È il lavoro che fa l’economia?

Un libro interessante, puntuale, ben argomentato e utile non solo per gli addetti ai lavori. Nell’intenzione di Romano Benini e Maurizio Sorcioni il punto di domanda non c’è. È il lavoro che fa l’economia e non il contrario. Nel recentissimo libro “Il Fattore Umano”, edito da Donzelli Editore, i due autori affrontano il tema del lavoro sotto tutti i diversi punti di vista. Già questa è una novità, forse l’uovo di Colombo. Per capire cosa fare occorre affrontare ciò che è stato fatto e ciò che non è stato fatto e metterlo in relazione con i Paesi con i quali vorremmo confrontarci. Ma, nonostante si sia fatto poco e male per risolvere il problema non c’è in nessuna parte del libro la solita vena pessimista che generalmente si trova in chi parla di lavoro limitandosi a concentrarsi sull’avversario o sul vincolo di turno, che cambia a seconda dei punti di vista, proponendo, spesso, solo una caricatura troppo semplicistica. La tesi è che non ci si trova in questa situazione senza che le colpe siano evidenti e presenti nei comportamenti e nelle convinzioni di tutti gli attori in campo. Così come le possibili soluzioni. Il testo presenta numeri, fatti, comparazioni, evidenze. Tagli lineari che hanno compromesso parte delle radici sorvolando sui rami secchi, scelte concrete, spesso costose e sbagliate che hanno determinato la situazione in cui siamo oggi. Occasioni mancate, opportunità non colte. Ma anche una possibile via di uscita. È un libro attuale anche perché nel mondo delle imprese e del lavoro, ma anche delle loro rappresentanze, sta riprendendo importanza il tema del lavoro, della sua crescita, della sua valorizzazione e del suo riconoscimento. Non a caso il termine “corresponsabilità” diventa centrale. La scarsa qualità del nostro sistema scolastico, la preparazione dei giovani al mondo del lavoro, il loro inserimento e i percorsi di acquisizione di comportamenti e competenze che consentano di restare in relazione con un mercato del lavoro sempre più selettivo, le politiche attive stanno riprendendo la centralità che meritano. Ma, i tasselli del puzzle faticano ad incastrarsi uno nell’altro. Comprendere le ragioni dei nostri ritardi rispetto agli altri Paesi è il primo passo per decidere priorità e azioni da mettere in campo per invertire la rotta. La differenza rispetto ad altri interventi di Romano Benini è che in questo libro c’è una riflessione diversa, precisa, per certi versi ultimativa che va oltre la semplice denuncia. C’è la convinzione che non si possa più procedere in ordine sparso e sprecare risorse. E che al centro vada messo il lavoro, senza indugi. E, questa consapevolezza, prende il via da quella che gli autori definiscono “la regola dei cerchi concentrici” cioè come mettere in relazione diversi livelli di intervento già sperimentati nei Paesi più avanzati che hanno consentito loro di affrontare la crisi e i cambiamenti necessari. Competitività del sistema, welfare moderno (salute, formazione e lavoro delle persone), efficienza del mercato del lavoro, politiche e interventi di attivazione al lavoro e sistema di servizi per il lavoro. Non c’è nulla da inventare. C’è solo da prendere atto di ciò che gli altri hanno fatto e agire di conseguenza evitando il vizio della politica di fermarsi agli annunci. Ma, per fare questo, gli autori propongono di andare a fondo delle “radici dei nostri mali”. A cominciare dalle ideologie che hanno permeato e permeano ancora troppo spesso tutto ciò che riguarda il lavoro e ne impediscono una evoluzione in chiave moderna perché impongono comunque di schierarsi tra chi pensa che per creare lavoro occorra ridurre i diritti per i lavoratori e aumentare gli sgravi fiscali per le imprese o chi, al contrario, pensa che il lavoro dipenda solo dall’aumento della spesa pubblica. Non da meno gli autori indicano lo stesso ruolo di alcuni autorevoli studiosi della materia che, a volte, non disponendo di un approccio multidisciplinare, mancano di competenze relative alla cultura, all’organizzazione delle imprese di oggi e alla gestione concreta del capitale umano. Così come il ruolo, spesso troppo conservatore, delle stesse organizzazioni sindacali e datoriali determinate più a difendere legittimi quanto parziali interessi che affrontare a viso aperto il cambiamento. Tutto questo per sottolineare che solo uno sforzo comune può farci uscire dalla situazione nella quale siamo finiti e consentirci di rimettere al centro il lavoro per quello che deve essere nell’interesse del futuro del nostro Paese e delle nuove generazioni. E nelle conclusioni, gli autori danno una definizione del lavoro che mi è piaciuta molto e che condivido: “È la scoperta di noi stessi attraverso la nostra capacità di agire e, in questo modo la possibilità di rinnovarci ogni giorno”. Il lavoro quindi come realizzazione personale, dignità ma anche affermazione sociale. Per questo occorre liberarci da tutti i pregiudizi e contribuire, ciascuno per le proprie competenze, possibilità e responsabilità a costruire le condizioni perché il lavoro, la sua qualità e la sua disponibilità torni ad essere centrale come dovrebbe essere nelle priorità del Paese ma anche nelle nostre specifiche determinazioni quotidiane. E così prendere atto consapevolmente che è il lavoro che fa l’economia e non viceversa.

Perché le aziende continuano ad applicare i CCNL?

