“Venti” di cambiamento nella formazione manageriale…

Il Centro di formazione management del terziario (CFMT- formazione) supera la boa dei venti anni di attività. Il giorno 19 settembre festeggerà questo avvenimento insieme ad un partner con cui ha condiviso tutti questi anni: la SDA Bocconi. Nell’aula magna dell’Università davanti ai manager che in tutti questi anni hanno partecipato al percorso “STARTING” dedicato ai neo dirigenti verrà presentata una survey che ha coinvolto oltre 300 dirigenti del terziario italiano con la quale si è cercato di capire il rapporto tra la formazione manageriale, lo sviluppo di carriera e l’ employability dei manager. Il titolo è significativo:” 20 di cambiamento…”
Come ha sostenuto Dario di Vico, in un recente articolo sul Corriere, occorre ripensare al ruolo decisivo che l’economia dei servizi ha nel capitalismo contemporaneo, specialmente in un sistema come quello italiano impegnato a fare un difficile “salto di qualità” in termini di investimenti immateriali, trasformazione delle filiere e dei modelli di business, personalizzazione delle prestazioni.
Se la produttività e il PIL, in Italia, non crescono come accade in altri paesi europei, è anche perché la trasformazione in atto eccede l’orizzonte della fabbrica industriale, investendo in modo diretto l’economia terziaria. Che, certo, richiede l’uso diffuso di nuove tecnologie, ma richiede soprattutto il cambiamento della cultura delle persone che dovrebbero guidare e utilizzare la rivoluzione tecnologica e produttiva in corso.
Questa cultura – e in particolare la cultura manageriale e imprenditoriale – in Italia deve evolvere più rapidamente che in altri paesi, per adattarsi al mutamento di un contesto che sta diventando sempre più globale e digitale. Su questo terreno le imprese italiane hanno un compito più difficile di quello che tocca a quelle di altri Paesi, dotati di una presenza di grandi imprese multinazionali impegnate da tempo sul fronte della ricerca e dell’internazionalizzazione. In Italia, infatti, l’eredità culturale e organizzativa lasciata dal successo dei sistemi locali (distrettuali) e dall’uso diffuso della conoscenza pratica (personale, non codificata), nel periodo 1970-1990, è diventata – col tempo – un freno inibitore, che pesa sulla capacità di evoluzione delle imprese, negli anni post-2000. Rispetto alla golden age distrettuale, infatti, il vento è cambiato, ma per le imprese e per i manager non è facile abbandonare le vecchie rotte e cercarne attivamente delle nuove, in direzioni differenti. I nuovi modelli di business delle imprese nel mondo post-2000 devono infatti associare le relazioni dirette interpersonali, cresciute nei sistemi locali (di cui hanno esperienza), con quelle a distanza, che danno accesso alle reti globali. E devono, inoltre, declinare il sapere pratico e informale, usato in precedenza, con i linguaggi formali e i codici che è necessario usare nell’economia digitale. La survey che ha coinvolto oltre 300 dirigenti ha evidenziato tre elementi importanti. Innanzitutto che chi ha iniziato con il piede giusto accettando l’invito della propria azienda o decidendo autonomamente di partecipare a questo percorso ha continuato a credere nella propria formazione e ha poi proseguito scegliendo di continuare a rafforzare le proprie capacità e le proprie competenze in ambito multidisciplinare e interaziendale. In secondo luogo chi ha fatto questo corso ha saputo impegnarsi per colmare costantemente il gap tra le proprie competenze e quelle richieste dal mercato. Infine la community. Fare formazione interaziendale favorisce le relazioni, consente di farsi conoscere, rafforza la propria brand identity. La SDA è stato il partner ideale. Non si collabora oltre venti anni se non si costruisce e non si cresce insieme. Oltre 1500 dirigenti sono passati da lì. Aziende del calibro di CISCO, PUBLITALIA, CARREFOUR, AUTOGRILL, SAMSUNG, GOOGLE, KPMG, MEDIAMARKET, METRO ITALIA CASH & CARRY, OVS – GRUPPO COIN, RICOH ITALIA, TOSHIBA, così come molte PMI del commercio, del turismo, della logistica e dei trasporti, hanno mandato i loro futuri manager ai nostri corsi spesso integrando le opportunità formative di CFMT con quello delle loro Academy interne nazionali e internazionali. E questo ci rende particolarmente orgogliosi.
Insieme alla SDA Bocconi continueremo rafforzando la community, progettando nuove iniziative da mettere a disposizione dei nostri manager.
Cfmt, il centro di formazione dei dirigenti del terziario, nasce da un’intuizione di Guido Gay allora presidente di Manageritalia che vantava un percorso manageriale di primo piano in aziende come l’Olivetti di Adriano, la Penney americana e la Rinascente di Borletti ove ricordava sempre “c’era spazio, possibilità di espressione e opportunità di autorealizzazione”. Un’intuizione condivisa, sul piano contrattuale, con Confcommercio. Era il 1993. Pensare allora ad un centro di formazione sostenuto dai dirigenti e dalle imprese del settore non era facile. Non ci erano riusciti i dirigenti industriali nei loro contratti né esistevano esempi da imitare. Oggi si parla sempre più spesso di diritto soggettivo alla formazione. Arrivarci nel 1993 dimostra una lungimiranza che, allora, si confrontava con un presunto individualismo di una categoria che, al contrario, dopo la previdenza e l’assistenza sanitaria cominciava a porsi il problema della impiegabilità e della crescita professionale. Costruire un centro di formazione di alto livello a disposizione dei ventimila dirigenti e delle novemila aziende del terziario, del turismo, della distribuzione e dei servizi attraverso un contributo di sole 250 euro all’anno (di cui metà a carico dell’impresa nel quale il dirigente è occupato) consente di mettere a disposizione il meglio dei professionisti che operano nel campo della formazione manageriale ai singoli dirigenti attraverso un ricco catalogo interaziendale e di proporre, alle imprese che ne fanno richiesta, corsi tagliati su misura sulle loro specifiche esigenze. In venti anni oltre 18.600 dirigenti coinvolti e oltre 8.400 aziende dimostrano il successo di quell’intuizione. Oggi CFMT può anche contare sul supporto di un comitato scientifico di alto profilo che coinvolge docenti universitari dei principali atenei, professionisti e imprenditori, le federazioni di appartenenza delle imprese dei diversi settori e le associazioni manageriali distribuite su tutto il territorio nazionale. Insieme decidiamo progetti comuni, ricerche, iniziative pubbliche e osservatori dedicati. Per questo l’anniversario del giorno 19 settembre per noi non è un semplice anniversario ma è solo un pretesto per riflettere, ascoltare e accettare nuove sfide.

