Il rilancio e la vitalità dei corpi intermedi e il pericoloso tramonto della politica..

È vero come sostiene oggi Di Vico sul Corriere che il referendum richiesto dalla CGIL con oltre tre milioni di firme, se confermato, avverrà in un contesto politico, sociale ed economico molto diverso da quello nel quale era stato proposto.

Così come è vero che i rapporti tra le tre confederazioni sindacali sono indubbiamente migliorati e, gli ultimi accordi con il Governo, con le organizzazioni datoriali e i contratti firmati confermano una rinnovata vitalità di tutti i corpi intermedi. Una vitalità che solo gli osservatori meno attenti avevano data per persa in questi anni.

Ci hanno provato in molti a riporre nel baule dei ricordi del novecento tutto ciò che non correva alla stessa velocità delle Borse e di un modello dato di globalizzazione salvo poi accorgersi che forse non era la velocità in sé, il problema, ma era la direzione di marcia ad essere quantomeno un po’ presuntuosa.

Corpi sociali e politica hanno fortunatamente separato da tempo i loro destini. E questo è stato un bene.

I sindacati hanno sviluppato anticorpi e messo in atto dinamiche organizzative e di supporto che hanno consentito loro di non seguirne il declino. Lo stesso vale per le organizzazioni datoriali che più si sono tenute alla larga dalle beghe della politica romana più hanno mantenuto un rapporto forte con i loro associati.

Associati e iscritti che, sul versante delle scelte politiche personali, stanno dove gli pare. Grillo e Lega compresi. Ma, di sicuro, né con i Forconi i primi, né con i COBAS  i secondi. E questo è già di per sé un grande merito, spesso sottovalutato, dei corpi intermedi nel nostro Paese.

Personalmente sono un sostenitore della democrazia rappresentativa e quindi non amo lo strumento referendario in sé. Ovviamente lo rispetto e prendo atto che oltre tre milioni di italiani hanno ritenuto necessario richiedere a tutto il Paese un pronunciamento su tre quesiti precisi (art. 18, voucher, appalti).

Vedremo tra breve quale sarà la decisione della Corte di Cassazione. Personalmente non credo che questo referendum cambierà sostanzialmente i rapporti tra le diverse sigle sindacali confederali.

La CGIL in questo momento sembra essere l’unica organizzazione sindacale (a livello confederale) ad avere una linea, condivisibile o meno, ma chiara. Basta leggere la loro carta dei diritti.

Trovo singolare la sottovalutazione che ne è stata fatta, così come la presunzione che la CGIL abbia messo in campo tutta la sua credibilità solo per contrastare l’ex Presidente del Consiglio, e che, infine, l’idea di disegnare un nuovo campo dove diritti e doveri nel lavoro e nella società ritrovino un equilibrio oggettivo, sia solo figlia di una cultura passatista e non una esigenza non più rinviabile per la qualità della nostra democrazia.

C’è, nel merito, tanto da discutere e tanto da litigare e c’è pure, è vero, Annibale alle porte. Ma proprio per questo occorrerebbe cambiare passo. Non fare un passo indietro. Nel sindacato, in tutto il sindacato, costruendo percorsi unitari condivisi e solidi come già sta avvenendo in diverse categorie.

Tra organizzazioni di rappresentanza sindacali e datoriali cercando di trovare nuove risposte ai problemi veri delle imprese e del lavoro. Infine, tra corpi intermedi e politica impegnandosi per presentare e condividere proposte che guardino al futuro del Paese.

Temo che il problema ormai non sia nemmeno più Grillo il quale, al massimo, se mai dovesse farcela, si troverà nella stessa situazione del leader socialista Pietro Nenni ai tempi del primo centro-sinistra: «Pensavo di entrare nella stanza dei bottoni, ma non li ho trovati».

Quello che temo è che ormai si continuano a sentire sempre più spesso sinistri scricchiolii nelle fondamenta del Sistema stesso nel quale siamo cresciuti che non fanno presagire nulla di buono per il futuro della nostra democrazia.

Sapere che ci sono in campo anche forze positive, costruttive e impegnate a difenderla non va sottovalutato.

Poi ci sono le contingenze, le liti da cortile, i dissensi di merito. Ma, è indubbio, che sulla qualità della nostra democrazia, dobbiamo essere dalla stessa parte e possibilmente trovare, insieme, nel merito, le soluzioni più equilibrate. Se questo non sarà possibile che si voti con grande serenità e che se ne accetti con altrettanta serenità il risultato.

Meglio sarebbe se si riprendesse da subito una discussione seria sul Jobs Act e su tutto ciò che manca ad esso per costituire una vera svolta nelle politiche del lavoro del nostro Paese.

Un’epoca si è chiusa. L’epoca nella quale un Governo, anziché essere arbitro, scendeva in campo a favore di una delle due squadre. Oppure cercava di giocare la partita da solo. Non ci sono più risorse né la forza politica per farlo.

E non conviene neanche ai corpi intermedi perché alla fine tutto resta provvisorio e indefinito. L’esatto contrario di ciò che serve alle imprese e al lavoro.

Contratti. Il post fordismo non è solo industry 4.0

Il superamento dei modelli contrattuali discendenti dal fordismo ha, in due vicende contrattuali, apparentemente distanti, risposte completamente differenti e, per certi versi, opposte su cui innestare una riflessione vera per gli sviluppi che entrambi possono portare sul futuro del lavoro perché, credo, nulla è ancora scontato.

Nel contratto dei metalmeccanici l’elemento collettivo, di contenuto e di equilibrio tra i contraenti è stato sostanzialmente mantenuto. Anzi. Per certi versi, Il sindacato ha rafforzato il suo ruolo come interlocutore. Sia centrale con il welfare contrattuale e la formazione, sia decentrato con i rinvii su produttività e altro. E si appresta a contribuire a riscrivere l’inquadramento professionale insieme a Federmeccanica.

Diverso è il caso della GDO dove, il confronto tra Federdistribuzione (ultima trincea del fordismo commerciale e contrattuale tradizionale) con Fisascat Cisl, Uiltucs Uil, e Filcams CGIL va in una direzione esattamente opposta. Quella di “imporre” un contratto sulla base esclusiva dei rapporti di forza in campo.

