrà in un contesto politico, sociale ed economico molto diverso da quello nel quale era stato proposto.
Così come è vero che i rapporti tra le tre confederazioni sindacali sono indubbiamente migliorati e, gli ultimi accordi con il Governo, con le organizzazioni datoriali e i contratti firmati confermano una rinnovata vitalità di tutti i corpi intermedi. Una vitalità che solo gli osservatori meno attenti avevano data per persa in questi anni.
Ci hanno provato in molti a riporre nel baule dei ricordi del novecento tutto ciò che non correva alla stessa velocità delle Borse e di un modello dato di globalizzazione salvo poi accorgersi che forse non era la velocità in sé, il problema, ma era la direzione di marcia ad essere quantomeno un po’ presuntuosa.
Corpi sociali e politica hanno fortunatamente separato da tempo i loro destini. E questo è stato un bene.
I sindacati hanno sviluppato anticorpi e messo in atto dinamiche organizzative e di supporto che hanno consentito loro di non seguirne il declino. Lo stesso vale per le organizzazioni datoriali che più si sono tenute alla larga dalle beghe della politica romana più hanno mantenuto un rapporto forte con i loro associati.
Associati e iscritti che, sul versante delle scelte politiche personali, stanno dove gli pare. Grillo e Lega compresi. Ma, di sicuro, né con i Forconi i primi, né con i COBAS i secondi. E questo è già di per sé un grande merito, spesso sottovalutato, dei corpi intermedi nel nostro Paese.
Personalmente sono un sostenitore della democrazia rappresentativa e quindi non amo lo strumento referendario in sé. Ovviamente lo rispetto e prendo atto che oltre tre milioni di italiani hanno ritenuto necessario richiedere a tutto il Paese un pronunciamento su tre quesiti precisi (art. 18, voucher, appalti).
Vedremo tra breve quale sarà la decisione della Corte di Cassazione. Personalmente non credo che questo referendum cambierà sostanzialmente i rapporti tra le diverse sigle sindacali confederali.
La CGIL in questo momento sembra essere l’unica organizzazione sindacale (a livello confederale) ad avere una linea, condivisibile o meno, ma chiara. Basta leggere la loro carta dei diritti.
Trovo singolare la sottovalutazione che ne è stata fatta, così come la presunzione che la CGIL abbia messo in campo tutta la sua credibilità solo per contrastare l’ex Presidente del Consiglio, e che, infine, l’idea di disegnare un nuovo campo dove diritti e doveri nel lavoro e nella società ritrovino un equilibrio oggettivo, sia solo figlia di una cultura passatista e non una esigenza non più rinviabile per la qualità della nostra democrazia.
C’è, nel merito, tanto da discutere e tanto da litigare e c’è pure, è vero, Annibale alle porte. Ma proprio per questo occorrerebbe cambiare passo. Non fare un passo indietro. Nel sindacato, in tutto il sindacato, costruendo percorsi unitari condivisi e solidi come già sta avvenendo in diverse categorie.
Tra organizzazioni di rappresentanza sindacali e datoriali cercando di trovare nuove risposte ai problemi veri delle imprese e del lavoro. Infine, tra corpi intermedi e politica impegnandosi per presentare e condividere proposte che guardino al futuro del Paese.
Temo che il problema ormai non sia nemmeno più Grillo il quale, al massimo, se mai dovesse farcela, si troverà nella stessa situazione del leader socialista Pietro Nenni ai tempi del primo centro-sinistra: «Pensavo di entrare nella stanza dei bottoni, ma non li ho trovati».
Quello che temo è che ormai si continuano a sentire sempre più spesso sinistri scricchiolii nelle fondamenta del Sistema stesso nel quale siamo cresciuti che non fanno presagire nulla di buono per il futuro della nostra democrazia.
Sapere che ci sono in campo anche forze positive, costruttive e impegnate a difenderla non va sottovalutato.
Poi ci sono le contingenze, le liti da cortile, i dissensi di merito. Ma, è indubbio, che sulla qualità della nostra democrazia, dobbiamo essere dalla stessa parte e possibilmente trovare, insieme, nel merito, le soluzioni più equilibrate. Se questo non sarà possibile che si voti con grande serenità e che se ne accetti con altrettanta serenità il risultato.
Meglio sarebbe se si riprendesse da subito una discussione seria sul Jobs Act e su tutto ciò che manca ad esso per costituire una vera svolta nelle politiche del lavoro del nostro Paese.
Un’epoca si è chiusa. L’epoca nella quale un Governo, anziché essere arbitro, scendeva in campo a favore di una delle due squadre. Oppure cercava di giocare la partita da solo. Non ci sono più risorse né la forza politica per farlo.
E non conviene neanche ai corpi intermedi perché alla fine tutto resta provvisorio e indefinito. L’esatto contrario di ciò che serve alle imprese e al lavoro.