I futuri livelli della contrattazione.

Credo ormai sia chiaro a tutti che la riforma dei livelli contrattuali dovrà affrontare un paradosso. Senza il contratto nazionale non si va da nessuna parte ma, il contratto nazionale, così com’è stato concepito negli ultimi cinquant’anni, non consente di arrivare da nessuna parte. Il CCNL, checché se ne dica, presenta, però, ancora dei vantaggi indiscutibili. Per i lavoratori costituisce una garanzia importante di equità. Dall’altro lato le aziende del settore coinvolto, lo accettano, lo rispettano e lo applicano. Quindi è ancora uno strumento che non lascia spazio a discriminazioni e dumping salariale tra imprese. Inoltre è l’unico possibile contenitore per un valido welfare integrativo. Se prendiamo il comparto del terziario, chi non lo ha ancora firmato (ad es. FIPE, Federdistribuzione, Cooperazione) lo vorrebbe comunque avere, seppure con contenuti diversi. Fuori dal terziario, salvo FCA e pochi altri, nessuna impresa chiede a gran voce di superarlo. Semmai lo chiedono gli opinionisti, spesso troppo sbrigativi, sulla materia. È indubbio che sia una situazione molto difficile anche per le organizzazioni sindacali di quei settori che si trovano in difficoltà proprio dove hanno la maggiore concentrazione di iscritti. Questa premessa per concludere che, senza regole certe, il semplice superamento del CCNL porterebbe, inevitabilmente, ad una marginalizzazione tout court della contrattazione. Si contratterebbe di meno, non certo di più. Marco Bentivogli, leader della FIM CISL, lo ha capito benissimo e quindi insiste nel proporre una contrattazione di secondo livello, integrativa di quella nazionale, come questione di democrazia sostanziale e chiede a Confindustria di condividerne la sfida soprattutto per quanto riguarda le PMI spingendo verso un modello territoriale. Il messaggio è chiaro. La corresponsabilità non può essere a senso unico. Occorre costruire insieme le nuove regole, fidarsi reciprocamente, rendere effettiva la contrattazione aziendale e, dove non dovesse essere possibile, bisognerebbe saper costruire una contrattazione territoriale sostanzialmente esigibile. Quindi estesa anche dove oggi l’applicazione del CCNL tiene il sindacato fuori dai cancelli. Anche perché il sistema attuale è erga omnes mentre quello proposto non lo è. Al momento, però, la FIM sembra parlare solo per sé. Federmeccanica (e Confindustria), sembra optino per un modello profondamente diverso dove, oltre ad un ruolo di garanzia sui minimi, al welfare e alla formazione affidati al CCNL sarebbe, di fatto, l’impresa che decide se coinvolgere o meno il sindacato, su cosa e, sostanzialmente, a quale livello aderire. Soprattutto laddove il sindacato non è presente. Non chiarisce (almeno per ora) l’entità, il modello e i luoghi dove rendere effettiva la corresponsabilità. Modelli e proposte non semplici da far coesistere. Inoltre nel metalmeccanico tradizionale la dimensione territoriale, in molte realtà, ha ancora un senso. Non è così in molti altri comparti. È vero che il territorio resta un riferimento economico e sociale comprensibile per tutti i lavoratori (costo della vita, consumi, ecc.) ma non lo è per le imprese. Soprattutto in ottica 4.0. “Costringerle” a vincolarsi ai risultati di una contrattazione avulsa dal loro contesto competitivo potrebbe rilevarsi un errore. Per questo continuo a pensare che l’unica strada praticabile sia rappresentata da un modello di CCNL che preveda deroghe applicative chiare. Deroghe che possono essere di comparto o di azienda. Oppure di territorio ma solo in presenza di territori sufficientemente omogenei. In altri termini una volta concordato il ruolo e il peso distributivo affidato al CCNL (individuando una sorta di nuova IPCA di riferimento) si potrebbe prevedere ciò che potrà essere derogato e dove, in che modo e per quanto tempo. Quindi la contrattazione aziendale, di comparto o di territorio disporrebbe, come minimo, di una quota che, se non distribuita, verrebbe (automaticamente?) riconosciuta ai lavoratori, oppure integrata ed aumentata se, lo scambio verrà ritenuto congruo da entrambe le parti stipulanti il contratto stesso. Tra l’altro, questo approccio, consentirebbe di superare lo scoglio rappresentato dall’alternatività o meno dei due livelli contrattuali che si integrerebbero positivamente, pur all’interno di regole precise. E questo, credo, aiuterebbe anche la chiusura del contratto dei metalmeccanici. È sostanzialmente il modello adottato nel terziario. Un forte welfare (previdenza e sanità) a cui si aggiungerebbe la formazione come diritto soggettivo, minimi contrattuali con meccanismi di assorbimento definiti, materie derogabili, diritti e doveri. In attesa di una vera riforma del salario e del contesto legislativo e fiscale collegato. Il punto centrale credo sia la qualità e la certezza dello scambio. E i reciproci vantaggi. Per le imprese e le loro rappresentanze ma anche per i lavoratori e le loro organizzazioni sindacali.