Quale era (ed è) l’impostazione tradizionale di un qualsiasi contratto di lavoro? Da una parte l’azienda con le sue esigenze e dall’altra una collettività che, all’interno di un insieme di diritti e doveri definiti e condividendo una attività tutto sommato simile, erano (e sono) in grado di negoziare sulla base di reciproci interessi. Preferibilmente tramite le organizzazioni sindacali e datoriali.

In entrambi i settori (metalmeccanico e GDO) questo schema ha funzionato per anni. Nel metalmeccanico, la necessità di un cambiamento profondo è stato evidenziato da FCA poi, ad una certa distanza, dalla proposta di rinnovamento contrattuale di Federmeccanica. Segnali inequivocabili di un necessario cambiamento.

Ma FIM, FIOM, UILM, anziché resistere unitariamente o divisi in una trincea di difesa a oltranza dell’esistente hanno accettato e rilanciato la sfida. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Un’analoga operazione è stata messa in atto da Confcommercio con il recente contratto del terziario con le organizzazioni sindacali di categoria e con l’accordo sui livelli contrattuali con CGIL, Cisl, Uil confederali. Accordo soddisfacente per molti ma ritenuto insufficiente da Federdistribuzione che ha insistito per dotarsi di un proprio contratto specifico.

Nella GDO per anni è stato ritenuto più conveniente, anche da parte delle imprese multinazionali, accodarsi al contratto Confcommercio dove la presenza dei piccoli ha indubbiamente aiutato a contenerne i costi e a contribuire al suo sviluppo.

Quel modello è entrato in crisi, al di là del legittimo protagonismo associativo, quando l’offerta commerciale ha iniziato a superare la domanda. La crisi, il calo dei consumi e l’obsolescenza dei format commerciali hanno fatto il resto.

Le imprese inizialmente hanno preferito seguire una impostazione sindacale tesa ad accettare differenze significative tra i vecchi collaboratori e i nuovi (sugli inquadramenti, sulla qualità del rapporto di lavoro, sugli orari, e sul lavoro festivo e domenicale) che hanno contribuito non poco a dividere la vecchia guardia sindacale dai nuovi assunti che andavano via via aumentando.

Poi, sempre le aziende, hanno messo in discussione le rigidità organizzative e i premi fissi presenti nella contrattazione aziendale bloccandola, cancellandola o negoziando modifiche sostanziali mentre la crisi costringeva a chiudere contemporaneamente molti punti vendita obsoleti e, infine non riconoscendo il contratto nazionale del terziario firmato da Confcommercio e, proponendo un percorso autonomo.

Questa escalation supportata in ogni realtà da forme di coinvolgimento, importanti investimenti formativi, sistemi premianti, prospettive di carriera o di trasformazione del contratto da tempo determinato o parziale a tempo pieno ha disarticolato ed emarginato  il ruolo delle organizzazioni sindacali e il rapporto tra rappresentanti interni dei lavoratori con i lavoratori stessi.

Il sindacato, a quel punto, anziché reagire studiando, analizzando il cambio di passo, comprendendo i problemi veri e avanzando proposte di governo delle situazioni concrete si è lasciato isolare nelle singole realtà limitandosi ad una difesa della vecchia generazione di lavoratori, lasciando i nuovi assunti completamente in balìa delle imprese. Paradigmatica è la inutile guerra sulle festività e sul lavoro domenicale limitata ai lavoratori meno giovani o l’incapacità di chiudere il contratto della distribuzione cooperativa proprio per tutelare prerogative di una  particolare fascia di lavoratori.

A quel punto le aziende utilizzando al meglio il turn over e la flessibilità in entrata, hanno potuto costruire, intorno alle figure manageriali che si sono nel frattempo moltiplicate, una struttura di controllo, di sviluppo professionale e di gestione delle risorse, estesa fin dentro ad ogni punto vendita, coinvolgente e severa ma in grado di cooptare i collaboratori più disponibili ed emarginare quelli meno disponibili.

Il sociologo Renato Curcio (sicuramente più noto per altro ma estremamente puntuale nello studio della sociologia delle organizzazioni della GDO) parla di “singolarizzazione del rapporto di lavoro”.

Singolarizzazione nella quale lo scambio è ovviamente asimmetrico e prevede comunque la sostanziale esclusione del sindacato. È avvenuto in un tempo relativamente breve qualcosa che ha messo in discussione il modo di concepire il lavoro “in termini di tempo, di spazio e di mansioni”.

Quindi il lavoro nella GDO ha perso, sempre usando le parole di Curcio, la sua dimensione sociale e collettiva assumendo solo una dimensione personale.

In altri termini ciò che fino a pochi anni fa coinvolgeva solo figure apicali in certi contesti e con i dovuti distinguo si è diffuso a tutti i collaboratori siano essi precari, a tempo determinato, a parte Time o con specifiche esigenze personali o familiari da soddisfare.

E, per chi non viene “ingaggiato” dalle aziende e su cui insistono investimenti, formativi e professionali importanti, resta un destino di lavoro povero, precario e marginale più vicino al proletariato della logistica…

Il prossimo (primo) contratto della GDO – Federdistribuzione, se mai ci sarà, fotograferà inevitabilmente, e in modo netto, questa asimmetria. Con diversi tipi di conseguenze.

La prima evidente che porta con sé il rischio di consolidamento di una spaccatura tra tutelati e marginali. I primi lontani dal sindacato per scelta, i secondi per necessità.

Una seconda conseguenza è rappresentata dal rischio di sgretolamento della contrattazione nazionale dell’intero settore del commercio distributivo (quella aziendale è inesistente) dove la presenza di ben quattro contratti a disposizione delle imprese provocherà nel giro di poco tempo un inseguimento al ribasso sempre più difficile da governare dalle associazioni di categoria.

La terza conseguenza riguarderà una ulteriore messa in discussione del ruolo del sindacato di settore e la sua affidabilità come interlocutore con evidenti conseguenze a medio lungo termine sul sistema bilaterale e sulla gestione dei fondi contrattuali.

Per le imprese, ormai ripiegate sul breve, soprattutto se multinazionali, ci sono indubbi vantaggi. Non applicare i contratti, ritardarne l’applicazione, utilizzare la leva economica per dividere “i buoni dai cattivi” comportano risparmi importanti con i quali attenuare i margini commerciali in crisi. Sul lungo, al contrario, non è così. Anzi.