In tutte le survey in cui si interrogano, ad esempio gli associati di Confcommercio, l’esistenza e la gestione del CCNL viene vista come un plus. Poter disporre di un contratto nazionale di riferimento è vissuto, dai più, positivamente. La stessa Federdistribuzione da quando ha lasciato Confcommercio non si è mai posta il problema di passare ad una contrattazione aziendale ma, al contrario, si è da subito mobilitata per proporre un proprio contratto nazionale di riferimento. Oscar Giannino, a suo tempo, ha proposto di superare i contratti nazionali dotando le aziende di ogni dimensione di un kit specifico che consenta di affrontare in azienda il tema (sic!). Altri propongono di affidare un nuovo mestiere ai consulenti del lavoro. Altri ancora di lasciare al “buon cuore” dell’imprenditore la remunerazione dei propri collaboratori. Neofiti della materia, osservatori distanti dalle imprese, propugnatori di scorciatoie si sono sbizzarriti in soluzioni di ogni tipo. Non le imprese. Meno ancora gli imprenditori che non vogliono problemi là dove non ci sono. Cosa succederebbe se non ci fossero i CCNL? Innanzitutto si creerebbe molto più lavoro per gli avvocati e per i consulenti. Ovviamente anche per i tribunali. Nella maggioranza dei casi assisteremmo  all’effetto “badante”. Persona di fiducia fino a quando serve e quindi disponibile a rispondere a tutte le esigenze del datore di lavoro ma proponente causa certa quando per un motivo o per un altro il rapporto di lavoro si dovesse mai interrompere. Visto dalle piccole imprese l’ombrello del CCNL copre tutto. Se lo si applica si evitano forme di dumping tra aziende, si tengono lontano ispettori del lavoro e sindacalisti, si impediscono richieste pretestuose. Nelle medio grandi consente flessibilità collettive, determina un confine netto e accettato tra diritti e doveri. Soprattutto evita contenziosi perché dura un numero di anni sufficiente a raffreddare eventuali tensioni. Ultimo ma non ultimo evita che, in presenza di rapporti di forza sfavorevoli, l’azienda debba trovarsi in situazioni nelle quali eventuali concessioni possano pregiudicarne opportunità future. Nelle contrattazioni aziendali questo è successo spesso. Mai in quelle nazionali. Per impreparazione o per inadeguatezza di chi affianca l’imprenditore. O per mancanza di lungimiranza. Può essere sostituito? Su molti aspetti si, su altri meno. I neofiti della contrattazione sono convinti, spero in buona fede, che possa essere sostituito tout court. Non è così. Inviterei chi pensa questo a lasciare le discussioni da salotto e recarsi alle quattro del mattino davanti ad un qualsiasi magazzino logistico dove i Cobas o qualche centro sociale si apprestano a mettere in pratica il loro modello di contrattazione aziendale. Capiranno da soli cosa significa. O per par condicio dove la debolezza del sindacato lascia i lavoratori in balia per anni di imprenditori senza scrupoli che non vogliono sentir parlare di concedere alcunché a nessuno. L’unica strada praticabile è un modello misto dove siano chiare le materie di pertinenza del livello nazionale e, altrettanto chiare, le materie di pertinenza aziendale o territoriale. E dove nessuno possa fare il furbo da una parte e dall’altra. Concludo ricordando a chi non ha mai sottoscritto personalmente un contratto (aziendale o nazionale che sia) di astenersi da semplificazioni fuorvianti. I meccanismi di coinvolgimento, negoziazione, sottoscrizione e gestione di un contratto non sono cose che si improvvisano. In Italia solo le organizzazioni che rappresentano lavoratori e imprese possono metterci mano. Oppure la legge. E le proposte di modifica, tutte quante, devono essere soppesate e valutate nelle loro conseguenze concrete. Fortunatamente tra chi ne parla a proposito, ma anche a sproposito, e chi dovrà deciderne l’architettura futura c’è una notevole distanza. E questo è un bene per tutti.

Una contrattazione che sappia andare oltre i vecchi confini.