Lo spreco dei NEET. Il nuovo libro di Alessandro Rosina

Un libro sicuramente da leggere. Per gli addetti ai lavori, soprattutto per imprenditori e sindacalisti. Ma anche per chi ha dei figli. I NEET (i giovani che non studiano e non lavorano) li abbiamo creati noi. In famiglia, cercando di perpetuare il più a lungo possibile il loro stato di immaturità e quindi di dipendenza e nella scuola continuando a proporre percorsi deboli sul lato tecnico professionale e dallo scarso rendimento individuale per quelli più elevati nei quali i giovani dovrebbero riporre impegno e aspettative. A questi elementi, purtroppo strutturali, occorre aggiungere la mancanza di politiche attive, il modesto impegno delle imprese ma anche la disattenzione dei sindacati. Il rischio, però, è che la colpa sia sempre di qualcun altro. E quindi ciascuno può, a modo suo, assolvere la propria coscienza. L’analisi è impietosa. Mostra la distanza con gli altri Paesi e il rischio che una generazione sostanzialmente perduta contribuisca ad un declino, aggravandolo. Rosina però, grazie alla sua formazione e al contesto nel quale riflette e propone le sue analisi non cede al pessimismo cosmico tipico di questi tempi ma individua alcune opzioni a portata di mano. Esagera in ottimismo quando “sogna” risolti tutti i problemi nel 2025 ma le sue proposte concrete sono interessanti. Innanzitutto occorre non fermarsi agli alibi. Altrimenti questi si trasformeranno in vere e proprie condizioni di svantaggio così come sperare che la fine della crisi economica possa risolvere da sé questo problema potrebbe rivelarsi una illusione pericolosa. Quattro proposte che dovrebbero essere messe al centro della riflessione comune. Innanzitutto fare in modo che tutti concludano il loro percorso educativo perché chi abbandona il proprio ciclo di studi (a qualsiasi livello) è più esposto alla precarietà ma anche a fragilità professionali e personali. Per fare questo occorre conoscere il fenomeno, monitorarne l’evoluzione, mirare gli interventi e misurarne gli effetti. In secondo luogo consentire l’acquisizione di competenze utili nella vita lavorativa. Stage e apprendistato sono gli strumenti più idonei. Però occorre maggiore lungimiranza sociale delle imprese e nelle imprese che consentano di superare il disorientamento prodotto in questi anni dall’uso strumentale di queste opportunità allineandole alle esperienze più avanzate in Europa. La terza proposta riguarda l’opportunità di una presenza attiva nel mercato del lavoro. Purtroppo i progetti messi in piedi fino ad ora, improntati al “partiamo e poi vediamo”, rischiano di produrre solo disorientamento, disimpegno e spreco di risorse economiche. E questo non possiamo permettercelo. L’auspicio dell’autore è quello di dotare il nostro Paese di un solido sistema di politiche attive incardinate su efficienti centri per l’impiego. La sua speranza è che la riorganizzazione dei servizi pubblici per l’impiego e l’istituzione dell’Anpal (Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro) vadano in questa direzione. Ultimo, ma non meno importante, occorre stimolare e sostenere l’intraprendenza delle nuove generazioni. Su questo non partiamo da zero. Soprattutto è già possibile constatare che dove l’intraprendenza personale trova un contesto adatto si sviluppano interessanti sinergie e prospettive di attività e quindi di lavoro. In estrema sintesi occorrerebbe un lavoro comune che favorisca autonomia, intraprendenza, senso di responsabilità e apprendimento continuo. Alessandro Rosina lo scrive e ci crede. Alla presentazione del Rapporto Giovani 2016, indagine realizzata dall’Istituto Toniolo con il sostegno di Intesa San Paolo e Fondazione Cariplo, presentata recentemente all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, nel suo intervento ha affermato:”«Essere felici nella fase giovanile risulta sempre meno una condizione dell’essere spensierati e sempre più legata al fare, alla possibilità di mettersi alla prova con successo in un contesto che incoraggia ad essere attivi nel migliorare il proprio futuro». La conclusione, in quel convegno ma anche del libro è quindi “semplice”: Fare, Felicità e Futuro. Le tre F su cui dovrebbero puntare i giovani italiani nei prossimi anni. Ovviamente non da soli.