Quindi ci sono diversi approdi al post fordismo contrattuale. Nessuno è scontato e nessuno è dovuto. Ma questo presuppone un salto di qualità sia delle associazioni datoriali che sindacali. Altrimenti l’esito appare scontato e non certo equilibrato.

Favola natalizia semiseria dalla terra dei cachi…

In Europa, subito dopo la seconda guerra mondiale, c’era un Paese dove un partito solo poteva governare. E un altro poteva solo fare opposizione. Il popolo votava generalmente per il primo. A volte faceva arrivare il secondo quasi fino al filo di lana. Così per far pensare ad una vera competizione. Poi rinsaviva e rivotava per il primo.

Tutti però erano contenti così. Poi anziché costruire muri come si sarebbe fatto oggi ne è caduto improvvisamente uno. Apriti cielo! A nessuno, da quel momento e nel mondo, è  interessato più nulla di quel Paese.

Per questo motivo il secondo partito, quatto quatto, pensando di fare il colpaccio, ha costruito senza farsi troppo notare una macchina da guerra. Gioiosa, però, per non spaventare nessuno.

Ma, proprio sul filo di lana, il popolo è rinsavito di nuovo e ha votato per un altro. Non quello di prima, uno nuovo. Appena disceso in campo..

Dopo un po’ di tempo, il partito che non era mai arrivato primo, ci ha riprovato cambiando nome e, per sicurezza, mettendo alla sua guida un leader preso a prestito dal partito che vinceva sempre. Così, finalmente, ha vinto.

Un guaio! Per non smentirsi ha quasi immediatamente scaricato il leader optando per un usato sicuro ripescato tra quelli abituati a perdere.

E così, finalmente, anziché un leader con i baffi abituato ad arrivare primo se ne è dato uno con i baffetti del partito che poteva solo arrivare secondo. Si sentiva meglio così. Per evitare che qualcuno lo prendesse sul serio, però, ha scopiazzato le proposte tipiche del partito che era abituato ad arrivare primo così gli elettori, hanno preferito l’originale alla copia e lo hanno fatto ritornare immediatamente secondo.

E così poco dopo, passato il periodo dei fiori degli ulivi e delle querce, si è, piano piano, fatto scalare da una piccola ma importante pattuglia di chi era abituato ad arrivare primo. E si è dato un nome più rassicurante che facesse dimenticare le radici di provenienza.

Pensavano ormai di aver fatto tutto ma si sono accorti che l’Europa, manco fosse una vecchia suocera, ci chiedeva di decidere se stare di qua o di là. Ma dentro il partito, purtroppo, c’erano persone che volevano stare sia di qua che di là.

Così, ad un certo punto, l’Europa ha perso la pazienza. Non ci volevano più, né di qua né di là. Nel bel mezzo di questa interessantissima discussione il mondo intero è andato in crisi. Qui no. Anzi.

Vista la situazione grave ma non seria, è arrivato un comico che ha detto basta. Si era già da tempo messo in testa di costruire un movimento politico prendendo come simbolo le stelle che si incollano sugli alberghi e dicendo “vaffa” a tutti e due i partiti che un po’ continuavano a litigare è un po’ cercavano di andare d’accordo.

Siccome la confusione era tanta, il presidente della repubblica e tutti i partiti decisero di ingaggiare un tecnico con il loden a cui diedero il compito di salvare capre e cavoli. Appena salvi, tutti i partiti lo scaricarono immediatamente insieme alla strega cattiva accusandoli di tutti i mali possibili. E negando di averli mai conosciuti né chiamati.

A quel punto nel partito che non sapeva arrivare primo un giovane boy scout, stanco di guidare i lupetti nei boschi della Garfagnana, decise di partecipare alle primarie per pensionare, finalmente, tutti coloro che non volevano arrivare primi. E cominciò a raccontare che da quel momento avrebbero dovuto sentirsi primi. Non solo in Italia ma anche nel mondo.

Apriti cielo!

Quelli che non volevano arrivare primi, il comico e tutti quelli che si sentivano messi da parte si sono coalizzati contro quello che voleva farli diventare primi. Gli hanno detto NO e lo hanno gonfiato come una zampogna.

E lui se n’è andato sbattendo la porta. Adesso il comico vuole legittimamente diventare il primo partito mentre il partito che nel frattempo è ancora primo, nonostante tutto, può tranquillamente sperare di tornare ad essere secondo. O almeno a provarci.

Come è sempre stato.

Se al disagio sociale si risponde in modo insufficiente…

Fino al referendum sembrava tutto chiaro. Da un parte chi voleva cambiare il Paese, dall’altra tutti gli altri. In mezzo, ma comunque schierato con il NO, chi pensava comunque giusto cambiarlo ma non così come veniva proposto da Renzi e dal PD.

Nessuno poteva però immaginarsi cosa sarebbe successo il 4 dicembre. Né in un campo, né nell’altro. Né tantomeno i media o gli intellettuali schierati che continuano tuttora a non vedere i problemi di una parte del Paese tutti presi a fornire della realtà una lettura esclusivamente politicista cioè cristallizzata nelle logiche e nei riti della politica.

Tre incognite di cui nessuno aveva previsto le dimensioni. L’affluenza, il voto giovanile, le rabbia sorda delle periferie urbane e rurali. Tutte e tre queste incognite si sono riversate, pur con motivazioni differenti sul NO.

Non necessariamente sulla riforma proposta che pochi hanno preso in considerazione al momento della scelta. Un NO forte e chiaro che ha tante componenti e, non tutte, coerenti fra di loro.

L’affluenza, che rappresenta l’elemento unificante, indiscutibile della protesta e dell’esternazione del disagio sociale delle altre due incognite, il voto giovanile e la situazione di grave difficoltà che si vive nelle periferie urbane e rurali del Paese sono, a mio parere, gli elementi da cui partire. Altrimenti continueremo a cercare soluzioni semplici a problemi difficili.

L’ottanta per cento di NO sotto i 34 anni evidenziano una spaccatura generazionale fatta di mancanza di lavoro e di reddito ma anche di mancanza di comunicazione intergenerazionale.

Una spaccatura che nessuno riuscirà  ad interpretare in chiave politica. Molti di questi giovani, pur saliti transitoriamente sul taxi dei 5 stelle, hanno capito benissimo che nessuno è in grado di fornire loro risposte sufficienti in tempi ragionevoli e utilizzabili concretamente.