Un tempo i confini erano chiari. Salario, condizioni di lavoro, diritti. In altri termini più soldi e meno lavoro. Anche il promotore della contrattazione nel settore privato era sostanzialmente uno solo: il sindacato esterno o interno alle imprese. Poi il contesto economico e sociale ha imposto le sue regole e la contrattazione, ha, di fatto, cambiato spesso promotore affidando anche all’azienda e ai suoi manager il compito di ridisegnarne contenuti e confini. Quella è stata la fase nella quale sono stati rivisti innanzitutto poteri e ruoli dell’iniziativa delle rappresentanze sindacali interne e esterne che, nel tempo, hanno continuato a perdere peso. Nei contenuti, l’azienda ha ripreso (soprattutto nella grande impresa dove lo aveva in parte ceduto) il controllo del lavoro, della sua organizzazione, dei tempi e dei modi di esercitarlo. Tutto questo, però, ha retto fino a quando si trattava “semplicemente” di ridurre gli eccessi della fase precedente, ristabilire ruoli gerarchici e rapidità decisionali, tenere sotto controllo (e ridurre) i costi. Nel frattempo, nelle imprese, era cresciuta, via via, la consapevolezza che i nuovi modelli organizzativi, la marginalizzazione degli interlocutori collettivi, l’affacciarsi di nuove esigenze e di nuove generazioni poneva la necessità di gestire con maggiore attenzione il proprio capitale umano. Innanzitutto le proprie risorse chiave ma poi, sempre più collaboratori, attraverso sistemi di valutazione, di riconoscimento e di sviluppo professionale, con l’obiettivo di avere un clima interno positivo, una condivisione sostanziale dei propri valori e un impegno costante nella realizzazione di obiettivi di business sempre più complessi. In questa fase, c’è stato un forte ridimensionamento dell’area delle relazioni sindacali e un forte impulso alla altre aree delle direzioni risorse umane maggiormente dedicate allo sviluppo delle risorse. Le nuove forme di flessibilità in entrata (stage, TD, apprendistato, ecc.), l’obsolescenza degli inquadramenti contrattuali ormai datati, i nuovi modelli organizzativi e relazionali, il mutare delle esigenze, soprattutto delle nuove generazioni, le nuove tecnologie, la necessità di riconoscere l’impegno sia a livello individuale che di gruppi hanno via via modificato in profondità l’approccio di chi si occupa di risorse umane in azienda. L’approccio di Federmeccanica al rinnovo del contratto dei metalmeccanici, ad esempio, è figlio di questo filone di pensiero. Non è un ballon d’essai ispirato da un banale tentativo messo in atto per contenere le richieste economiche. E farebbe male il sindacato, tutto il sindacato, a sottovalutarlo. Semmai occorrerebbe capire se e come sarà possibile, per loro, rientrare in gioco. E su quali materie. Tutto e subito non è proponibile. I rapporti di forza oggi sono talmente asimmetrici e sfavorevoli al sindacato da rendere estremamente difficile anche la sola esigibilità tout court della contrattazione aziendale. E la diffidenza delle imprese sulle reali capacità di cambiamento e di innovazione del sindacato è molto alta. Quindi la strada è in salita. Esistono però alcuni spazi che possono essere coperti. Innanzitutto il welfare contrattuale (previdenza, sanità e formazione). In secondo luogo un altro terreno di condivisione e di cambiamento potrebbe essere rappresentato da un approccio diverso al tema dell’inquadramento professionale. Marco Bentivogli fa il suo mestiere quando accusa Federmeccanica di non voler mettere mano ad un dettato contrattuale partorito nel 1973. Personalmente sono convinto anch’io che occorra affrontarlo. Però tutta la materia. Codice civile, legge 300 e contratti nazionali. Altrimenti non si innova nulla. Si creano solo le premesse per un inutile quanto infinito contenzioso legale. E qui capisco la cautela di Federmeccanica. Un altro tema potrebbe essere la struttura del salario che  privilegia, in massima parte, il fisso sul variabile. In un contesto fordista poteva andare bene. Oggi no. Ad esempio il cuore dell’accordo aziendale del Fondaco dei Tedeschi a Venezia (concordato con i sindacati) prevede una deroga al CCNL del terziario tale da consentire un livello di inquadramento inferiore ma con un sistema incentivante robusto legato a obiettivi individuali e di gruppo. E, per i lavoratori, non è un passo indietro. Anzi.  Però si potrebbe andare ben oltre. E poi il tema del welfare aziendale a 360 gradi. E qui il modello Luxottica docet. Ma non solo. In FCA i buoni benzina un tempo avrebbero fatto sorridere. Oggi sorride solo qualche sindacalista “old style”. Non certo i lavoratori che sanno bene la differenza tra netto e lordo. Ovviamente alcuni aspetti hanno senso solo nella media o nella grande azienda e in quei contesti possono essere sviluppati. Altri temi potrebbero trovare risposte in un sistema bilaterale rinnovato, a livello territoriale o in negoziati di comparto. Insomma questa discussione sui contratti e sui livelli del confronto può essere un momento importante per ridisegnare uno spazio vero di corresponsabilità e di nuovo protagonismo per il sindacato e per le associazioni datoriali. L’accordo sulle pensioni è lì a dimostrare che si può fare molto in termini di cambiamento di mentalità e di approccio. Almeno occorrerebbe provarci.

Se piace ai sindacati…..

È successo dopo il recente accordo sulle pensioni ma la stessa reazione l’ho registrata, in una situazione certamente più modesta, sull’intesa precedente all’apertura di una nuova e importante iniziativa commerciale a Venezia. Per una parte degli opinionisti un accordo con i sindacati, se ha ricadute economiche, sarebbe meglio non farlo. In altri termini ciò che piace ai sindacati non va bene. Indipendentemente dal merito. Per chi sostiene questa tesi sei miliardi sulle pensioni sono uno spreco. Meglio tirare la corda all’infinito. Poi, purtroppo, davanti al magazzino logistico di Piacenza ci scappa il morto e molti di questi opinionisti improvvisamente scoprono che la delegittimazione continua dei sindacati confederali (quindi di fatto di tutti i corpi intermedi) porta con sé la degenerazione del sistema. E devono fare i conti con cobas e centri sociali che strumentalizzano lavoratori immigrati, comunque sottopagati, che vengono alle mani con camionisti incavolati bloccati davanti ai cancelli. Il sistema delle relazioni industriali è di fronte ad una svolta. O imbocca con decisione (da entrambe le parti) la strada della “corresponsabilità” o, involvendosi, rischia di diventare sempre più ininfluente come sta succedendo per i partiti. E quindi sempre più instabile. Un altro esempio, abbastanza singolare, coinvolge le dinamiche che hanno preceduto l’apertura di un’iniziativa commerciale importante a Venezia. Non solo cinquecento posti di lavoro a tempo indeterminato, progetti importanti di formazione che consentiranno a centinaia di giovani di trovare la loro strada professionale e un welfare significativo ma anche un’organizzazione del lavoro impegnativa, distribuita sull’intero anno che quindi coinvolge l’intera settimana lavorativa e inoltre un’inquadramento professionale di ingresso che dura ben più di ciò che avverrebbe in un contesto normale ma che viene affiancato un sistema di incentivazione importante sia di carattere individuale che collettivo. Il sindacato, tutto il sindacato, lo ha sottoscritto ben consapevole della posta in gioco e quindi la valutazione positiva, anche della CGIL locale, è un elemento importante. Non è stato un negoziato facile perché il rischio che nel sindacato prevalesse l’idea che ci si trovasse di fronte ad una apertura classica tipo grande distribuzione (con il clima che oggi c’è nelle relazioni sindacali nella GDO) e non ad un’iniziativa completamente nuova e diversa, era molto forte. Ma così non è stato. Il sindacato, tutto il sindacato, ha compreso la posta in gioco, sostenuto le sue tesi, ottenuto le sue contropartite e concordato di derogare tutto ciò che poteva consentire un investimento importante nel nostro Paese. Per l’azienda è stato un ottimo accordo così come per la Confcommercio che ha seguito l’intera vicenda anche per dimostrare che quanto concordato in sede di rinnovo del CCNL del terziario trovava una conferma importante in un’impresa ad alta visibilità internazionale, di grandi dimensioni ma interessata, a precise condizioni, ad optare per un accordo aziendale costruito in deroga al contratto nazionale piuttosto che ad altre formule oggi invocate da molti neofiti della materia ma destinate ad un insuccesso certo. Solo leggendo il testo si comprende la qualità e la natura dello scambio, lo sforzo chiesto e ottenuto di adattamento alle specifiche esigenze di un gruppo che ha un modello organizzativo e di gestione del personale di successo mai sperimentato in Italia che però funziona in tutto il resto del mondo. Un modello che ha bisogno di fidelizzare i migliori, che mette al centro la produttività, le performance individuali e di gruppo, la formazione continua, che premia la qualità della prestazione e che, per questa ragione, non può restare bloccata in un sistema di inquadramento tradizionale o con una possibilità scarsa di valutazione della persona alla luce anche di un percorso formativo che dura mesi ed è interamente finanziato dall’azienda. Il sindacato ha compreso la convinzione dell’azienda che ha accompagnato questo importante investimento economico, la determinazione messa in campo, la scelta di optare per contratti a tempo indeterminato e un modello che potrebbe essere replicato in altri città italiane o in altri Paesi europei. Ne parla bene? Occorre esserne soddisfatti perché finalmente superiamo questa idea che ciò che è bene per una parte deve essere subìto dall’altra. L’accordo sulle pensioni è una buona cosa. Così come spero sia il prossimo accordo sulle relazioni sindacali tra organizzazioni datoriali e sindacali. Ed è una buona cosa se i metalmeccanici così come i chimici, gli alimentaristi e il terziario otterranno un buon contratto che piace alle imprese e soddisfa i lavoratori. Se poi questi contratti sono condivisi da tutto il sindacato significa che il clima nel Paese può cambiare. Ed in questo momento sarebbe molto importante. Dipende solo da noi.