Contratto metalmeccanici, le carte cominciano ad essere sul tavolo..

Il recente articolo di Marco Bentivogli su FIRST on line, dal mio punto di vista, è un chiarimento necessario e certamente utile alla ripresa del confronto sul rinnovo del CCNL dei metalmeccanici. Innanzitutto non ci sono pregiudiziali esplicite né minacce che non aiuterebbero di certo il confronto e la successiva conclusione del negoziato. Ci sono però tre suggerimenti importanti su cui riflettere. Il primo. Il sistema delle relazioni sindacali va ripensato. E non è solo interesse delle organizzazioni dei lavoratori. Su questo non si può non essere d’accordo. Non è più, come in passato, un problema di “falchi e colombe” annidati in entrambi gli schieramenti ma è un problema di Sistema. Aziende e lavoratori devono collaborare facendosi carico di rischi e opportunità. Non subendoli. Conservazione e innovazione si ridefiniscono continuamente passando per questo crinale. Impresa e lavoro nella globalizzazione, che lo si voglia ammettere o meno, giocano la stessa partita. Ed è una partita difficile perché altrove, di fatto, hanno già scelto chi scende in campo. O Darwin o insieme. E, questo nuovo senso di responsabilità e di coinvolgimento non si deve fermare al lavoro. Non sarebbe sufficiente. È l’insieme del Sistema che deve trovare un diverso modo di collaborare e quindi di competere. E, questa collaborazione, non può lasciare in panchina le organizzazioni di rappresentanza. Simul stabunt simul cadent. Il secondo. Questo contratto deve saper mettere al centro la persona. Fondamentale. Non un anonimo lavoratore indifferenziato in un contesto fordista. “Salute, benessere, valorizzazione e realizzazione nel lavoro”. Questo significa previdenza complementare, assistenza sanitaria, formazione. Ma anche politiche attive, opportunità di crescita, merito. Questo elemento, che potrebbe costituire il “cuore” di questo rinnovo, trova già convergenze apprezzabili tra le parti in causa. Il terzo riguarda la questione salariale. Su questo permane un equivoco. Anche in Bentivogli. Le aziende, soprattutto in un logica post fordista, non hanno interesse a discriminare. Non è più così da tempo. Le aziende hanno politiche retributive precise che non negoziano e che si stanno sviluppando ulteriormente. Il compito del sindacato è un altro.  C’è un problema legato all’inquadramento, alla possibilità di rimettersi in gioco come persona o di essere messi in discussione professionalmente dall’azienda che, prima o poi, dovrà essere affrontato. Dalle confederazioni, dalle categorie e nelle imprese. Un’altra cosa è affidare al CCNL il compito di tutelare il potere di acquisto e, alla contrattazione aziendale, quello di occuparsi di produttività, coinvolgimento, salario ad obiettivi, ecc. Su questo la posizione di Federmeccanica è oggettivamente debole. Visto da fuori è l’area dove i tatticismi stanno ancora prevalendo sulla strategia. Su questo Bentivogli è chiaro molto di più di altri sindacalisti. Il CCNL ha una funzione che deve essere rispettata. Semmai occorre definire, insieme, contenuti e deroghe possibili. Quindi andrà individuato un nuovo equilibrio. Il rischio è che si sacrifichi il potenziale di innovazione contenuto nelle reciproche proposte (pur su tematiche differenti) per accontentarsi di una firma comunque. Bentivogli sembra voler esorcizzare questo rischio. Però dipenderà anche dagli altri negoziatori anche perché credo che su questi tre elementi, e sull’equilibrio tra di essi, si giocherà la possibilità o meno di sottoscrivere il contratto in tempi ragionevoli.

Tutti in corsa per gestire il capitale umano delle imprese?

