Pensioni, pensionati, pensionandi….

Ci siamo. Non riuscendo a mettere mani sulle pensioni retributive l’INPS ha lanciato una maledizione.

Chi va in pensione con il retributivo, lo dicono le statistiche, muore prima.

Questa mancava.

All’idea che i pensionati retributivi rubassero il futuro si giovani ci si stava abituando. Così come alla proprietà transitiva utilizzata dai media che omologa vitalizi e pensioni d’oro a tutte le pensioni calcolate con il metodo retributivo.

Prendo a prestito una metafora dell’amico Bentivogli per affermare che non è più buona cosa stare “pancia all’aria a Formentera”. Meglio “pancia a terra” in fabbrica.

Siamo alla frutta. Adesso attendiamo le dichiarazioni del Presidente dell’Inps che non essendo l’autore di questa sortita si sentirà in dovere di dire la sua.

Siamo di fronte alla scoperta dell’acqua calda.

Chi cura la propria salute, chi tiene allenato il proprio corpo e il proprio cervello, chi fa un lavoro meno pesante, campa di più.

Vien da pensare che, forse è proprio per arginare questa verità, che lo Stato cautela le proprie entrate con il fumo, l’alcol, il gioco d’azzardo e la benzina.

Se non puoi ridurli o tassarli (i pensionati retributivi) spaventali e dai a tutti gli altri (i pensionandi) una ragione per rinunciare al traguardo.

I prossimi anni, abituiamoci, saranno così. Dotti interventi di esperti delle pensioni altrui sulle curve e sui tassi di sostituzione alternati da minacce di contributi aggiuntivi o passaggi repentini a nuovi sistemi di calcolo.

Le trincee però sono scavate. Prima i vitalizi, poi le pensioni dei parlamentari e di altri potenziali privilegiati, poi le pensioni d’oro, poi le pensioni alte, poi la mia.

La vedetta eletta all’unanimità (via web) è Mario Capanna. Lui è là davanti sulla prima barricata. Ha smesso di lavorare presto, esce dal letargo solo per ricorrenze particolari tipo inaugurazione della Scala o rievocazioni del 68. Gode di ottima salute.

Cosa dirà oggi dopo aver letto la minaccia non tanto subliminale dell’INPS? Compagni, c’è uno spettro (il sistema pensionistico) che si aggira per l’Europa.

Non riuscendo a metterci le mani in tasca è passato alle maniere forti. Non vuole prenderci un contributo, vuole prenderci tutta la pensione. È il capitalismo, bellezza.

Ribelliamoci fino a che siamo in tempo.

Merito individuale e sindacato, un ossimoro insuperabile?

In un recente convegno del Forum della Meritocrazia ha preso la parola Roberta Roncone, una dirigente della FIM CISL, il sindacato dei metalmeccanici.

Un intervento richiesto che dimostra la visione degli organizzatori che vedono nel Merito con la emme maiuscola una sfida necessariamente da allargare a tutti i soggetti che concorrono a determinare i risultati in azienda.

Dall’altro, una partecipazione senz’altro voluta da un sindacato, la FIM CISL che cerca di comprendere a fondo l’evoluzione dei modelli organizzativi, la professionalità quindi la formazione necessaria e il suo riconoscimento. E questo implica inevitabilmente un atteggiamento sindacale ben diverso dal passato nei confronti dell’impegno individuale e del merito.

Se torniamo un po’ indietro nell’impresa post bellica e prima della grande ondata migratoria dal sud, nelle aziende del nord si respirava un’aria fortemente paternalistica ma, tutto sommato, collaborativa. Il rapporto tra imprenditori, dirigenti e lavoratori era duro ma costruttivo. Dalla culla alla tomba l’azienda si occupava dei suoi dipendenti migliori in cambio della loro totale fedeltà. Il sindacato era ai margini.

Bisogna arrivare a dopo la metà degli anni 60 per vedere questo rapporto, comunque asimmetrico, entrare definitivamente in crisi. Soprattutto nella grande impresa.

Non è un caso che le prime grandi rivendicazioni operaie avvengono in aree periferiche e non come sarebbe stato prevedibile nel triangolo industriale. Dove l’etica del lavoro, l’impegno e la disponibilità erano maggiori.

Ma qualcosa si stava rompendo e le aziende stentavano a comprenderlo. Simbolico, ad esempio, è l’abbattimento della statua del conte Marzotto a Valdagno.

Il paternalismo e la vecchia disciplina quasi militare, che non permettevano una gestione collettiva fuori dai rari accordi nazionali, non erano più in grado di affrontare la nuova fase dove il fordismo cominciava a pretendere ritmi di lavoro sempre più elevati, spersonalizzanti che spingevano inevitabilmente i lavoratori verso le rivendicazioni egualitarie, di massa, proposte dalle organizzazioni sindacali.

Nelle aziende gli uffici del personale prima, le direzioni relazioni industriali poi, diventarono centrali. Affrontavano quotidianamente forti sollecitazioni dal basso e, di fatto, dettavano le regole del gioco a tutto il sistema rendendolo poco sensibile al merito, e al riconoscimento dell’impegno individuale.

Ci sono voluti almeno una decina di anni circa per assorbire e riportare in condizioni di normalità quelle contraddizioni che in parte, purtroppo, permangono ancora oggi. L’affacciarsi delle prime crisi di mercato ha poi fatto il resto.

Le imprese però hanno comunque cercato di mantenere un sufficiente grado di autonomia totalmente slegato dalle richieste sindacali soprattutto nelle piccole e medie aziende perché un rapporto di maggiore coinvolgimento e collaborazione tra imprenditore e lavoratori era connaturato sia alla dimensione che al modello organizzativo. Nelle grandi, al contrario, occorrerà attendere l’arrivo, più in là, dei modelli di gestione delle multinazionali.