Ma non protestano più in piazza come le generazioni precedenti. Si lamentano sui social prigionieri di un mondo che non riesce né a farsi sentire dal resto della società né ancora a costituire un blocco sociale forte in grado di ribaltare la situazione a proprio favore.

Lo stesso mercato del lavoro è stato costruito per mettere a disposizione modeste e parziali risposte, in termini qualitativi e quantitativi in una situazione di crisi e di mancanza di prospettive. Risposte frustranti, lontane dalle aspettative e dagli studi effettuati dai ragazzi stessi, che spesso contribuiscono a minare in profondità l’autostima di chi non è messo in condizione neanche di proporsi per un lavoro.

Restano solo i social dove condividere questa impotenza prendendosela contro nemici immaginari continuamente proposti da cattivi maestri. Ma se non finalizzata è gestita questa rabbia inconcludente sarà costretta a cercare sbocchi come un fiume carsico e a produrre inevitabili quanto gravi lacerazioni del tessuto sociale. Da qui si capisce perché il Jobs Act, ad esempio, non ha creato nessun entusiasmo nei diretti interessati. Anzi.

Così come la tensione che sta montando nelle periferie contro gli immigrati, i vicini di casa, nelle famiglie e tra le famiglie.

Disagio grave che ormai non è più gestito da nessuno. A parte gli schiamazzi dei populisti nostrani che rischiano di bruciarsi le mani loro stessi se continuano ad esacerbare gli animi senza offrire soluzioni. Di fronte a questa situazione la politica, purtroppo, parla d’altro. Di coalizioni, voto anticipato, consultazioni. I giornali imperterriti accompagnano questo teatrino che scava solchi profondi tra le elites e le persone normali.

Di Vico ci racconta spesso con grande lucidità delle modificazioni che attraversano il mondo del lavoro. Le tre classi proposte nei suoi articoli secondo la definizione del sociologo Antonio Schizzerotto (L’operaio cognitivo, l’operaio fordista, il nuovo proletariato della logistica ma anche dei servizi alla persona, facchini e badanti, soprattutto stranieri) non si congiungono però a sufficienza con il retroterra sociale e il contesto economico nel quale queste figure si muovono e interagiscono o si scontrano tra di loro. Né con il resto del sottoproletariato urbano o rurale che vive alla giornata in un contesto di lavoro nero, malavitoso o, addirittura, in semi schiavitù.

Questa miscela tra mondo giovanile, lavori sottopagati o marginali, lavoro nero, disagi abitativi e di relazione, modelli di convivenza si sta radicalizzando e, questi aspetti non trovano più nella comunità, nella parrocchia, nel sindacato, nella scuola o nella famiglia ammortizzatori sufficienti e credibili.

E questo mondo, sempre più emarginato, si trova di fronte solo qualcosa di inarrivabile, impalpabile, inutilizzabile, dotato di una comunicazione astrusa e tutta da addetti ai lavori. Una comunicazione che parla solo di più zero virgola del PIL, di “ce lo chiede l’Europa” che resta matrigna e lontana, di Borsa, di posti di lavoro che riguardano solo gli altri, di vitalizi, di sprechi, di attività economiche che chiudono e di immigrazione incontrollata.

E tutto questo ha preso via via sempre di più le sembianze di una persona, il Presidente del Consiglio, ritenuto unico e massimo responsabile, verso cui la politica (con la p minuscola) ha indirizzato tutti gli strali possibili per non condividerne le responsabilità che non sono assumibili se non dall’intera comunità nazionale e rifiutandosi di fare un’opposizione seria e costruttiva.

E lui, anziché comprendere questo disagio e questa avversione crescente e questa sua impossibilità a gestire da solo questi passaggi ha continuato imperterrito la sua strada in solitaria e la sua narrazione del Paese che vorrebbe e non quello che è e da cui non si può prescindere.

Adesso, però, sia chiaro, sono guai per tutti.

Per una sinistra salottiera e senza idee che ha lasciato a suo tempo le periferie per conquistare il centro ma che, in questo modo, non sa più capire le periferie e i problemi che vi insistono, per una destra populista che pullula di piromani ma non sembra avere capacità di una proposta politica equilibrata e per movimenti che presidiano la rete ma non hanno la più pallida idea di cosa sia un quartiere popolare dove convivono etnie, abitudini, rabbie differenti. E, da questo punto di vista l’esempio di Roma capitale è paradigmatico.

Una cosa a mio parere risulta molto chiara.

Che lo si voglia o no, è solo partendo da ciò che ha spinto una parte minoritaria seppur importante dell’elettorato, a chiedere un cambiamento vero che si può ricostruire una comunicazione concreta, un rapporto, una proposta con quella parte che, con altrettanta buona fede, si è trincerata con lo schieramento opposto. Quindi occorre ripartire dalle profonde ragioni di cambiamento vero di chi ha votato SI.

Se qualcuno pensa che la soluzione sia nell’approfondire le contrapposizioni non ha capito nulla.

Il referendum un cosa ce l’ha insegnata. Ci sarà chi lavorerà in questa direzione per acuire le contraddizioni sociali. I COBAS ci stanno già provando. Così come l’estrema destra.

I riformisti di entrambi gli schieramenti devono capire che quel NO non è solo un esercizio democratico assolutamente legittimo ma contiene anche veleno sociale, lacerazione, quindi pericoli per la stessa democrazia.

Per questo occorre ttrarne le conseguenze necessarie. E questo impegno non può essere lasciato solo alle forze politiche. Nessuno si deve permettere di scherzare con il fuoco se ha a cuore il futuro del Paese.

Oltre il referendum. Non perdere la speranza e non rinunciare alle buone battaglie

Nella vita a volte la strada è tracciata ma l’orizzonte resta oscuro:
occorre avanzare con speranza passo dopo passo.

Enzo Bianchi

 

Marco Bentivogli lo ha detto bene prima del referendum. “Sono molto convinto delle ragioni della Riforma perché questo Stato è organizzato con regole che sono contro la solidarietà e la sua efficienza. E a chiunque vincerà continuerò a chiedere di cambiare.

Sono tra coloro che se prevarrà il No, insisterò per le riforme, con qualsiasi Governo. E che se vincerà il Si le cose siano ben fatte in coerenza con gli obiettivi propagandati. Ma soprattutto insisteremo per andare avanti. Questo è un paese in cui le cose sono fatte appositamente per chi non ha bisogno di regole e dello Stato.”