Negli anni 90 in Francia uscì un libro dal titolo estremamente significativo: “Tous DRH”. Tutti direttori risorse umane. Spiegava cosa e come fare a gestire le risorse umane in azienda senza dover ricorrere per forza agli specialisti della funzione RH. Si rivolgeva ai manager delle vendite, della logistica, dell’amministrazione invitandoli a gestirle in prima persona. Indicava una necessità ma anche una tendenza che presto si sarebbe affermata, non solo in Francia. Una necessità perché le risorse umane dovevano ovviamente essere gestite innanzitutto dai propri responsabili e non da altri. Gestire, per un’azienda, significa ascoltare, spiegare, ingaggiare, condividere, motivare, riconoscere. E, queste capacità tutti le devono e le possono apprendere. Segnalavano però anche l’inizio di una tendenza dovuta anche (non solo) alle quotazioni di borsa che fino alla crisi avrebbero eccitato a dismisura fondi di investimento e top manager di molte imprese con le inevitabili riorganizzazioni aziendali provocate da continue acquisizioni, fusioni e incorporazioni che hanno, tra le altre conseguenze, stravolto gli organigrammi preesistenti. Le funzioni di staff e molte altre funzioni aziendali sono state ridotte al minimo. Così come alcune attività esclusive delle Direzioni Risorse Umane. In Italia l’effetto di queste politiche ha determinato, nel tempo, una forte riduzione di peso delle Direzioni Risorse Umane le cui responsabilità sono state inglobate, verso l’alto dai CEO stessi o dai Comitati di Direzione e, verso il basso, dai manager di linea trasformando la funzione più da consulente interno “senza portafoglio”. Da qui il presidio sui costi, sui tagli, sulla formazione finanziata e, di conseguenza un sostanziale ridisegno del ruolo sempre più tattico e sempre meno contributore della strategia ovviamente in modalità e gradi diversi a seconda del settore e dell’azienda. D’altra parte davanti a un CEO che ragiona con la trimestrale in mano c’è poco da fare strategia sulle risorse umane e sulla gestione dei talenti! La profondità della crisi e la necessità di alzare lo sguardo hanno aiutato a superare in parte quella fase. Da un lato la necessità di coinvolgere, ingaggiare e investire sul capitale umano dell’impresa sono tornati centrali soprattutto con il parallelo venire meno del fordismo anche nelle sue ricadute gestionali e quindi contrattuali. In questo nuovo contesto le risorse devono essere trattenute, motivate e gestite individualmente o in squadra ed è impossibile riservare queste politiche solo agli alti livelli. La gestione delle risorse deve essere oggettiva, meritocratica e trasparente. Soprattutto, per il collaboratore, perché dovrà sempre più accompagnarlo nel suo percorso professionale, anche oltre l’azienda stessa. Dall’altro lato i veri professionisti della funzione hanno saputo dimostrare che il clima interno, fondamentale per affrontare qualsiasi sfida, non si rafforza declamando valori non agiti, affogando dubbi e incertezze in sfarzose quanto inconcludenti convention motivazionali o lanciando inutili survey dai risultati stupefacenti adatti più alla Pravda di antica memoria che ad un’impresa che ha bisogno di coerenza, esempio e realismo. Nel frattempo il sindacato, in tutto o in parte, si è praticamente eclissato dalla vita delle aziende (non in crisi) ritagliandosi un ruolo marginale e notarile nei confronti delle imprese ma soprattutto allontanandosi dalle nuove generazioni che via via si affacciavano al lavoro in modalità diverse dal passato lasciando purtroppo la convinzione in molti manager di medio e alto livello, di poter fare di tutto e di più, di “interpretare” regole e contratti in modo sempre più spregiudicato e di poter osservare il sistema delle relazioni sociali e delle associazioni di rappresentanza come una sorta di mondo in via di estinzione. E di conseguenza, di “sopportare” i colleghi manager delle direzioni risorse umane impegnati a sottolineare rischi e opportunità non colte. Anche questa fase, fortunatamente, sembra però volgere al termine. L’irrigidimento sui contratti nazionali di alcune federazioni datoriali ne segnala i titoli di coda, la chiusura di altri contratti nazionali (terziario, chimici e alimentaristi) e lo stesso confronto (pur complesso) aperto sul tavolo dei metalmeccanici segnala la volontà di provare a percorrere nuove strade. I soggetti più attenti del sindacato, delle imprese e delle associazioni datoriali più sensibili stanno segnalando la necessità di questo cambio di fase. La scelta della “corresponsabilità” proposta da Confindustria o della “collaborazione intraprendente” proposta tempo fa da Confcommercio vanno entrambe in questa direzione. Così come le riflessioni che attraversano alcune Federazioni di categoria del sindacato. C’è un vecchio proverbio arabo che recita: “La differenza tra un deserto e un giardino non è l’acqua ma l’uomo.” Quello che ci attende è una scommessa nuova. Per le imprese e per il sindacato. Una scommessa che va oltre la vecchia cultura collettiva di derivazione sindacale e fordista ma anche dalla cultura aziendale che pensa di gestire autonomamente un soggetto, il collaboratore, che sempre più sa quello che vuole e che non necessariamente coincide con i voleri dell’impresa nella quale è momentaneamente impiegato. Per questo bisogna stare attenti a non commettere l’errore di semplificare troppo il contesto sperando che il sistema trovi un suo equilibrio da solo. Se così fosse sprecheremmo solo una buona opportunità. Le imprese che oggi credono di poter fare da sole devono poter cogliere i vantaggi di un rapporto nuovo e costruttivo con un sindacato diverso dal passato e il sindacato deve abbandonare l’idea che ciò che non è più possibile realizzare con i rapporti di forza possa essere riprodotto, più o meno con gli stessi risultati, con altre modalità. Quel mondo è finito. Manghi nella prefazione dell’ultimo libro di Marco Bentivogli accenna al rischio che il sindacato si sia “fermato nostalgicamente su di un breve e irripetibile periodo facendone un paradigma obbligatorio”. Se così fosse, non si andrà da nessuna parte. In un mondo globalizzato l’impresa e il lavoro possono tornare essere centrali ma solo se si percorrono strade nuove. Non possiamo pensare che con le regole del ‘900 siamo in grado reggere l’urto della concorrenza mondiale, costruire una nuova cultura del management, formare milioni di persone orfane del fordismo e di organizzazioni top down e definire un modello autoctono maggiormente collaborativo e costruttivo. Dobbiamo, insieme, individuare le priorità e creare le condizioni per rilanciare la nostra economia. Certo le risorse economiche a disposizione sono poche ma è difficile pensare di bypassare il confronto con questo Governo che ha lanciato segnali inequivocabili di volontà riformatrice, magari rinviando la soluzione sperando nel prossimo, seduti sulla riva del fiume. Il ruolo di questo Governo è importante e non va sottovalutato anche se occorrerebbe osare di più. Non bisogna accontentarsi di un “accordicchio” finalizzato solo a influenzare i giudizi dei nostri partner europei. I recenti accadimenti luttuosi dimostrano che il Paese cerca concretezza, consapevolezza, unità e lungimiranza. Cogliere queste esigenze significa pensare veramente alle nuove generazioni e alle loro esigenze e non a legittimi quanto ormai irrealizzabili interessi di ciascuna delle “botteghe” coinvolte.