Contratto metalmeccanici: siamo alla svolta?

sindacatiOggi riprende il negoziato sul contratto dei metalmeccanici. La cautela sull’esito è d’obbligo perché su quel tavolo si giocano molte partite. Non solo per i lavoratori e i sindacati di categoria coinvolti direttamente ma anche per il Governo, per Confindustria e per gli stessi sindacati confederali. Già questo è abbastanza singolare perché erano diversi rinnovi contrattuali che non si respirava questa sensazione. È un negoziato che, lo si voglia o no, potrebbe chiudere una fase storica e ne potrebbe riaprire una nuova. Al tavolo Federmeccanica che sa benissimo che è arrivato il momento di stringere e, possibilmente di chiudere, ma che non intende sacrificare l’essenza della sua proposta di “rinnovamento contrattuale”. Dall’altro i vertici dei sindacati di categoria che tornano prepotentemente sotto i riflettori e che sanno di giocare una partita che ha, tra gli effetti collaterali, anche lo scopo di contribuire a ridisegnare il profilo futuro del sindacalismo italiano. E quindi il loro peso e il loro ruolo, anche personale, in quella prospettiva. Intorno al tavolo ci sono spettatori altrettanti interessati. Il Governo che non vuole trovarsi anche questo problema in una stagione già difficile, Confindustria che deve, sia ricucire al suo interno che rilanciare un nuovo protagonismo a tutto campo, ma che, in assenza di accordo, non può procedere su altri tavoli e quindi rischia di vedere indebolita la sua leadership anche nei confronti del Governo stesso. I sindacati confederali che, solo da un accordo complessivo e unitario segnerebbero un importante punto a loro favore propedeutico ad un percorso di cambiamento ineludibile. La qualità delle leadership si misurano in questi frangenti. La chiave di volta è rappresentata dall’equilibrio, tutto da individuare, tra contratto nazionale e contrattazione aziendale. La “corresponsabilità” invocata anche dal Presidente di Confindustria Boccia passa inevitabilmente da lì. Dalla capacità dell’impresa di coinvolgere, ingaggiare e condividere rischi e opportunità con chi rappresenta il lavoro. Un sistema maggiormente collaborativo si affermerà solo se si consoliderà una cultura che mette al centro l’azienda come luogo dove insieme si crea la ricchezza che poi dovrà essere distribuita. Se la strategia è condivisa il percorso è negoziabile sia nei tempi che nelle modalità. Per questo motivo sono moderatamente ottimista. Al di là della giornata di oggi che essendo troppo carica aspettative può anche concludersi con un nulla di fatto. Importa la direzione di marcia e questa, credo, sia in parte segnata.