Con politiche prima rivolte a dirigenti e quadri, poi a risorse chiave e giovani. Nell’impresa fordista (non solo industriale), però, hanno continuato ad essere esclusi gli operai che restarono e restano, di fatto, tuttora gestiti quasi esclusivamente dalla contrattazione nazionale o aziendale con tutti i vincoli conseguenti.

Da qui, ad esempio, la necessità del sindacato di spingere verso l’alto intere categorie di lavoratori a prescindere dal merito o dall’impegno individuale. E quindi L’inevitabile  costruzione di una cultura corrispondente.

Oggi il paternalismo di vecchio conio è relegato nelle imprese perdenti ma anche le richieste sindacali tradizionali non trovano ascolto.

Le politiche retributive, i sistemi di valutazione, lo sviluppo professionale e il welfare sono sempre più gestiti con un approccio moderno, condiviso e oggettivo.

Parole come, merito, trasparenza, impegno, contributo individuale e collettivo al successo dell’impresa, flessibilità, professionalità sono condivise anche dalla stragrande maggioranza dei lavoratori.

Il sindacato, o almeno parte di esso, si rende conto di essere fuori gioco. Le aziende, tra l’altro, sono sempre meno interessate a proporre atteggiamenti strumentali o non oggettivi.

Un rapporto di lavoro che non è più “dalla culla alla tomba” presuppone reciproci interessi da riconoscere. Si trasforma inevitabilmente in un rapporto adulto, dove le convenienze devono essere evidenti per entrambi i contraenti.

Se non ci sono più garanzie sulla durata del rapporto di lavoro lo scambio deve prevedere altri valori o interessi.

Quindi la qualità e l’immagine dell’impresa, la possibilità di crescere non solo economicamente, di apprendere, del welfare proposto, di mantenere un proprio valore sul mercato costituiranno sempre di più un elemento importante di valutazione.

E un’azienda sempre più orientata al riconoscimento del merito individuale, dell’impegno, della collaborazione di tutte le sue componenti nella realizzazione dei propri obiettivi Inevitabilmente attrae e mantiene i propri talenti, costruisce un clima positivo, ingaggia e coinvolge di più i propri collaboratori.

Se il sindacato si ferma davanti ai cancelli e si limita a pretendere un ruolo a prescindere dalla propria volontà di contribuire ad una autentica corresponsabilità finirà inevitabilmente marginalizzato. La strada è ovviamente lunga perché la cultura di provenienza e le diffidenze delle imprese pesano come un macigno.

Ma le sfide da industry 4.0 ai nuovi mestieri prodotti dalla globalizzazione incombono e spingono verso scelte nette. Per questo hanno fatto bene il Forum della Meritocrazia e l’AIDP a favorire questo incontro. E ha fatto bene la FIM CISL a mettersi in gioco accettando la sfida.

La coda del cane..

Quando mi trovo incastrato in discussioni su come chiamare una nuova situazione, un nuovo concetto, un’attività mai fatta prima ricordo sempre quel vecchio proverbio che dice: ” puoi anche decidere di chiamare zampa la coda del cane ma comunque non puoi sostenere che il cane ha cinque zampe. In tema di nuovi lavori siamo un po’ qui.

Da una parte chi pensa che sia assolutamente necessario lasciar crescere un fenomeno indotto dalla tecnologia e dalla globalizzazione non preoccupandosi più di tanto di trovargli un nome appropriato e una classificazione conseguente.

Dall’altro chi si preoccupa di dover inserire immediatamente l’anomalia in una casella tradizionale o crearla ad hoc. Al netto della tecnologia, quindi già da molto tempo, i sistemi retributivi, di inquadramento contrattuale e di classificazione sono utilizzati dalle imprese esclusivamente per evitare contenziosi.

Le quattro definizioni del codice civile, pur essendo indispensabili ai fini giuslavoristici fanno sorridere nella vita reale delle organizzazioni. Come nel film “Quo Vado” era il posto fisso a identificare una categoria di lavoratori, in azienda, se si volesse fare altrettanta ironia, si utilizzerebbero termini come Dirigente, Quadro, impiegato e operaio.

Oppure le declaratorie contrattuali. Tutti questi termini nascono e muoiono nella lettera di assunzione che definisce i confini del rapporto di lavoro ai fini giuslavoristici. Poi c’è la vita vera.

Questa spaccatura netta tra definizione giuridica e contrattuale e realtà è stata importata dalla cultura delle multinazionali e si è imposta già a partire dagli anni 90. Non ha però influenzato il pubblico impiego né parte del lavoro autonomo tradizionale né quello che resta del fordismo ormai al tramonto.

In alcuni contratti si è tentato in qualche modo di rincorrere il problema ma i buoi erano ormai già usciti dalla stalla. I sistemi retributivi, premiali, di valutazione, la denominazione delle posizioni di lavoro e i conseguenti livelli di inquadramento, pur facendo riferimento ai contratti nazionali per i motivi di cui sopra, vivono ormai di luce propria e sono gestiti direttamente dall’impresa.

E quello che sta avvenendo all’interno delle aziende avviene anche nel lavoro autonomo, ordinistico e non ordinistico, stravolgendo contenuti, confini, compensi e opportunità. In questo contesto nascono nuovi mestieri o spunta periodicamente l’idea di rinominarli.

Così i fattorini o pony express diventano bikers, vendere le enciclopedie la domenica o distribuire i volantini dei supermercati, gig economy, affittare la propria stanza ad uno studente o a un turista, sharing economy.

Tutte cose che in misura modesta si sono sempre fatte. La nostra vecchia arte di arrangiarsi, rivisitata nella silicon valley, si è trasformata in jugaad innovation e viene insegnata da guru che riempiono aule di manager alla ricerca di qualcosa di nuovo.