Governo, riforma del modello contrattuale e sindrome di Münchausen

Leggendo gli articoli che via via appaiono sulla stampa, in relazione alla prossima probabile riforma della contrattazione, si ha la netta impressione che un rischio possa essere anche quello di farci solo del male con l’unico scopo di attirare attenzione e simpatie dall’Europa. Magari per ottenere qualche dilazione sui conti pubblici. E così di continuare a manifestare i sintomi di una specie di sindrome di Münchausen, di cui, ultimamente sembriamo affetti. La riforma della contrattazione è un passaggio delicato e importante che non va sottovalutato. Non esistono scorciatoie.
Purtroppo l’insistenza sulla necessità di decentrare la contrattazione come unica soluzione fattibile e a portata di mano lo dimostra in modo evidente. Ne parlano molti, a proposito ma anche a sproposito. Giuslavoristi, opinionisti, consulenti aziendali, esperti e inesperti della materia. Alla domanda sul perché non c’è abbastanza contrattazione aziendale, in Italia, si è trovata una risposta semplice e cioè che ci sarebbe una contrattazione nazionale pesante che, di fatto, la rende marginale. E ancora che la produttività è bassa anche perché non c’è la possibilità per le aziende di legare parte dei salari a questo scopo. A mio parere si tratta di pericolose semplificazioni. Premetto che non sono affatto contrario ad un rilancio serio della contrattazione aziendale. La trovo assolutamente idonea a risolvere alcuni problemi (produttività, vincoli organizzativi, coinvolgimento, salario legato a particolari performance, ecc.). Mi piace di meno quando lascia l’azienda, sola, in balia delle sue priorità del momento e delle contropartite richieste da sindacalisti di vecchio conio per condividerle. Oggi, la contrattazione aziendale, è praticata da una modesta minoranza di aziende, seppur significative. Nel terziario non sfiora il 3%. Nell’industria, presa complessivamente, forse non arriva al 10%. La punta è nei metalmeccanici con circa il 30%. E queste percentuali, sono in calo, non in crescita. Ed è, infine, per buona parte una contrattazione di natura “concessiva” o “restitutiva” perché affronta temi legati a ristrutturazioni, tagli, riduzioni di costi, flessibilità. Certo ci sono anche aziende che scommettono sul welfare e sul benessere dei propri collaboratori ma lo fanno senza coinvolgere il sindacato o limitandosi a coinvolgerlo solo sul piano formale. Come sulla formazione. Così come molte imprese hanno una propria politica retributiva e di sviluppo delle risorse che si integra con il CCNL ma che non è condivisa con nessuno. Continuo a pensare che i problemi veri, per le aziende, di cui nessuno sembra preoccuparsene siano rappresentati dalla struttura della retribuzione (salario minimo, salario professionale e salario a obiettivi) , da un inquadramento ormai obsoleto (mansionari e livelli), da un codice civile che è stato predisposto in epoca completamente diversa da oggi (dove la mansione era per la vita e comunque sempre in crescita) e dal costo del lavoro comprensivo di carico fiscale e contributivo eccessivo. Tutti argomenti che, a livello aziendale, non possono essere nemmeno sfiorati o quasi. Nelle condizioni attuali la stragrande maggioranza delle imprese non sarebbe interessata ad alcun tipo di contrattazione aziendale. Qualcuno, prima o poi, lo dovrà pur dire. Le aziende più attente, semmai, vogliono gestire autonomamente i propri collaboratori sia sul piano economico che professionale. Il neo Presidente di Confindustria Boccia, nel suo discorso di insediamento lo ha lasciato intendere molto bene: “occorre trovare una soluzione che consenta, a chi non vuole o non può contrattare in azienda, di avere un contratto nazionale di riferimento”. Quindi di cosa stiamo parlando? Ho sentito raccontare, in un recente servizio televisivo sull’argomento, che questa “riforma” consentirebbe al Governo di ottenere, in cambio dall’Europa, una maggiore flessibilità nei conti pubblici. Se fosse così, facciamola pure. Ma, almeno, tra di noi, non prendiamoci in giro. Senza un contratto nazionale di riferimento e una sorta di nuova IPCA (Indice dei Prezzi al Consumo Armonizzato) stabilire la prevalenza della contrattazione aziendale tout court significa, nel lungo periodo, abbassare i salari reali per la stragrande maggioranza dei lavoratori. Questo deve essere chiaro. La mancanza di regole certe sulla esigibilità spingerà molte aziende in affanno o in difficoltà a muoversi con estrema decisione su questo versante. E, molte altre ad approfittarne creando pericolose situazioni di dumping.
Ma sopratutto questa scelta, se sganciata da altri interventi conseguenti, cristallizzerebbe definitivamente la cosiddetta “legge del pendolo” come unico elemento di (dis)equilibrio tra le parti. Il più forte comanda e detta tempi e contenuti. Ieri era il sindacato, oggi sono le aziende, domani, chissà. Non mi sembra né un sistema da condividere, né collaborativo, né moderno. Quindi cosa occorrerebbe fare? Innanzitutto mantenere il contratto nazionale di riferimento stabilendo tra le parti le materie che possono essere derogate ad altri livelli (aziendali, di comparto, ecc.) quindi il luogo dove può avvenire lo “scambio” e su cosa. Inoltre occorrerebbe definire le materie specifiche del livello aziendale e come si articola il confronto dove c’è una rappresentanza sindacale ma anche come si procede dove non dovesse esserci. E quali garanzie concrete per i lavoratori. Infine occorrerebbe aprire un confronto con il Governo sul costo del lavoro e sulle leggi che dovrebbero essere modificate per rendere effettivamente flessibile (non precario) il rapporto di lavoro, in entrata, in costanza e dopo. E le contropartite per il sindacato confederale e per i lavoratori in termini di concreta ed effettiva “corresponsabilità”. Vantaggi e svantaggi. E, tra le parti, un negoziato di merito sul nuovo modello contrattuale. Altrimenti la montagna è destinata inevitabilmente a partorire un topolino. Continuo a pensare che da questa situazione non se ne esce con mosse ad effetto né con scorciatoie. È necessario ricostruire un modello di regole per il lavoro che deve saper trovare un nuovo equilibrio tra diritti, doveri, strumenti e rappresentanza. Soprattutto occorre uscire definitivamente dalla logica dei rapporti di forza che, di volta in volta, rendono asimmetrico e quindi sbilanciato il rapporto di lavoro. Aldo Moro ci ha insegnato che “questo Paese non si salverà, la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera se in Italia non nascerà un nuovo senso del dovere”. E questo vale sia per gli imprenditori che per i lavoratori. E, ovviamente, per le loro rappresentanze. Occorre decidere, una volta per tutte, di fare un passo avanti per mettere a disposizione soprattutto delle nuove generazioni un sistema moderno e più attento alle esigenze concrete di flessibilità delle imprese e che concretizzi questa “corresponsabilità” rafforzando il ruolo del capitale umano in azienda e della collaborazione, qualificando il welfare di natura contrattuale, il diritto soggettivo alla formazione e la tutela del salario reale. L’autunno è ormai dietro l’angolo. Il tempo a disposizione non è molto per decidere quale dovrà essere la direzione di marcia. E Il rischio che la situazione si aggrovigli tra contratti aperti e risorse scarse a disposizione del confronto con le parti sociali è, purtroppo, molto alto.