Il tempo prezioso delle persone mature di Màrio de Andrade

“Ho contato i miei anni ed ho scoperto che ho meno tempo da vivere da qui in avanti di quanto non ne abbia già vissuto.
Mi sento come quel bambino che ha vinto una confezione di caramelle e le prime le ha mangiate velocemente, ma quando si è accorto che ne rimanevano poche ha iniziato ad assaporarle con calma.
Ormai non ho tempo per riunioni interminabili, dove si discute di statuti, norme, procedure e regole interne, sapendo che non si combinerà niente…
Ormai non ho tempo per sopportare persone assurde che nonostante la loro età anagrafica, non sono cresciute.
Ormai non ho tempo per trattare con la mediocrità. Non voglio esserci in riunioni dove sfilano persone gonfie di ego.
Non tollero i manipolatori e gli opportunisti. Mi danno fastidio gli invidiosi, che cercano di screditare quelli più capaci, per appropriarsi dei loro posti, talenti e risultati.
Odio, se mi capita di assistere, i difetti che genera la lotta per un incarico maestoso. Le persone non discutono di contenuti, a malapena dei titoli.
Il mio tempo è troppo scarso per discutere di titoli.
Voglio l’essenza, la mia anima ha fretta…
Senza troppe caramelle nella confezione…
Voglio vivere accanto a della gente umana, molto umana.
Che sappia sorridere dei propri errori.
Che non si gonfi di vittorie.
Che non si consideri eletta, prima ancora di esserlo.
Che non sfugga alle proprie responsabilità.
Che difenda la dignità umana e che desideri soltanto essere dalla parte della verità e l’onestà.
L’essenziale è ciò che fa sì che la vita valga la pena di essere vissuta.
Voglio circondarmi di gente che sappia arrivare al cuore delle persone…
Gente alla quale i duri colpi della vita, hanno insegnato a crescere con sottili tocchi nell’anima.
Sì… ho fretta… di vivere con intensità, che solo la maturità mi può dare.
Pretendo di non sprecare nemmeno una caramella di quelle che mi rimangono…
Sono sicuro che saranno più squisite di quelle che ho mangiato finora.
Il mio obiettivo è arrivare alla fine soddisfatto e in pace con i miei cari e con la mia coscienza. Spero che anche il tuo lo sia, perché in un modo o nell’altro ci arriverai…”

Mário de Andrade (1893-1945) – Poeta, musicologo e narratore brasiliano, grande amico di Giuseppe Ungaretti,. È considerato uno dei fondatori del modernismo.

Dirigenti e outplacement, una nuova opportunità offerta dal contratto nazionale dei manager del terziario

Il nuovo contratto nazionale dei dirigenti del terziario (recentemente firmato da Manageritalia e Confcommercio) ha affrontato in modo innovativo il tema del ricollocamento dei manager in transizione di carriera. L’articolo 40 infatti recita: “le parti concordano che in caso di licenziamento (diverso da giusta causa) o di risoluzione consensuale nelle sedi conciliative, su formale richiesta del dirigente, l’azienda definirà l’attivazione di una procedura di outplacement, sempreché lo stesso non abbia attivato un contenzioso giudiziale o arbitrale avverso il recesso intimato. L’azienda liquiderà alla società di outplacement individuata d’intesa con il dirigente interessato, un voucher per compartecipare alle spese, di importo pari a euro 5.000,00 netti, non monetizzabile, da utilizzare entro 12 mesi dall’interruzione del rapporto di lavoro. Sono fatte salve condizioni di miglior favore concordate individualmente”. Inoltre l’articolo 21 in tema di aggiornamento e formazione professionale per i dirigenti afferma, al punto 8, “il CFMT (Centro di formazione management del terziario) definirà convenzioni con le principali società di outplacement presenti sul mercato per favorire la conoscenza ad imprese e manager, anche al fine dell’utilizzo del voucher di cui all’articolo 40”. In considerazione di questo mandato CFMT ha già sottoscritto un accordo con AISO (Associazione italiana società di outplacement) con lo scopo di concordare un sistema di standard rigorosi che impegnano le società aderenti ad operare in termini di qualità e trasparenza i più elevati possibili onde garantire risultati certi e misurabili. E questo pur consentendo, a dirigenti e aziende, di scegliere in piena autonomia tra tutti gli operatori presenti sul mercato.
Il programma concordato tra AISO, Manageritalia e CFMT prevede:
bilancio delle competenze e delle caratteristiche personali
Progetto professionale: bisogni, desideri e loro realizzabilità concreta
ricerca di opportunità manageriali o imprenditoriali
Preparazione all’inserimento e monitoraggio successivo
Strumenti: banche dati, reportistica, supporto logistico sul territorio e customer satisfaction
Tempi: 12 mesi di calendario o fino alla conferma del rapporto di lavoro. (Il dettaglio dell’accordo sarà presto scaricabile sia sul sito di CFMT che su quello di AISO). Questo accordo prevede inoltre che il dirigente, a cui si applica questo contratto, possa usufruire gratuitamente di cinque attività formative specifiche presso il CFMT da svolgere durante tutto l’anno successivo alla data di cessazione (a libera scelta o concordate direttamente con la società di outplacement). Le novità di questo accordo sono diverse. Innanzitutto il voucher verrà corrisposto solo se il dirigente e l’azienda decidono di avvalersi dell’OTP. Quindi, per la prima volta, un vero incentivo a scegliere questa strada. In secondo luogo le parti, con questa intesa, puntano a selezionare e valorizzare le società che rispondono a determinate caratteristiche finalizzate a garantire, al dirigente in transizione, risultati concreti e misurabili. Infine il rapporto stretto con CFMT dovrà consentire sia la certificazione che il monitoraggio dei percorsi con la possibilità di concordare attività formative mirate che consentano al dirigente una maggiore rapidità di ricollocamento. Questo accordo non nasce per caso. È stato preceduto da un altro importante progetto svolto dal 2008 al 2015 che ha visto impegnato il CFMT in rapporto stretto con Manageritalia e che ha consentito il ricollocamento di oltre 1200 manager. Quella esperienza, pur valutata positivamente, ha consentito una sua strutturazione definitiva in questa nuova proposta concordata nel recente contratto nazionale. Personalmente ho sempre creduto nella necessità di costruire risposte efficaci che aiutino le transizioni professionali. Mi sono occupato di ricollocamento fin dal 1995 implementando in Italia il modello francese nel gruppo Danone e ho potuto incontrare diversi e validi professionisti della materia ma anche soggetti inadeguati che hanno contribuito a rallentare il decollo dell’OTP nel nostro Paese. Per questo credo nella validità di questo accordo proprio per la serietà degli interlocutori individuati e per gli impegni sottoscritti. In Italia il ricorso all’OTP sta purtroppo crescendo lentamente lasciando, di conseguenza, le persone sole a gestire con grandi difficoltà una interruzione forzata del proprio percorso professionale. Aziende e singoli hanno purtroppo scelto la strada più breve puntando ad accordi di natura esclusivamente economica. Ma, nel corso degli anni, cercare un lavoro è, a sua volta, diventato sempre di più un lavoro e quindi l’apporto di tecniche consolidate e percorsi formativi adeguati possono veramente fare la differenza per chi non è in grado di muoversi da solo sul mercato. Le parti sociali nel terziario (Confcommercio e Manageritalia) hanno individuato questa soluzione e affidato al CFMT il compito di gestirla nell’interesse esclusivo dei manager in difficoltà. Sono convinto che, insieme alle aziende aderenti ad AISO e con il sostegno di Manageritalia, lavoreremo per valorizzarne il contenuto e dare così ai colleghi in transizione una risposta utile e adeguata e, in questo modo, rafforzare uno degli aspetti innovativi del contratto nazionale di lavoro che mette già a disposizione della categoria, oltre ad una importante previdenza integrativa (Fondo Mario Negri e Fondo Pastore) e ad un assistenza sanitaria integrativa (FASDAC) di prim’ordine, un centro di formazione (CFMT formazione) che garantisce ai singoli manager un aggiornamento continuo e a tutte le imprese del terziario il supporto nei loro progetti di cambiamento e riorientamento del proprio capitale umano. Questo nuovo compito si integra molto bene con altri progetti che il CFMT sta portando avanti per consentire ai manager di prevenire, nei limiti del possibile, momenti di difficoltà e di obsolescenza professionale.