Solo che dietro a tutto questo non c’è la signora Maria di turno o il cassaintegrato che, in nero, arrotonda il suo magro reddito ma multinazionali in grado di influenzare il dibattito internazionale sul fisco, sul lavoro e sulla tecnologia.

E quindi, certi temi, vengono affrontati con cautela o con subordinazione. Sul fisco non si parla di grandi evasori che sfruttano le falle dei sistemi nazionali così come sul lavoro o sulle attività economiche non si parla di regole che devono valorizzare la sharing economy senza farla scadere in shadow economy sulla quale peraltro vantiamo, credo, il primato mondiale.

Mi ricordo quando sul finire del secolo scorso in alcuni supermercati della Coop comparvero pensionati di quell’azienda intenti a riempire sacchetti, alle casse, per sveltire il servizio ai clienti. Operazione meritoria. Purtroppo interdetta alle aziende concorrenti subito bersagliate dagli ispettori del lavoro. Quindi stesso mercato, stesse regole.

Che dire? È chiaro che non ha alcun senso attendere l’esito delle cause in Inghilterra su Uber o le decisioni della città di New York. Forse avrebbe più senso affrontare il tema senza farsi prendere la mano dalle mode o dalla paura del giudizio interessato di molti.

È un po’, mi si passi il paragone forzato, come la questione dell’olio di palma. Le imprese, o almeno una buona parte di esse, ha aderito ad un onda cercando di sfruttarla dal punto di vista del marketing fino a quando un’azienda importante che ritiene fondamentale l’uso  di quel prodotto non ha detto basta trasformando uno tsunami in una tempesta dentro un bicchiere d’acqua.

Qui siamo. Da un lato c’è il lavoro che cambia in una fase comunque di transizione epocale. Nei prossimi anni dovremo far coesistere modelli, culture, regole che comprendono sia il vecchio che il nuovo. È il destino delle nostre generazioni.

Noi siamo chiamati a fare quello che abbiamo sempre fatto in modo nuovo. Chi verrà dopo di noi, al contrario, dovrà fare cose nuove in modo nuovo. A noi spetta il compito di renderlo possibile senza lasciare scoperto nessuno. E soprattutto senza prendere in giro nessuno.

La flessibilità del CCNL del terziario trova una nuova conferma.

È più importante la firma, comunque ottenuta, di un contratto nazionale o gli affidamenti che si costruiscono all’interno di consolidate relazioni sindacali tra le parti stipulanti?

Un negoziato, per quanto facile o complicato si possa presentare, non fotografa solo la rappresentatività o i rapporti di forza che le parti sono in grado di mettere in campo ma anche e soprattutto l’affidabilità reciproca.

Ai tavoli negoziali si fanno intendere molte cose pur di ottenere un risultato. Da entrambe le parti, però, di quelle parole non resta molto. Questo contribuisce inevitabilmente a incrinare la credibilità concreta dei negoziatori e delle organizzazioni che rappresentano.

Chi oggi non riesce a chiudere i contratti paga anche questo scotto. Le parole, le dichiarazioni, gli impegni non sottoscritti nero su bianco senza quella credibilità che si conquista sul campo, non sono sufficienti a garantirne l’affidabilità.

E, quella credibilità non può che essere di tutto il gruppo dirigente, unitariamente inteso, se il negoziato è di una intera categoria, quindi di natura nazionale. Ma questo vale anche per le associazioni datoriali che sono chiamate a garantire il rispetto di ciò che si concorda nelle imprese che applicano il contratto stesso.

Se restiamo nel terziario, uno degli errori di Federdistribuzione è stato proprio pensare che per sottoscrivere un contratto nazionale bastasse indicare un proprio perimetro esclusivo di riferimento e, all’interno dello stesso, promettere alle imprese associate un risultato teoricamente allettante per i loro amministratori delegati in costante ricerca di riduzione dei costi.

Riproponendo, più o meno inconsapevolmente, uno schema novecentesco a parti rovesciate quando i sindacati di categoria promettevano nelle assemblee dei lavoratori piattaforme ricche di obiettivi di improbabile realizzazione.

E non considerando minimamente che l’atteggiamento apparentemente disponibile di questa o quella organizzazione sindacale manifestato a questa o a quella azienda, si sarebbe trovato a fare i conti con un equilibrio da individuare tra parole e affidamenti in testi da concordare ma anche e soprattutto con le dinamiche dell’intero comparto del terziario gestito dalle stesse organizzazioni sindacali con ben altri interlocutori.

E, per dirla con una brutta locuzione sostantivale maschile in grande uso di questi tempi, il “combinato disposto” di richieste irrealizzabili in un contesto ben più ampio del perimetro ipotizzato ha determinato lo stallo nel quale il negoziato si è arenato.

E adesso trovare una “exit strategy” per loro non sarà impossibile ma resta molto più complesso di prima e rischia di non essere affatto indolore in termini di costo per le imprese e di ripercussioni economiche per i lavoratori coinvolti.

L’affidabilità, la coerenza, il senso di responsabilità non si manifestano solo all’atto della firma di un contratto di nuovo conio ma accompagnano i contraenti per tutta la durata dello stesso.

Non ci può essere nulla di automatico né di scontato. Se così fosse si minerebbe alla base la logica stessa dell’esistenza di un contratto nazionale.

Nel caso del contratto nazionale del terziario questa coerenza ha determinato la sospensione della tranche sottoscritta e prevista per il mese di novembre. Il sindacato di categoria (Filcams, Fisascat e Uiltucs) e la Confcommercio hanno concordato di rinviarne l’erogazione.