Contratti pubblici, farli, si, ma pensando al futuro..

Ha ragione Annamaria Furlan segretaria generale della Cisl ad essere preoccupata. Se gli interventi importanti a sostegno delle imprese voluti dal duo Calenda-Padoan verranno messi in contrapposizione a quelli necessari per pensionati e contratti condivisi dal duo Nannicini-Poletti si commetterà un errore grave perché è indubbiamente vero che gli interventi sul versante sociale costituiscono anch’essi un volano importante per i consumi e per l’economia. Occorre trovare, insieme, le risorse necessarie. Sette miliardi per i contratti, 2,5 per la previdenza. Questa sembrerebbe essere la richiesta sul tavolo tra Governo e Sindacati. All’inizio la proposta di Madia era di trecento milioni. Pochi prima, troppi adesso. Restando sul contratto della PA vorrei essere subito chiaro. A mio parere non esiste lo spazio per un contratto nazionale che recuperi lo stop di tutti questi anni. Occorre saper andare oltre. E, soprattutto, lo scambio inevitabile tra dare e avere deve essere chiaro, esigibile, trasparente e, finalmente, condiviso. Ci sono due elementi che potrebbero aiutare il negoziato aggiungendosi al quantum economico che il Governo può mettere sul tavolo per concludere la trattativa spalmandone i costi su più anni. Innanzitutto il tema dell’organico nei differenti comparti, della sua quantità, della distribuzione sul territorio, della necessaria mobilità e del livello di rimpiazzi possibili legati al turn over. E questo cercando di salvaguardare al massimo le problematiche dei lavoratori, pur all’interno di un contesto riorganizzativo complesso. In secondo luogo come e quanto redistribuire degli eventuali risparmi ricavati da questa operazione. Per la PA si tratterebbe del primo confronto nel quale il sindacato confederale si può presentare unitariamente come soggetto in grado di negoziare una riorganizzazione complessiva e concordata dopo la fase della concertazione di vecchio conio. Per farlo occorre il tempo necessario per coinvolgere i lavoratori del settore e quindi far crescere una nuova consapevolezza che sappia mettere ai margini tutte quelle forme di sindacalismo opportunista e radicale che si sono potute sviluppare negli anni per complicità con la politica e per errori dai quali lo stesso sindacalismo confederale non è rimasto immune. Le posizioni di partenza (300 mio vs. 7 mdi) sono ovvie e scontate. In ogni negoziato la fase della rappresentazione delle rispettive posizioni di partenza è inevitabile. E non serve banalizzarle. Occorre, al contrario, che i negoziatori siano credibili, che abbiano il mandato e conoscano a fondo la materia. Soprattutto un progetto serio su cui misurarsi. Oggi, nella PA le preoccupazioni sono diverse e diffuse. Non c’è una massa compatta, fordista, desiderosa di risposte egualitarie. C’è una grande consapevolezza della posta in gioco, così come del fatto che la riorganizzazione, comunque necessaria, può essere una grande occasione di coinvolgimento e partecipazione. Ma anche di un recupero di immagine necessaria presso l’opinione pubblica. Le proposte del Governo non sono certo neutrali. Così come la natura e la maggioranza che sostiene questo Governo che non dovrebbe essere sottovalutata dai sindacati. Ma anche la necessità di puntare decisamente sul merito, sulla formazione, sulla qualità del servizio al cittadino utente e sulla salvaguardia dei redditi più bassi. Questa però è un’occasione importante nella quale il sindacato confederale e di categoria potrebbero ritornare ad essere protagonisti e collegarsi al processo riformatore che è comunque in atto nel Paese e che può trovare in questa vertenza una conferma importante. Ma è un’opportunità anche per il Governo e per le forze politiche che lo sostengono. Gli ultimi segnali confermano la volontà di confrontarsi con il sindacato. Il ministro Madia è stato chiaro. Così come i sottosegretari coinvolti. Il negoziato ci sarà. Nessuno può sottrarvisi senza una motivazione profonda. In questa fase non serve farsi condizionare da chi preferirebbe far saltare il banco per altri fini. E, questa vicenda, non dovrebbe, in alcun modo, essere collegata al referendum o al suo presunto esito. Un rinnovo di contratto nazionale, seppure difficile e complicato come quello della PA, paga decenni di errori e di compromessi politici e sindacali e vive di dinamiche proprie. Però qualsiasi errore del passato non giustificherebbe un errore ben più grave che consiste nel non credere utile e possibile questo negoziato. È, credo evidente a tutti, che non si cambia la PA contro i lavoratori pubblici né consegnandoli all’estremismo inconcludente delle organizzazioni autonome. Occorre credere fino in fondo in questa opportunità e lavorare sotto traccia per una soluzione possibile evitando di ascoltare gli interventi interessati sollecitati dalle lobbies che non vogliono che il Governo storni risorse importanti in questa direzione. È un esercizio di riformismo nel quale le forze che vogliono cambiare il Paese si dovrebbero impegnare. Ciascuno dovrà fare la sua parte, Non solo il sindacato confederale.