Il punto centrale per chi è impegnato nel mondo del lavoro e dell’impresa sta tutto qui. Ci sono riforme in mezzo al guado, scadenze in arrivo, contratti da gestire.

Nessuno, in chi fa politica seriamente e tanto più nelle organizzazioni di rappresentanza, può permettersi di giocare al “tanto peggio, tanto meglio”, di covare vendette o rancori postumi né di rassegnarsi ai tempi delle convenienze politiche di questo o di quel partito o movimento.

Fortunatamente abbiamo un Presidente della Repubblica che ha sempre esercitato un ruolo di arbitro e di garante e che oggi può vantare una autorevolezza che né il compatto fronte che ha perso il referendum né il variegato fronte che ha vinto può vantare. Il Paese ha bisogno di un Governo.

Non credo sia una buona cosa andare al voto prima della scadenza naturale del 2018 a meno che non si voglia continuare una campagna elettorale ancora più dura ed estenuante di quella appena terminata che accentui ulteriormente la divisione tra i 13.432.208 italiani che hanno votato SI e i 19.419.507 che hanno votato NO.

In un mio recente intervento sul blog scrivevo: “il mio SI non si esaurisce il 4 dicembre dove è naturalmente scontato. Voglio pensare che il patrimonio di consenso che prenderà forma quel giorno al di là del risultato numerico verrà raccolto con convinzione per continuare a tenere accesa la volontà di cambiamento del Paese indispensabile a prescindere dall’attuale Presidente del Consiglio.

Ecco io non credo legittima la reazione di chi dice che adesso tutto deve restare com’è quasi fosse una punizione divina per il popolo che, al contrario si è ormai espresso in termini così perentori. Occorre che si ritorni pazientemente a ricostruire un tessuto tra i riformisti presenti in entrambi gli schieramenti con lo scopo di utilizzare tutto il 2017 e fino alle elezioni naturali del 2018 per fare ciò che serve al Paese.

Van der Bellen ha vinto in Austria alzando lo sguardo e rilanciando la speranza degli Stati Uniti di Europa non inseguendo i populisti sul loro terreno. Le donne e i giovani austriaci gli hanno creduto e gli hanno dato la forza necessaria per consentirgli di riunificare un Paese nel quale, sia chiaro, la destra non è paragonabile alla nostra.

Io spero e credo che chi si è riconosciuto nel cambiamento oggi deve saper guardare lontano  e rilanciare la speranza di un Europa diversa, superando i rancori, lo spirito di rivalsa e i tatticismi ormai inutili visto che “Annibale è alle porte”.

Continuo a pensare che c’è un enorme spazio di ripresa e di iniziativa che non va disperso. Lo sintetizzo così: Voti ottenuti nel 2014 alle Europee dal fronte per il SI (Pd-Area Popolare): 12.405.581. Oggi è 13.432.208 e con un pezzo di Pd schierato per il No. C’è ancora molto da fare.

Personalmente resto ottimista sulle prospettive. Come lo ero prima del referendum. Continuo a pensare che un vero “Patto per il Paese” sarebbe il vero snodo.

Tre, quattro priorità importanti da condividere su cui forze sociali e Politica possano iniziare a ricostruire un senso di comunità nazionale.

Verranno ancora i giorni nei quali avrà senso confrontarsi tra idee diverse, dove forse una globalizzazione finalmente intelligente e un’idea diversa di Europa dovranno affrontare con maggiore convinzione e determinazione populismi ed egoismi che si radicano laddove la Politica si ritira e cede il passo alla demagogia, ma non è questo quel giorno.

Oggi occorre far tesoro di questi risultati e ricostruire quella necessaria fiducia collettiva che ci consenta di immaginare e di continuare a credere nel nostro futuro.

E questa fiducia si ricostruisce su valori condivisi, senso della comunità e facendo perno sugli interessi generali del nostro Paese.

Comunque vada il referendum di Marco Bentivogli…

Il 75% dei partiti (in termini di voti presi alle ultime elezioni politiche nazionali) è schierato per il No alla Riforma.
In realtà molto di più perché come è noto, Verdini aiuta più a perdere voti che a guadagnarne e una parte del Pd e la Cgil hanno sostenuto e fatto campagna per il No. Eppure molti di questi partiti han votato per ben 3 volte l’intero testo, altri han pure ottenuto modifiche che secondo me l’han peggiorato. Renzi sopra il 35% potrà sentirsi comunque soddisfatto.

Questo dice già molto sull’esito che ci si può aspettare. E anche sui prossimi giorni in cui invece che ripartire a far ciascuno il proprio dovere, ci saranno coloro che hanno avvelenato anche questi mesi e indicheranno i pali a cui sono destinati i traditori.
La nausea diffusa degli ultimi strilli di campagna referendaria non finisce oggi purtroppo, la cosa più squallida in Italia sono le trasmissioni sul dopo voto, in cui i commentatori “l’avevano detto” e da abili post-veggenti cambieranno versione all’occorrenza. Non ci sono mai stati neanche all’epoca di Berlusconi così tanti giornalisti schierati su un unico fronte.

Il nostro non è un paese maturo, oltre la virulenza dell campagna (con un procuratore della repubblica italiana che ha paragonato la scelta del SI a quella dei repubblichini di Salò (provincia venezuelana) nel ’43)).
Sono molto convinto delle ragioni della Riforma perché questo Stato è organizzato con regole che sono contro la solidarietà e la sua efficienza. E a chiunque vincerà continuerò a chiedere di cambiare.
Sono tra coloro che se preavarra’ il No, insisterò per le riforme, con qualsiasi Governo. E che se vincerà il Si le cose siano ben fatte in coerenza con gli obiettivi propagandati. Ma soprattutto insisteremo per andare avanti. Questo è un paese in cui le cose sono fatte appositamente per chi non ha bisogno di regole e dello Stato.
Se vincerà il No, non accadrà nulla di drammatico, tutto resterà così come è.
Non ero nato quando nel ’53 parti’ la prima commissione per cambiare il Senato (che gli stessi costituenti definirono “inutile doppione”) ero in seconda media quando nell’83 provarono la prima riforma costituzionale con la Commissione De Mita-Iotti e gli altri 6 tentativi che ne seguirono.
Vorrà dire che bisognerà aspettare ancora.
Questo è un paese che sulle regole, ha sempre scelto i rinvii, gli sconti su di esse e quasi mai il loro cambiamento.
Ci sarà un prezzo da pagare? Certo ma il più grosso lo abbiamo già pagato.