Ovviamente un atto di questa portata dettato da lungimiranza e senso di responsabilità verrà analizzato da diversi punti di vista meno che da quello fondamentale. Il contratto nazionale ha un futuro solo se si conferma come un prodotto di una responsabilità condivisa.

Nell’interesse delle imprese ma anche dei lavoratori. In questo caso di ben oltre tre milioni di addetti. Non farà notizia come tutto ciò che riguarda il terziario ma, come dice spesso il Presidente Sangalli: “terziario, si ma secondi a nessuno”.

E così è stato sul terreno dell’innovazione contrattuale e delle relazioni sindacali. Un contratto nazionale, soprattutto in un comparto come il terziario, per reggere in un contesto in continua evoluzione deve essere flessibile, derogabile, adattabile e modificabile.

Non certo solo ogni quattro anni. Lo ha dimostrato producendo recentemente un contratto aziendale innovativo a Venezia per oltre 500 giovani, lo dimostra sospendendo una tranche di aumento con l’accordo unitario di tutto il sindacato di categoria.

È una strada, offerta a tutti i settori, che permette il consolidamento di una necessaria tutela collettiva che solo un CCNL può garantire ma anche una opportunità nuova per le imprese che in questo modo possono programmare tarando i propri costi e il proprio agire ad un contesto in continuo cambiamento.

È il momento di rompere gli schemi…

Con la concertazione giunta al capolinea sembrava non ci fosse più niente da fare per i corpi intermedi. La disintermediazione (teorizzata e praticata) proponeva al Paese la possibilità di farne a meno e, nei comportamenti concreti il Governo sembrava deciso ad andare in quella direzione.

Le organizzazioni datoriali (soprattutto Confindustria) confinate ad un ruolo ancillare, CGIL,CISL e UIL “condannate” ad una inefficace quanto tardiva unità d’azione incapace di contrastare le iniziative della politica ma anche di contribuire, con proposte, alla loro formulazione pratica.

Gli ottanta euro hanno, per certi versi, rappresentato la sublimazione di quel tentativo di delegittimazione. Il suo punto massimo. Quando Renzi annuncia:”ho dato più io dei sindacati” lancia una sfida.

Così come quando si interroga sulla rappresentatività di Confindustria nelle aziende controllate anche dal Tesoro. È il momento dove l’appuntamento a Cernobbio dei forum Ambrosetti è un luogo da evitare perché frequentato dai “professionisti delle tartine” e la “sala verde” posta proprio sopra la sala del Consiglio dei Ministri, quasi ne fosse metaforicamente superiore in ordine di importanza, viene additata al pubblico ludibrio.

Quella fase, però, si schianta sugli zero virgola. Un Paese che non cresce non può ridursi al pallottoliere. Sul PIL, sulla qualità delle assunzioni, sui risultati (migliori del passato) ma ben lontani da ciò che servirebbe ad un Paese disorientato e preoccupato.

Un disorientamento non colmato da un’Europa sempre più matrigna e distante, incapace di leggere la stanchezza di interi popoli verso le loro elites nostrane ma anche verso gli altrui egoismi nazionali. Tutto questo ha segnato una svolta. Non anti renzista ma antirenziana come direbbe Oscar Farinetti.

C’è sempre un Paese che vuole cambiare, integrarsi in una Europa diversa, che vede nella globalizzazione una opportunità e non solo un pericolo, che crede in un futuro possibile.

Un Paese a cui magari piace meno, non piace più o non è mai piaciuto Renzi, la sua arroganza personale, il suo disegno politico o la sua narrazione della realtà che non corrisponde a quella vissuta concretamente ma ne comprende la necessità, l’urgenza delle sfide da condividere e, soprattutto, l’obiettivo di fare del nostro Paese un luogo diverso, attraente, normale e ricco di opportunità.

La mancanza di risultati sul terreno della crescita, le risse interne al PD, i magri risultati elettorali, l’avvicinarsi del referendum hanno spinto Renzi e il suo Governo a cercare interlocutori e sostenitori non tanto sul leader in sé quanto su scelte economiche e politiche che ricreassero condizioni di confronto, di condivisione e di collaborazione nell’interesse del Paese.

Da qui l’interlocuzione costruttiva con i corpi intermedi che hanno colto l’importanza e la necessità di rimettersi in gioco con proposte equilibrate, realizzabili e in grado di evitare forzature che lacererebbero ulteriormente il tessuto sociale del Paese.

La trattativa sulle pensioni e gli interventi condivisi a favore delle imprese e della crescita sono lì a dimostrarlo. Sono segnali importanti della volontà di intraprendere una diversa direzione di marcia. Adesso la palla è nel campo dei corpi intermedi. I segnali sono incoraggianti.

Confcommercio è da tempo su questa linea. Il neo presidente di Confindustria Boccia a Capri, all’assemblea dei giovani è stato altrettanto chiaro, la CISL e la UIL in modo esplicito, la CGIL a corrente alternata hanno tutti condiviso la necessità di cambiare a partire dall’accordo sulla contrattazione e dalla chiusura dei contratti aperti per arrivare ad un vero e proprio patto per il Paese. Il tempo non è molto.

Il Presidente dei giovani di Confindustria Marco Gay a Capri è stato lapidario: “ripresa nel 2017 o lacrime e sangue”. Non è una previsione pessimistica. È quello che ci aspetta. Per questo occorre una rinnovata assunzione di responsabilità collettiva.

Aprire la stagione della “corresponsabilità” significa impegnarsi per cambiare davvero il Paese. E farlo insieme è la condizione indispensabile. I segnali di una possibile disgregazione politica e sociale ci sono tutti e non solo in Italia. Occorre non sprecare questa volontà di convergenza..