Brexit, olimpiadi, referendum. Ma c’è una prospettiva?

Se dovessimo ritenere significativo il dibattito scatenato sulle radio e in rete sulla risposta di Virginia Raggi per la candidatura alle Olimpiadi di Roma 2024 dovremmo considerare assolutamente prevalente il sostegno al NO. Una posizione affatto sorprendente visto che, il recente e travolgente successo del neo sindaco, conteneva anche un netto e preventivo rifiuto a proseguire sulla strada proposta dal Comitato Organizzatore insediato con l’amministrazione precedente. Non sono però, in questa sede, interessato ad entrare nel merito pur essendo personalmente favorevole alla candidatura. Sono più interessato alle reazioni. Ma soprattutto al distacco sempre più netto, che queste reazioni testimoniano, tra gente comune e classe dirigente. La cultura del “not in my backyard” mi sembra possa rappresentarne il vero punto di partenza di questo “pensiero profondo”. Un “movimento di opinione”, prima locale poi sempre più diffuso che individua nelle scelte di una qualsiasi classe dirigente, locale, nazionale o internazionale l’avversario da battere. In parte per ragioni opportuniste in parte causate da paure di tutto ciò che è cambiamento del proprio status vero o presunto. In parte come risposta a tutto ciò che i cambiamenti hanno prodotto o rischiano di produrre al proprio vissuto quotidiano. Dalle migliaia di comitati locali che protestano su qualsiasi cosa in piazza, in televisione o in rete, passando attraverso movimenti politici di vario genere che nascono e si sviluppano in tutto l’Occidente per arrivare fino alla Brexit. La candidatura alle olimpiadi della città di Roma ne rappresenta sicuramente un’altra tappa. Temo anche il referendum di novembre. È un’onda inarrestabile? Ma soprattutto dove rischia di portarci? A mio parere non promette nulla di buono. È come se stessimo assistendo ad un’assemblea permanente di condominio dove nessuno alza più lo sguardo sui problemi veri ma dove nessun amministratore, che vuole conservare l’incarico, si permette di far ragionare seriamente i condomini. Non c’è nessuna volontà di cambiamento vero. C’è solo una radicale voglia di mettersi di traverso su tutto. La priorità ormai è quella di impedire i disegni altrui, non di affermare i propri che, spesso, non esistono nemmeno. È la fine della politica come strumento di mediazione e di proposta. Ovviamente c’è chi cavalca questo clima. Ho la netta sensazione che questo fenomeno si sia collocato definitivamente oltre lo schema novecentesco di contrapposizione tra destra e sinistra e che, le due grandi correnti di pensiero non riescano più a entrare in relazione, se non saltuariamente, con questo magma in continua mutazione. Si sta ormai diffondendo in tutti i Paesi occidentali con sembianze diverse. Da Trump che spinge un vecchio repubblicano come Bush senior a votare per la Clinton, a Frauke Petry in Germania che si oppone alla Merkel, a Farage in Gran Bretagna che vince e saluta, a Grillo in Italia. È un “NO” deciso ad un futuro ritenuto scritto da altri che, amplificato dai media, si rafforza scuotendo le fondamenta costruite dai sistemi democratici nel novecento. Personalmente credo che questo tsunami non porti a nulla di buono. Io sono per la democrazia rappresentativa e non amo né le assemblee di condominio, né alla rete che insulta, né le trasmissioni televisive dove si spettacolarizza la paura e il disagio. Spero che la buona politica, la cultura, la buona informazione, l’impegno personale e la coerenza possano fare da argine e far “cambiare verso” il nostro come gli altri Paesi. Le grandi prove di solidarietà conseguenti al recente terremoto sono lì a dimostrare che possiamo farcela e che siamo molto meglio di come vogliamo apparire. Il novecento ci ha costretto a prove ben più complesse ma, pur a fatica, chi ci ha preceduto ha saputo indicare come superarle. Le nostre radici sono lì. Dobbiamo solo convincerci che è possibile separare il grano dal loglio.