Votate quello che volete.
Io sogno un paese più maturo in cui dall’assemblea condominiale, ai luoghi di lavoro, ovunque si voti, solo sui contenuti e non contro il vicino, il portinaio o la moglie dell’amministratore. Con la crisi della politica molti negli ultimi anni votavano,”per la persona” con un po di vergogna per il partito che votavano, ora in modo liberatorio votano “contro la persona”.

L’Italia non è riducibile a Grillini e Renziani.
A volte, però, occorre essere consapevoli che si sceglie tra i due e che il resto è dettaglio. Come sempre del resto…

Anche nel 2006 la gran parte voto’ contro Berlusconi (che aveva già perso le elezioni) senza aver letto una riga di quella Riforma.

Il popolo non esiste, è una costruzione politica utilizzata ad arte da questo o quel potere.
Esistono le persone, a loro sta la responsabilità, informarsi, capire e scegliere. E I social sono spesso degli spargibufale che elevano ignoranti patentati a: sismologi, commissari tecnici, costituzionalisti. E le persone si annientano nella folla rabbiosa è manipolata. Più si è ignoranti e più si carica di retorica e significati roboanti ogni accadimento. È così che vince quasi sempre la folla, quella che grida senza capire e senza accorgersi di essere guidata e da 2000 anni finisce per scegliere sempre Barabba.
La democrazia senza consapevolezza e partecipazione è vuota.

Votate quel che credete e almeno da domani rispettate la scelta diversa dalla vostra. Ma soprattuto costruite la vostra con un po’ più di serietà.

A prescindere da come andrà, considero molto più pericoloso dei fallimenti delle banche e delle crisi finanziarie, non essere capaci a cambiare e consegnare il paese ai populisti demagoghi di ogni risma.
Anche se forse non basterà serviranno molti colibrì come ci ricorda Mario Sassi:

“Un colibrì vola sopra un incendio nella savana con una goccia d’acqua nel becco. Il leone urla: “cosa pensi di fare?” “Solo la mia parte”, non solo oggi ma tutti i giorni.

Dirigenti, contratti e cultura della solidarietà

Purtroppo la figura retorica del manager solo al comando, egocentrico e poco interessato al destino altrui ha preso il sopravvento nelle convinzioni di gran parte dell’opinione pubblica.

Invidiato e odiato a seconda dei punti di osservazione si muove, in questa fase di cambiamento profondo, tra un autentico disorientamento sulle sue concrete prospettive di carriera e una trasformazione profonda del suo ruolo.

Può contare su diversi strumenti di supporto sia formativi che di welfare messi a punto, nel tempo, nei contratti nazionali costruiti dalle rispettive associazioni di categoria.

Ma c’è una cosa molto importante che, grazie soprattutto alle associazioni manageriali, risulta evidente a chi vuole capirne meglio, e da vicino, le caratteristiche umane e l’approccio culturale che possono essere messe in campo. E quali sono gli strumenti che le possono favorire.

E poterlo rintracciare concretamente in una categoria ritenuta chiusa, individualista e ripiegata su se stessa, spiega molte cose di quanto di buono e inespresso c’è ancora nelle nostre comunità.

Recentemente mi sono trovato ad una iniziativa benefica di Manageritalia in Piemonte a sostegno delle popolazioni terremotate. Innanzitutto mi ha colpito la grande partecipazione. Un mix di pensionati, dirigenti in attività e loro famiglie.

L’occasione era rappresentata da uno spettacolo musicale senza artisti particolarmente noti e senza molte pretese con alla fine una lotteria per incentivare le offerte economiche. La cosa importante era la grande partecipazione. Il sentirsi a casa propria. Un momento di incontro associativo dedicato ad un’iniziativa importante di solidarietà. Credo che se ne facciano molte e in ogni città ma non è questo il punto che volevo approfondire.

Dietro tutto questo non c’è solo un aspetto volontaristico. C’è un contratto nazionale. C’è cioè un percorso che, nel tempo, ha costruito un destino comune, un insieme di strumenti, cultura e punti di riferimento condivisi tra rappresentanti delle imprese e (in questo caso) i rappresentanti dei dirigenti che hanno deciso di favorire una visione collettiva, solidaristica, positiva di quello che al contrario avrebbe potuto essere solo retribuzione, diritti e doveri.

Chi ha pensato a suo tempo ad un welfare sanitario finalizzato a coinvolgere anche la famiglia del dirigente e lo stesso pensionato ha fatto una scelta che ha contribuito a costruire una cultura diversa. Certo occorre sempre accompagnare queste scelte con una grande attenzione ai costi per garantire la tenuta economica del sistema ma c’è un aspetto solidaristico che lo distingue e che solo un contratto nazionale poteva prevedere.

Così è per la previdenza integrativa. Pensarla nel secolo scorso quando la figura del dirigente aziendale poteva contare su un destino pensionistico roseo e garantito è stato un esempio di grande lungimiranza.

Così è per la formazione. Oggi si parla giustamente di diritto soggettivo per tutti i lavoratori. I dirigenti del terziario l’hanno costruita, attraverso il CFMT insieme a Confcommercio, dal 1974.

E gli stessi dirigenti non hanno protestato di fronte alla proposta di Manageritalia di aumentare per un anno la loro quota associativa finalizzandola al sostegno dei colleghi in fase di transizione occupazionale.

Il compito di qualsiasi organizzazione sindacale, sia che rappresenti il lavoro o le imprese è quello di essere sempre un passo avanti ai propri associati. Non un passo indietro. Ed è purtroppo quello che non riesce più a fare oggi la politica. Rifugiarsi “nel centro del fiume” non è mai una buona scelta.

E il “fieno in cascina” lo si mette da parte insieme proprio per superare le stagioni più difficili. Ecco perché vedere che una associazione di manager riesce a coinvolgere, condividere e costruire momenti di solidarietà fa ben sperare per il futuro del nostro Paese.

Ma questi momenti non nascono solo per l’intuito o la lungimiranza dei singoli. Hanno bisogno di luoghi di sperimentazione e di condivisione. E questi luoghi vanno consolidati, manutenuti e rinnovati affinché non siano ritenuti superati e vuoti contenitori di un passato che non ha più ragione di esistere.