Scapoli contro ammogliati…

La partita che si gioca oggi nelle piazze non influenza minimamente l’esito del campionato. L’estremismo inconcludente e parolaio trascina nei suoi cortei e mostra a tutti anche una parte degli ultimi. Quelli che, ogni giorno, ci sforziamo di non vedere.

Però chi li dirige non è uno di loro. Ultra garantiti del settore pubblico e parapubblico e vecchie glorie dell’estremismo sindacale d’antan guidano la protesta.

Obiettivi politici, totalizzanti, impossibili e onnicomprensivi, come sempre. Una grande confusione che nasconde l’assoluta mancanza di soluzioni possibili.

Per molti giovani bikers di Foodora il termine USB è più che altro associato ad una chiavetta da inserire nel PC mentre, per chi aderisce allo sciopero nazionale indetto proprio da questa sigla e dal variegato mondo del sindacalismo estremista ha ben altro significato.

Sono generazioni e mondi diversi. È però singolare la concomitanza dei due avvenimenti. Da una parte chi sta ottenendo “ben” 4 euro lordi a consegna. Dall’altra chi è riuscito a mettere insieme intoccabili del settore pubblico, marginali del lavoro dipendente, immigrati disperati inquadrati in cooperative di vario colore intrisi da una retorica buona per tutti. I primi, se va bene, avranno ottenuto di dare maggiore dignità alla cosiddetta gig economy con ben 7.20 netti all’ora, la possibilità di rivolgersi a riparatori di biciclette convenzionati e un’assicurazione se dovessero provocare danni a terzi per la fretta con cui saettano per la città. Nell’altro caso a detta degli stessi organizzatori lo sciopero è indetto con lo scopo di paralizzare il Paese.

C’è un po’ di tutto e di più nella protesta. “Per l’occupazione, il lavoro e lo stato sociale, contro le politiche economiche del governo Renzi dettate dalla UE; per la difesa e l’attuazione della Costituzione ed il NO al Referendum; per la scuola e la sanità pubbliche ed il diritto all’abitare; contro l’attuale sistema previdenziale e la controriforma Fornero, la riforma Madia, il jobs act, l’abolizione dell’art.18, la precarietà, l’attacco al Contratto nazionale; per il rinnovo dei contratti del pubblico impiego, per l’aumento di salari e pensioni, per il reddito, per la sicurezza sul lavoro e nei territori; contro le privatizzazioni, la deindustrializzazione, e per la nazionalizzazione di aziende in crisi e strategiche; contro la Bossi-Fini e il nesso permesso di soggiorno–contratto di lavoro; contro la guerra e le spese militari; per un fisco giusto senza condoni agli evasori; per la democrazia sui posti di lavoro ed una legge sulla rappresentanza che annulli l’accordo del 10 gennaio 2014.

Dietro questa sproporzione siderale tra le richieste e i risultati di cui dovranno accontentarsi i bikers torinesi e le rivendicazioni politiche dei cosiddetti sindacati di base c’è il nostro Paese.

Un Paese fragile, che rischia un declino vero mentre sembra sentirsi a proprio agio in una perenne assemblea di condominio sui media e nelle piazze dove a tutti è consentito di urlare la propria rabbia e il proprio dissenso ma a condizione che nulla venga risolto se non a danno del vicino. Su altri tavoli, ad esempio, i sindacati confederali dei metalmeccanici stanno cercando di rinnovare il loro contratto con passione e serietà, altri lo hanno già fatto e altri ancora seguiranno.

E le richieste sono innovative, compatibili e costruttive. Io credo che, ciascuno di noi, dovrebbe fare di più per scrollarci di dosso, questa parte del Paese inconcludente, parolaia, benaltrista e rancorosa. Proprio per voltare pagina, insieme. Anche perché, l’Italia insoddisfatta, non è tutta lì. Un’altra parte, ben più consistente vagola a destra o altrove nel nostro panorama politico.

A mio parere chi vuole un Italia diversa, positiva, accogliente, costruttiva e integrata in Europa è comunque la stragrande maggioranza del Paese. Possono stare a destra come a sinistra o in centro. Hanno scelto i sindacati confederali, le associazioni datoriali o mille altre realtà dove fare volontariato e impegnarsi per sé ma anche per gli altri.

Sono convinti che la solitudine e la mancanza di risposte credibili porti inevitabilmente chi non ha nulla da perdere in quelle piazze o ingrossi sentimenti di isolamento e quindi di rancore sociale. E li rende facili prede di strumentalizzazioni di ogni genere.

Chiedono solo di poter credere in una buona politica rinnovata e concreta che sappia indicare un percorso difficile ma credibile. Come i bikers di Torino che, in fondo, volevano solo risposte concrete, non dotte disquisizioni o convegni sulla natura del loro rapporto di lavoro. E l’azienda sembra averlo capito immediatamente. Adesso spetta ad altri consolidare e costruire un quadro di riferimento credibile per questi come altri nuovi mestieri.

Certo non tutti i bikers saranno soddisfatti. L’idea che si possa tentare un rilancio o ottenere di più sfruttando il momento propizio dell’unità e della protesta potrebbe anche prevalere. Ma il vero negoziatore sa che una forzatura nel momento di maggiore forza verrà pagata con gli interessi quando questa forza cambia segno.

E questo vale per tutti i negoziati. L’altra strada, quella praticata da molti dei marciatori odierni, è quella di fuggire dalla responsabilità di decidere e di scegliere dietro slogan del tipo: “diciamo basta, vogliamo tutto”. Ma un Paese non cambia dando poco a tutti o tanto a pochi ma dando il giusto a ciascuno.

E il giusto deve essere la Politica a determinarlo. Quindi, non ciascuno di noi chiuso nel suo particolare, ma tutti noi come parte della stessa comunità in cammino.