Panda sarà lei….

Essere Dirigente oggi non è facile. Circondati da luoghi comuni che assimilano l’intera categoria a Sergio Marchionne o con i bonus milionari percepiti da alcuni e indicati al pubblico ludibrio su pensioni e ruolo negativo nel pubblico impiego, si rischia di svilire e banalizzare un ruolo estremamente importante anche per il futuro del nostro Paese. I dirigenti privati oggi sono oggi più di centoventimila. Nel terziario di mercato superano abbondantemente i ventimila. Molti di meno rispetto agli altri Paesi. Insidiati dal basso dai Quadri, di lato da figure consulenziali e da ruoli temporanei. Da sopra, soprattutto nelle PMI, da una scarsa propensione di molti imprenditori a riconoscerne l’importanza per il futuro delle loro imprese. Ad una analisi superficiale potrebbe sembrare una categoria numericamente in declino ma non è così. È indubbio che c’è in corso un forte assestamento, soprattutto nel settore industriale. Assestamento dovuto alle riorganizzazioni aziendali che non hanno risparmiato la categoria e ai conseguenti ridisegni dei modelli organizzativi che hanno concentrato ruoli e responsabilità decisionali. Nel terziario che sta prendendo sempre più peso, assistiamo invece ad un fenomeno contrario con un leggero e costante aumento di nomine. Un altro luogo comune che compare ogni tanto sui media è che, ormai, il ruolo del dirigente e quello del quadro sarebbero, tutto sommato, sovrapponibili e quindi che le aziende sarebbero incentivate a mantenere il collaboratore in questa categoria impiegatizia, seppure collocata al massimo livello. Forse è stata la lingua inglese che ci ha portato fuori strada. La qualifica di “Manager” più qualcosa non si nega ormai a nessuno e quindi ruoli, compiti e funzioni si pensa possano sovrapporsi facilmente. Dirigente e Quadro sono due figure professionali ben diverse. Sia in termini di responsabilità che di ruolo aziendale. E questo nonostante che retribuzione e benefit tendano ad avvicinarsi. Omologare le due figure è sbagliato e controproducente. Per il singolo che si vede privato di una concreta possibilità di riconoscimento delle sue ambizioni, dell’impegno e delle competenze acquisite e per l’azienda che, se crede nel merito, nella crescita professionale e nell’investimento nelle sue risorse chiave non può nascondersi dietro un problema di costo per i suoi ruoli apicali. Tra l’altro l’idea che un collaboratore sia solo un costo ha fatto il suo tempo. Nel caso del dirigente è addirittura controproducente. Dire, come fanno alcuni colleghi DHR che un Quadro costa meno di un Dirigente è una affermazione tutto sommato banale. Certo che è così! Ma il punto è un altro. Essere Dirigente, oggi, non è un più un punto di arrivo come in passato. È uno snodo fondamentale per chi desidera crescere, gestire risorse e contribuire al successo della propria azienda. Per arrivarci occorrono diversi elementi non tutti raggiungibili solo attraverso competenze tecniche. Occorre investire costantemente su se stesso, sui propri punti forti, sulle proprie capacità che devono misurarsi con contesti sempre più complessi. Occorre saper “indossare una maglia” e ingaggiare costantemente i propri collaboratori verso obiettivi sfidanti e risultati concreti. Occorre saper difendere le proprie idee mettendole a disposizione dell’impresa sapendole integrare con quelle dei colleghi, andare oltre alle inevitabili delusioni e costruire sempre un clima positivo e collaborativo. C’è una sostanziale differenza tra essere Dirigente ed essere Quadro. E questa differenza non è colmabile con titoli artefatti, seppure internazionalmente comprensibili. L’investimento nelle risorse chiave in tutti i Paesi avanzati comprende, status, benefit, welfare come è più che in Italia. Ed il fatto che da noi i Dirigenti, ad esempio del terziario, siano tutelati da un contratto nazionale contenente un welfare d’avanguardia su sanità, previdenza e formazione, integrabile a livello aziendale dalla contrattazione individuale, è un elemento ulteriore di civiltà e di lungimiranza. Ma questa differenza non serve solo ai dirigenti. Serve anche ai Quadri che devono trovare nel loro dirigente di riferimento un esempio, un coach importante per la carriera, uno stimolo alla crescita. Ed investire su se stessi con continuità. Per questo occorre riflettere sul tema in modo meno superficiale. Lo si deve ai giovani che, ancora numerosi, si iscrivono nelle università, affrontano percorsi internazionali impegnativi e alle loro famiglie che fanno importanti sacrifici con l’obiettivo di vederli crescere e l’ambizione dei ragazzi di volercela fare. Lo si deve ai colleghi che, dirigenti oggi, si impegnano pur in mezzo a mille difficoltà proprie e dei propri collaboratori. Banalizzare ruoli e funzioni non porta da nessuna parte. Occorre al contrario incentivare la presenza di manager delle imprese, riconoscerne il merito, spingerli ad investire nelle proprie capacità e competenze, aiutarli nei passaggi delicati, sostenerli nel disorientamento che oggi attraversa tutto il mondo del lavoro. L’azienda di domani sarà un’azienda profondamente diversa rispetto a quella che abbiamo conosciuto. Sarà probabilmente abitata da robot, tecnologicamente avanzata, ricca di stimoli e meno legata ad un luogo fisico tradizionale. Ma in quell’azienda si farà strategia, si ingaggeranno i collaboratori, si prenderanno decisioni seppure in modo profondamente diverso da oggi. Così come da qui ad allora continueranno ad esserci Quadri e Dirigenti che, nel rispetto dei differenti ruoli, daranno senso e contenuto al termine “Manager”. I primi consapevoli del loro ruolo e delle loro prospettive professionali, i secondi maggiormente strutturati, più imprenditivi e più impegnati a condividere con l’impresa rischi e opportunità. Questo ha sempre fatto la differenza e continuerà a farla. L’estinzione del Panda quindi non è all’ordine del giorno. Anzi.