Il senso di comunità e di solidarietà che ci caratterizzano come Paese rappresentano l’unico argine ai populismi e agli egoismi che si stanno diffondendo in tutto il mondo.

Difenderne i luoghi e gli ambiti è compito di ciascuno di noi.

E adesso?

Con l’annuncio dell’accordo sul contratto della PA si chiude un’epoca. Non è un caso se in sequenza Artigiani, Confcommercio e presto Confindustria hanno concluso o concluderanno intese molto importanti sui livelli della contrattazione, sui suoi contenuti futuri e sulla rappresentanza.  Così come non è un caso la conclusione unitaria del CCNL dei metalmeccanici.

I contratti che restano capziosamente aperti sembrano un po’ assomigliare a quei soldati giapponesi che nonostante la guerra fosse conclusa continuavano a combattere contro un nemico immaginario.

Molti commentatori si domandano, a buon diritto, cosa possa essere successo, di così significativo, in questi pochi mesi, da contrapporre ad una politica estremamente litigiosa una relazione fattiva e positiva tra le parti sociali.

C’è chi lo fa risalire al referendum e alla precisa volontà del premier di rasserenare il Paese, c’è chi cerca di legarlo a traiettorie di carriera individuale di qualche sindacalista, chi, al contrario per ragioni più nobili.

Leon Battista Alberti ci ricorda che: “Per fare una discordia, vi bisogna due. A perseverare in concordia, basta che uno de’ due sia savio”.

Sarebbe però forse troppo semplicistico assegnare al nostro Presidente del Consiglio il merito della pace scoppiata dopo la fine ingloriosa della concertazione.

Anche perché non va dimenticato che lui stesso aveva ereditato una situazione di pesanti contraddizioni  e di profonde ferite tra le diverse organizzazioni sindacali sulle quali non si era certo risparmiato nel versare quantità industriali di sale senza cercare, e di questo gliene va dato atto,  di sfruttarne le divisioni. Ma tant’è.

Tra l’altro anche Susanna Camusso smentisce questa tesi e credo abbia ragione. Probabilmente si è diffusa una diversa consapevolezza. Per il momento solo tra i corpi intermedi. Purtroppo non ancora nel Paese sempre più occupato ad azzuffarsi con toni sopra le righe su ogni questione a cominciare dal referendum.

Il contratto dei metalmeccanici, da questo punto di vista, è stato paradigmatico.

Solo lì poteva avvenire il salto di qualità. Dove le contraddizioni tra innovazione e resistenze al cambiamento sembravano essere più forti, dove il vecchio modello sindacale e contrattuale aveva raggiunto, più che altrove, la sua maturità, dove le ferite anche sul piano personale erano più profonde. E dove entrambe le parti in causa dovevano dimostrare una capacità di governo autonomo e autorevole e la determinazione  di saper guardare solo in avanti.  E così è stato.

Adesso il timore è che quanto di peggiore alberghi nei corpi intermedi cerchi di riassorbire quanto è avvenuto di innovativo e costruttivo banalizzandolo o strumentalizzandolo.

Dunque il clima è diverso. C’è forse spazio per fare un ulteriore passo in avanti e sforzarsi di condividere soluzioni da offrire al Paese.

Gli aggettivi che in questi giorni si sprecano per descrivere ciò che sta avvenendo tenderebbero a far pensare che è un obiettivo possibile. Dal 5 dicembre questa lungimiranza, rispetto per il proprio interlocutore, volontà di condividere e di orientare positivamente il mondo del lavoro e dell’impresa sono “tanta roba” in un Paese in crisi di identità e di prospettive.

Cerchiamo di non disperdere questo patrimonio e questa determinazione anche perché se non vengono messi a disposizione del futuro del Paese rischiano di ribaltarsi contro a chi li ha voluti, costruiti e ottenuti non certo per sé o per soddisfare modeste ambizioni personali.

Chi vuole un Paese nuovo, diverso, positivo e costruttivo sa che dal 5 dicembre ci sarà molto da fare.

GDO e contratti nazionali. Ancora nuovi stop…

Com’era prevedibile nessun passo in avanti si è compiuto sul tavolo negoziale tra Federdistribuzione, Filcams, Uiltucs e Fisascat anche nei recenti confronti.

Mentre tutte le categorie stanno trovando una ricomposizione positiva così non è nella GDO sia nella parte di Federdistribuzione che nel contratto della Distribuzione Cooperativa. Paradossalmente per ragioni opposte.

FEDERDISTRIBUZIONE. Le ragioni che bloccano il negoziato sono note. Abbandonata la linea inconcludente e velleitaria che ha caratterizzato la gestione del negoziato fino a poco tempo fa, alcune aziende, preoccupate dallo stallo, hanno chiesto a Federdistribuzione una svolta di metodo. Riprendere il dialogo e cercare una soluzione.

Tre punti di forte dissenso ancora presenti e di difficile soluzione. La proposta salariale che è ancora insufficiente, secondo il sindacato, un welfare che Federdistribuzione vorrebbe gestire da sé in un contesto che richiede ben altre masse critiche e, infine, una bilateralità dedicata.

La GDO è rimasta, che lo si voglia ammettere o meno, l’ultima frontiera del fordismo contrattuale. Spesso  appesantita da una contrattazione aziendale di vecchia impostazione.

Nei punti vendita, i sindacati in evidente crisi di rappresentatività e i responsabili aziendali, si affrontano in disaccordo su quasi tutto. Il sindacato confederale di categoria è in grande difficoltà e le aziende non hanno nessuna intenzione di concedere nulla per rianimarlo.

La legge del pendolo domina incontrastata; il più forte comanda. L’idea di avere un contratto dedicato però rischia di essere sempre più superata dagli eventi che richiederebbero ormai riflessioni più avanzate e meno scontate.

Una di queste potrebbe inserirsi nel recente modello contrattuale definito tra Confcommercio e Sindacato Confederale che consentirebbe, alle singole imprese, di ottenere deroghe e flessibilità importanti. Ma questo presuppone un approccio culturale e sociale innovativo purtroppo ancora estraneo a quel mondo.

DISTRIBUZIONE COOPERATIVA. Qui, al contrario, è il sindacato che rischia di non capire la posta in gioco. Da una parte Fisascat-Cisl, Filcams-Cgil e Uiltucs Uil e, dall’altra le associazioni nazionali Ancc Coop, Confcooperative ed Agci Agrital. Scaduto nel 2014 questo contratto non ha ancora trovato una positiva conclusione.