Il vaso di Foodora si è rotto. È ricostruibile?

La metafora usata da Di Vico sul Corriere, a proposito del segnale emerso dalla vicenda dei bikers torinesi, è stimolante e, a mio parere, merita un ulteriore approfondimento. Il vaso di Foodora (l’azienda coinvolta nella vicenda) sostiene DI Vico, si è rotto e, con lui, molto probabilmente, è stato evidenziato, ancora una volta, la crisi del rapporto tra lavoro e consumo.

Nel recente libro “Che fine ha fatto il capitalismo italiano?” di Giuseppe Berta l’autore affronta il tema in modo netto. “…Il messaggio che ci viene dalle imprese high-tech, quelle che adesso hanno più facilità nel raccogliere capitali e convogliare liquidità, è che tutto domani costerà un po’ di meno di oggi.

Costerà meno prendere un’auto che ci porti a destinazione rispetto al taxi che eravamo abituati ad usare. Ma anche affittare un alloggio privato per due giorni ci costerà meno di un albergo è così via. Peccato che questo mondo low cost che esibisce il volto accattivante della sharing economy, dove la condivisione è vantaggiosa e, apparentemente ispirata al principio di un’essenzialità nemica dello spreco, remuneri inevitabilmente di meno anche il lavoro, sicché le due figure, quelle del lavoratore e del consumatore, che Henry Ford aveva congiunto cento anni fa, vengono di nuovo separate, riducendo per molti la capacità di reddito e quindi di consumo…”

E ancora.. “..High tech e low cost stanno attaccando frontalmente il mondo economico e produttivo di ieri, fondato sull’ipotesi di una espansione praticamente illimitata dei beni di consumo…” È l’altro volto della globalizzazione, bellezza! direbbe qualcuno.

Di fatto, una polarizzazione sempre più marcata di redditi, consumi e lavoro. Quindi un forte ridimensionamento della quantità e qualità del welfare, della contrattazione collettiva e delle politiche sociali in genere. Una società darwiniana dove chi si adatta o chi è più forte sopravvive mentre tutti gli altri, indipendentemente dalla loro nazionalità o dal luogo dove vivono, sarebbero condannati all’emarginazione.

Il sociologo Renato Curcio, più noto per altre vicende ma non per questo meno attento a questi fenomeni, sono anni che insiste sulle contraddizioni tra lavoratore e consumatore. Le sue analisi, pur datate, sui centri commerciali e sulla Grande Distribuzione, presentano l’altra faccia del consumatore di fine secolo: bulimico, isterico, alla caccia continua di tutti gli sconti possibili, desideroso di acquistare tutti i giorni della settimana, domenica compresa e sprezzante verso il lavoratore.

E, inevitabilmente, del lavoratore di fine secolo: circondato nelle sue conquiste sindacali (pause, lavoro domenicale, turnazioni), impossibilitato a migliorarle e indisponibile a condividerle con i nuovi assunti, rancoroso con il sindacato, irritato dal cliente e succube dalle continue riorganizzazioni e ristrutturazioni. Infine i centri logistici.

Luoghi dove i confini tra lavoro autonomo e lavoro dipendente sfumano in lavoratori tutelati dal sindacato e cooperative di dubbia costituzione dove l’etnia e la dipendenza da veri e propri caporali domina la scena. E questi, si badi bene, sono luoghi dove convivono, con queste contraddizioni, multinazionali, grandi imprese, sindacati, imprenditori, centri di ricerca, università, ecc.

Quindi dove esiste oggettivamente la possibilità di studiare i fenomeni, guidarli, correggerli ed eventualmente censurarli. Concludo, sempre con Berta che però ci suggerisce di tenere in considerazione che la risposta non è a portata di mano e soprattutto non è semplicemente riscontrabile in un modello fortemente normato e inclusivo come il modello tedesco infatti: “(esso).. appare in effetti assai meno proiettato all’innovazione di quanto ami raffigurarsi.

È la concezione di una forma di capitalismo che, lungi dall’essere vitale, ha bisogno del soccorso dello Stato per reggersi, e del cemento costituito da un blocco di interessi che agisce come un freno, non solo potenziale, all’innovazione e alla mobilità sociale… e oggi è questa forma di capitalismo a rischiare l’obsolescenza..”

Qui sta il punto e, da qui, bisogna ripartire, insieme. Imprese, sindacati, politica e studiosi. Non basta parlare di digital divide, industry 4.0, sharing economy. Né di prendere atto che i millenials o chi verrà dopo, di questo poco che c’è, dovranno accontentarsi.

Né di mettere le generazioni contro, una all’altra, sperando che la soluzione sia sostanzialmente in una più equa divisione di ciò che abbiamo ereditato dal passato in termini di welfare, spesa pubblica e debito conseguente.

Un cambio di paradigma determina inevitabilmente reazioni a catena. L’impresa e il lavoro devono cambiare in profondità. Così come diritti, doveri e welfare. Manzoni diceva: ” Non tutto ciò che viene dopo è progresso”. Personalmente lo condivido. Credo però che sia ragionevole pensare che, tra lasciare che il “nuovo” avanzi come un fiume in piena portando con sé i costruttori degli argini precedenti e lavorare insieme per costruire i nuovi argini la scelta sia obbligata.

L’importante è sapere che il fordismo anche culturale, che ci trasciniamo dal secolo scorso, delle imprese, dello Stato, del sindacato e delle associazioni di rappresentanza non ci darà più buoni consigli. Né ci indicherà una strada, anzi.

Ma qui passa o meno la possibilità di partecipare alla ricostruzione del nuovo vaso.