Una responsabilità da condividere.

Al polo logistico di Piacenza è morto un operaio egiziano investito da un camionista. Una notizia ormai già lontana che non ha prodotto alcuna riflessione vera. Eppure ci sarebbe molto da dire e da fare. Personalmente ho vissuto  la nascita di alcuni dei cosiddetti “poli logistici” in funzione della terziarizzazione delle attività di un’azienda della GDO nella quale ho lavorato con le conseguenze del caso. La problematica dei costi e della qualità del servizio, la sottovalutazione del problema della gestione delle risorse umane soprattutto conseguente all’esplosione dell’immigrazione e la degenerazione delle relazioni sindacali del comparto. Se oggi, in quel settore, siamo ripiombati sostanzialmente negli anni ’70 è perché siamo di fronte ad una responsabilità collettiva delle imprese committenti, delle imprese fornitrici di quel servizio e dei sindacati confederali delle categorie interessate.
Innanzitutto perché si sarebbe dovuto capire subito che un magazzino logistico di nuova generazione non era semplicemente un’evoluzione del magazzino di un’azienda di trasporti o dell’impresa stessa che si stava apprestando alla terziarizzazione. Eppure il nord Europa (soprattutto gli esperti belgi e olandesi) già mostrava chiaramente e prima dell’esplosione dei giganti della rete, che software impiegato, organizzazione della movimentazione delle merci, qualità del servizio e gestione delle risorse erano ben altra cosa rispetto ai modelli precedenti.
Le aziende committenti hanno invece preferito fermarsi alle clausole contrattuali, alle penali relative e ai KPI con i quali misurare le performance del fornitore del servizio disinteressandosi sostanzialmente di tutto ciò che avveniva all’interno di strutture sempre più sofisticate e di grandi dimensioni. Le aziende fornitrici, multinazionali o meno, intenzionate a gestire il business si sono trovate improvvisamente circondate dalla pressione delle aziende committenti e da regole sempre più stringenti, dalla fragilità del loro sistema di gestione delle risorse umane e, infine, dall’esplosione del fenomeno delle cosiddette “cooperative” che si affacciavano in questo mercato, in modo sempre più spregiudicato. Alcune serie, controllate dal mondo tradizionale della cooperazione, altre provenienti dallo stesso sindacato di categoria, altre ancora nate solo con lo scopo di accaparrarsi spregiudicatamente commesse e attività. E tutto questo mentre esplodeva il fenomeno dell’immigrazione regolare e clandestina che ha, a sua volta, cambiato profondamente l’offerta di lavoro sempre più rigidamente inquadrata in etnie spesso guidate da caporioni spregiudicati. Nelle contraddizioni prodotte da questo sistema si sono infilati COBAS e centri sociali che hanno cavalcato spregiudicatamente i bisogni e le tensioni che inevitabilmente hanno coinvolto quei lavoratori. Basti citare la mancanza di comunicazione e gestione diretta dei lavoratori da parte delle aziende, l’organizzazione stessa del lavoro e del contesto, i furti e i sistemi di prevenzione e repressione, la mancanza di servizi minimi sul piano sociale, ecc. Oggi siamo qui. Ogni tanto la rabbia esplode davanti a questo o quel magazzino, i camionisti si infuriano perché vengono bloccati spesso con merce deperibile a bordo, le forze dell’ordine faticano ad intervenire perché non sono preparate a gestire il nuovo confine tra una legittima lotta sindacale di alcuni e un conflitto di interessi tra etnie, lavoratori, e imprese differenti nello stesso luogo di lavoro. Imprese committenti e fornitrici si gestiscono le conseguenze spesso molto pesanti cercando compromessi pasticciati e i sindacati confederali mostrano tutta la loro impotenza davanti a questa situazione. Per i lavoratori non cambia nulla perché ciò che è stato concesso forzatamente con una mano verrà presto tolto con l’altra. Solo i COBAS esultano e si apprestano a proporre in altri magazzini le stesse rivendicazioni con le stesse modalità. Ogni tanto, però, ci scappa il morto o gravi episodi di violenza. Ma cosa si può fare per cambiare verso? Innanzitutto le aziende fornitrici dovrebbero investire nella gestione del personale molto di più di quello che fanno oggi. Anche dotandosi di mediatori culturali. Occorre recuperare un rapporto con le persone che, però, vanno considerate tali indipendentemente dalla loro nazionalità o etnia. In secondo luogo occorre che sindacati e aziende negozino un contratto nazionale di riferimento che tenga conto dell’evoluzione del comparto. Aggiungo che occorrerebbe anche arginare decisamente il fenomeno delle cooperative fasulle. Sento già la critica: e i costi chi li paga? È evidente a tutti che il costo di queste scelte finirà inevitabilmente sulle tariffe. Personalmente sono convinto che se si sviluppasse una vera partnership tra impresa committente, impresa fornitrice e sindacati di categoria il costo potrebbe essere ammortizzato da una migliore gestione delle risorse, dei comportamenti pretesi e una maggiore qualità del servizio. Tutti argomenti che potrebbero essere compresi in un nuova visione di un contratto di lavoro più coraggioso che guarda al futuro e non al passato. Altrimenti si può continuare così. Dispiacendosi per le conseguenze e continuando a girare la testa dall’altra parte. Occorre però sapere che la brace che cova sotto quel comparto è una delle risposte che un sistema lasciato degenerare porta con sé. E che prima o poi rischia di coinvolgere tutti.