Quello che stupisce è che l’organizzazione datoriale, da sempre, è molto attenta all’interlocutore sindacale al contrario della GDO privata. Forse troppo attenta. Dall’altra un sindacato che, non chiudendo ad oggi alcuna intesa, abusa enormemente di questa attenzione.

E non dimostra una sufficiente visione strategica. Non trovo altre parole per giustificare la situazione. Il sistema della distribuzione cooperativa opera nello stesso mercato dove opera la GDO nazionale e multinazionale.

Ha indubbiamente dei benefici finanziari che però oggi rischiano di essere abbastanza spuntati. Conserva però diversi punti di differenza in negativo sul costo del lavoro rispetto ai competitors di settore. Nonostante questo, il contratto non si firma.

Aggiungo che le proposte avanzate dalla delegazione datoriale sono finalizzate ad allineare alcune norme a quelle già in essere in tutta la Distribuzione, nazionale e multinazionale, ormai da molti anni.

Un contratto nazionale innovativo per questo comparto dovrebbe saper definire in quanto tempo tutti i principali differenziali di costo si possano ridurre, pur in modo progressivo e intelligente, ammortizzandone gli effetti sui lavoratori o trovando le compensazioni necessarie.

Pensare di non avviare una grande operazione di trasparenza e di confronto con i lavoratori del comparto restando prigionieri dei veti di chi non ha capito la posta in gioco è un esercizio molto pericoloso per la prospettiva dell’intero settore della distribuzione cooperativa.

Il paradosso è dato dal fatto che, per quanto riguarda la GDO, nazionale e multinazionale, la responsabilità dello stallo è tutta di quelle imprese che chiedono a Federdistribuzione di non impegnarsi più di tanto per individuare mediazioni accettabili dalla controparte sindacale mentre, nel caso delle Coop, è tutta del sindacato.

Principalmente di un sindacato. O di parte di esso. E questo non è accettabile. Né nel primo caso né nel secondo.

Contratto metalmeccanici. Significato e prospettive.

Le conclusioni dell’ottimo articolo di Dario Di Vico vanno all’essenza della vera novità del nuovo contratto dei metalmeccanici. Forse all’essenza di quelle che dovranno essere le nuove relazioni tra capitale e lavoro nell’era della globalizzazione: l’inevitabile esigenza della collaborazione.

E il fatto che questo sia emerso con tutta evidenza al tavolo della categoria apparentemente meno sintonizzata sindacalmente su questo tema lo rende ancora più evidente e urgente.

Le svolte, nascono quasi sempre da lì, dai metalmeccanici, proprio perché la sensibilità e le potenziali resistenze sono vere. Da entrambe le parti.

Federmeccanica non è una federazione di furbacchioni che cercano di fregarsi l’uno con l’altro per contendersi qualche consumatore strada per strada. O che stanno distruggendo i loro margini avendo in testa solo il costo del lavoro come purtroppo avviene in altri comparti.

Sa benissimo che tra vincere e stravincere c’è una grande differenza in epoca di populismi imperanti, sa individuare dov’è il problema vero e la necessità o meno di condividerne le soluzioni e sa, infine, quando è il momento di favorire un percorso di rinnovamento che deve essere anche delle relazioni sindacali e di tutto il sindacato se il fordismo, snodo fondamentale del 900, deve essere superato per affrontare le sfide che incombono.

Lo stesso vale per il gruppo dirigente del sindacato. Qui devo dire che se Marco Bentivogli ha fatto da “pesce pilota” dietro non è solo. Ma neppure di lato. FIOM e UILM non sono state da meno. E l’immagine finale con l’abbraccio sincero tra Landini e Bentivogli per me, che sono della vecchia scuola, vale un contratto. Senza dimenticare l’importante collante fornito dallo stesso Palombella, segretario generale della UILM.

Così come la foto finale tutti insieme, tra i negoziatori, che sarebbe stata giudicata scandalosa fino a pochi anni fa, mi ha ricordato il terzo tempo del rugby. Anche quella descrive le intenzioni più delle parole.

A quel tavolo sta forse crescendo un nuovo modo di fare relazioni industriali. Nuovi corpi intermedi crescono. Mi sembra evidente. La ragione è semplice. Soli non si va da nessuna parte.

La globalizzazione impone una ridefinizione dei confini del passato tra tutto ciò che va dai produttori ai consumatori passando per fornitori, banche, contesto politico e sociale, manager e collaboratori, clienti.

Quindi anche delle relazioni sindacali. Tutto si tiene.

L’impresa da sola non va da nessuna parte. Né quella che affronta il mondo a viso aperto, né quella che, pur restando su di un mercato interno, è messa in discussione da altri, nel mondo. Per questo la contrattazione aziendale è importante.

E lo sarà sempre di più. È lì che si creano le condizioni fondamentali della necessaria collaborazione. È lì che la cultura sta cambiando più rapidamente che su altri tavoli. E il contratto nazionale non può essere più una camicia di forza che rallenta il cambiamento.

Deve diventare uno strumento flessibile, modificabile, plasmabile su esigenze specifiche. Altrimenti diventa uno strumento obsoleto. È, ad esempio, lo sforzo che è stato fatto con il recente accordo tra il sindacato confederale e la Confcommercio e che, credo, proseguirà nel  prossimo round con Confindustria.

E aver capito che questi necessari cambiamenti devono avvenire in un quadro di garanzie che solo il CCNL può dare è indice di lungimiranza e maturità del sistema.

La sfida di industry 4.0 non è la sola. Come evolveranno i modelli di business delle imprese, come la digitalizzazione impatterà sul lavoro e sull’innovazione organizzativa, come evolverà l’adozione dei modelli di data driven decision, quali saranno le professioni emergenti/declinanti, come sarà il mercato del lavoro e il nuovo welfare sono i veri temi all’ordine del giorno di chi si occupa di lavoro e impresa.

All’ordine del giorno di oggi, non di chi sa quale domani. E non c’è più tempo da perdere.

Aver deciso di giocare questa partita e di giocarla insieme qualifica ancora di più questo contratto. L’onorevole Sacconi fa bene a sottolinearlo.

Adesso tocca a ciascuno di noi. Il dado è tratto.