Foodora: lo sciopero “non” sciopero nell’era del lavoro “non” lavoro…

La notizia ha fatto un certo scalpore. I bikers di Foodora a Torino si sono fermati, non hanno consegnato più i pasti e hanno invitato i clienti a non comprare in segno di solidarietà nei loro confronti.

Le reazioni sono state interessanti. Da un lato i “modernisti” corsi immediatamente a spaccare il capello in quattro per separare l’evoluzione di un’offerta commerciale dagli inevitabili effetti collaterali. Dall’altro i “tradizionalisti” impegnati a inserire la vicenda Foodora in un normale caso di sfruttamento e quindi da stigmatizzare per quello che è. In mezzo l’azienda e i ragazzi coinvolti che si sono trovati improvvisamente in un “gioco” più grande di loro.

Un gioco di cui è facile prevederne la fine. L’azienda, oggi è rigida e indisponibile al confronto. Ha provveduto a comunicare ai singoli alcuni interventi correttivi ma, non avendo alcuna conoscenza del contesto italiano, si avviterà in decisioni opinabili che ne caratterizzeranno l’immagine per lungo tempo.

E questo anche se, più avanti, le verrà suggerito di abbozzare, almeno per un po’ e trovare una soluzione. I bikers coinvolti, troveranno un accordo transattivo. Il rischio vero è che tutto tenderà a riassorbirsi in un nulla di fatto fino alla prossima puntata. In questa o in un’altra realtà della gig economy.

Per il momento, l’opinione pubblica giovanile e il ministro del lavoro Poletti hanno espresso la loro solidarietà ai bikers e si sono messi in moto gli ispettori del lavoro. Come nel caso di airbnb e di altri casi non dovrebbe essere sufficiente un simpatico nome inglese che significa “l’economia dei lavoretti” per eludere regole chiare e semplici. Dietro a tutto questo, non ci sono novelli Steve Jobs nostrani o spezzoni di classe media in cerca di facili guadagni più o meno regolari..

Ci sono multinazionali vere e proprie che muovono miliardi. Questa non è affatto sharing economy ma shadow economy. È il sommerso legalizzato di cui in Italia siamo maestri da sempre. È lavoro nero o, per dirla in inglese, black market…

Mi ricordo che a Ragusa qualche anno fa stavo procedendo con le selezioni per l’apertura di un centro commerciale. I ragazzi, diciottenni o poco più, che si presentavano al colloquio di assunzione mi domandavano se la retribuzione proposta fosse con o senza assicurazione.

All’inizio non capivo cosa fosse questa benedetta assicurazione poi mi hanno spiegato che era assolutamente normale chiedere, in fase di assunzione, se questa fosse con o senza i contributi INPS. Quello che mi colpì fu la normalità della richiesta e la rassegnazione convinta dei richiedenti. Non tanto l’enormità della domanda. Soprattutto quando mi accorsi che ero l’unico, sul posto, a stupirmi.

Accorgermi oggi che non è cambiato nulla o quasi che anziché utilizzare il dialetto, si usa l’inglese perché fa più figo, è inaccettabile. Ma non serve indignarsi. Servono regole. “Stesso mercato, stesse regole” mi sembra uno slogan condivisibile.

Vale per le attività delle finte “Bettine” di arbnb che gestiscono migliaia di appartamenti, deve valere anche per il riconoscimento del lavoro e delle attività economiche di qualsiasi genere. Certo non è pensabile l’applicazione tour court di contratti costruiti per ben altre situazioni ma occorre costruire qualcosa di serio.

Forse nel caso dei bikers saltuari occorrerebbe promuovere formule nuove, anche mutuandole da modelli cooperativi. Non credo corretto attendersi solo dalle organizzazioni sindacali soluzioni perseguibili. I sindacati possono intervenire se i lavoratori coinvolti danno loro un mandato a negoziare.

Nel caso di Foodora non c’è nulla di tutto questo. Anzi, non si può neppure parlare di sciopero. Al massimo di non lavoro di alcuni mentre altri continuano a rispondere senza alcun problema alle chiamate.

C’è un rapporto individuale, saltuario gestito a volte tramite sms che può coinvolgere questi o altri bikers per una o più consegne. L’INPS, il Ministero del lavoro tramite i suoi ispettorati devono accertare la natura dell’attività e la qualità del rapporto.

Esperienze analoghe sono presenti in Francia e in Germania e quindi non dovrebbe essere difficile mutuare elementi e indicazioni per costruire punti di riferimento utili. L’unica cosa che non si può fare è lasciare che le cose si aggiustino da sole.

Né nel caso di airbnb né nel caso di Foodora. Né in nessun altro caso. Lasciar fare non è indice di modernità. Semmai di incapacità ad affrontare ciò che è nuovo o si presenta in modo diverso dal passato.

Sharing economy, non è tutto oro quello che luccica…

Lo sciopero dei ragazzi di Torino della piattaforma Foodora è un segnale significativo. Non è il primo, non sarà nemmeno l’ultimo. Così come ciò che avviene, spesso sotto silenzio, davanti ai cancelli dei centri logistici. Ma, lo stesso, nei B&B improvvisati che lavorano in nero come nell’avanzata strisciante e, senza regole, di formule tipo Uber. La sharing economy quando mostra il suo volto low cost insiste sulla convenienza, sulla essenzialità che riduce gli sprechi sul lato innovativo dell’offerta ma nasconde una altrettanto conseguente riduzione della remunerazione del lavoro. In un recente incontro, il sociologo Aldo Bonomi, raccontava che, in un convegno, era stato chiamato a esprimere una sua opinione sulla portata del fenomeno delle startup individuandone alcune per un riconoscimento sul lato dell’innovazione. Una di queste, molto conveniente, era ideata per lavare le auto del cliente con ritiro a domicilio. Un servizio veramente ben organizzato che comporta una riduzione di sprechi anche di tempo per l’utilizzatore e a condizioni economiche interessanti. Nessuno pareva interessato alle conseguenze retributive di chi ritirava e lavava l’auto. È chiaro che la sharing economy produce un benessere per alcuni ma ha un costo economico e sociale. Lo ha quando entra in rotta di collisione con il business altrui, con chi paga tasse e contributi e con la remunerazione del lavoro. Pensiamo alle piattaforme logistiche e il conseguente lavoro delle pseudo cooperative che vi operano. È un fenomeno inevitabile? Certo se lasciato libero di crescere senza regole tenderà a mettere in difficoltà tutti coloro che, al contrario, quelle regole sono chiamati a rispettare. È interessante notare che quando si parla di B&B o di Uber, tanto per fare un esempio, i resistenti sono identificati come lobbies retrograde abbarbicate ai privilegi del secolo scorso e, i commentatori, sono quasi tutti schierati dalla parte delle nuove proposte. Quando invece, in forza degli stessi principi, succedono fatti gravissimi davanti ad un centro logistico oppure un gruppo di ragazzi di stanca di essere sfruttato le stesse certezze vengono meno. È il lato oscuro della modernità. Quello che non vogliamo vedere né affrontare. Ridisegna silenziosamente il welfare, il sistema fiscale e contributivo, i diritti e la libera concorrenza tra imprese e individui. Accentua il dualismo nel mercato del lavoro tra garantiti e esclusi, rende obsoleti contratti e modalità di lavoro, annulla i confini tra vita privata e professionale. È la vera rivoluzione silenziosa che è in atto e della quale gli osservatori vedono (strumentalmente) solo l’aspetto legato al sistema previdenziale futuro dei giovani di oggi. Si legge spesso che il rischio vero è la rottura del patto intergenerazionale. Così come si è evocato per lungo tempo la rottura dell’unità del Paese e, prima ancora tra malessere sociale e benessere di pochi. Non sarà così. Digital divide, sharing economy, industry 4.0, stanno ridisegnando i confini tra chi è dentro e chi è fuori. E questa rivoluzione non è di la da venire. È già iniziata. Prendere atto è il primo passo, definirne potenzialità, ambiti e regole è compito di tutti coloro che hanno a cuore il futuro del nostro Paese.

Un azienda il giorno dopo….

Gli articoli che si sono susseguiti in queste settimane sulla vicenda Esselunga si sono giustamente concentrati sulla figura di Bernardo Caprotti, sulla sua famiglia e sul futuro di una delle aziende più importanti della GDO italiana. Qualche articolo si è spinto a osservare l’azienda anche dal punto di vista dei clienti particolarmente soddisfatti di un’insegna che, soprattutto a Milano, rappresenta qualcosa di più di un supermercato. Mi ha sorpreso che nessuno ha preso in considerazione il ruolo del management e dei dipendenti nel successo dell’azienda. Solo il dottor Caprotti, nel documento diffuso dalla stampa, ha invece manifestato la riconoscenza e quindi la preoccupazione per il futuro dei suoi oltre ventimila collaboratori. Esselunga è un’azienda solida. Lo è innanzitutto per merito del suo fondatore ma anche perché le scelte operate dai suoi collaboratori principali sulla qualità delle risorse umane hanno consentito di individuare, formare e gestire professionisti di grande spessore umano e professionale. Basta entrare in un loro punto vendita per comprenderne il livello. Se poi anziché entrare in un solo punto vendita se ne frequentano diversi con un occhio mediamente esperto e si confrontano con i punti vendita di alcuni concorrenti si ha modo di rendersi conto della differenza qualitativa. Non sto parlando, ovviamente, di qualità dei prodotti, incisività delle promozioni, fatturato per metro quadro, format commerciali e quant’altro dove ogni azienda può optare per strategie differenti. Mi voglio concentrare su un argomento sempre sottovalutato: il valore del capitale umano nel successo di un’impresa. Chiunque ha lavorato nelle risorse umane sa come è difficile costruire una squadra. Ingaggiare persone, condividere con loro valori e quotidianità, renderle orgogliose di appartenere ad un grande progetto indipendentemente dalla dimensione dell’azienda. Certo la figura del leader è fondamentale e la storia di successo che lo ha accompagnato è sicuramente un plus indiscutibile. Ma la squadra che intorno a lui ha avuto il compito di trasmettere questi valori, di viverli quotidianamente fornendo esempio e coerenza, non è da meno. La vera modernità di Esselunga è di averlo capito prima di tutti. È così mentre altri hanno scelto la strada dell’avvitamento continuo causato dal taglio dei costi come antidoto alla riduzione delle vendite optando per modelli di gestione del personale tardo fordista, loro hanno puntato sulla cura del servizio e del dettaglio in ogni operazione di vendita. È difficile nella GDO innovare i format di vendita, migliorare la qualità e la tipologia del servizio al cliente e mantenere elevato l’investimento sulle risorse umane. Chi lo ha fatto o lo sta facendo oggi ha un importante vantaggio competitivo. E questo è tutto merito del management che, in queste grandi imprese distribuite sul territorio non è concentrato in poche mani ma deve, necessariamente, comprendere tutte le figure che gestiscono risorse siano esse dirigenti, quadri, responsabili di punto vendita o capi reparto. Esselunga non è la sola, altre si sono da tempo avviate su questo terreno. Oggi mi sembrava giusto dare merito a chi non è sotto i riflettori perché di fronte alla scomparsa del suo fondatore è giusto che non lo sia. Ma va tenuto presente nei prossimi passaggi che coinvolgeranno il futuro di questa impresa. È un capitale che non va disperso né sottovalutato perché è parte fondamentale del successo di Esselunga. Ed è una sfida per tutte le imprese.