Dirigenti privati e contrattazione collettiva.

Le polemiche ferragostane sugli stipendi di alcuni manager pubblici e privati rischiano di coinvolgere una intera categoria che lo stipendio se lo guadagna, ogni giorno, impegnandosi nel gestire ed essere punto di riferimento dei propri collaboratori e di realizzare, insieme a loro, gli obiettivi aziendali. La quasi totalità dei dirigenti privati in Italia merita il posto che occupa. Se lo sono guadagnato investendo sulle proprie capacità e competenze, mettendoci determinazione e passione, imponendo sacrifici a se stessi e, spesso, anche ai propri cari. E, ultimo, ma non meno importante, contribuendo al benessere del Paese sia come contribuenti che come consumatori. Certo fa più rumore un albero che cade rispetto ad una foresta che cresce e quindi lo status o i comportamenti di alcuni tendono a coinvolgere tutti in una sorta di giudizio negativo su di un’intera categoria che, invece, resta fondamentale per il nostro Paese e per le imprese impegnate in un difficilissimo rilancio in rapporto al contesto competitivo nazionale e internazionale. Ai manager, le imprese oggi chiedono di diventare un punto di riferimento per tutti i collaboratori, di saperli ingaggiare nelle sfide di tutti i giorni, di essere propositivi, collaborativi e disponibili a rimettersi costantemente in discussione. Una figura, quindi, lontana anni luce dal burocrate ripiegato su se stesso che tiranneggia i propri collaboratori, dal manager da copertina un po’ infantile e frivolo, o dall’individualista accentratore che pensa di essere in grado, da solo, di salvare il mondo. Il dirigente, quello vero, sa che solo impegnandosi per gli altri, con gli altri e attraverso gli altri, realizzerà i propri obiettivi che sono gli stessi dell’impresa nella quale è impegnato in un dato periodo del suo percorso professionale. Nel nostro Paese ci sono decine di migliaia di persone così. Ed è un capitale importante. Non fanno notizia proprio perché il loro compito principale non è quello di farsi notare. Ce ne vorrebbero molti di più, soprattutto nelle PMI per contribuire ai passaggi generazionali, ai progetti di internazionalizzazione, alla costruzione di intese di rete e di filiera, quindi al consolidamento di una nuova cultura manageriale di cui il nostro Paese ha tanto bisogno. E la qualità di queste persone la si può misurare anche nella lungimiranza dimostrata in tutti questi anni. Ritenuti dagli osservatori meno attenti soggetti individualisti, impegnati esclusivamente nella propria carriera, poco attenti agli altri, i dirigenti, hanno saputo creare strumenti collettivi importanti di tutela e di sviluppo attraverso i contratti nazionali che si sono via via succeduti negli anni. Nel terziario, ad esempio, la previdenza, attraverso la seconda e la terza gamba (Fondo Mario Negri e Pastore, la sanità integrativa per sé e per le proprie famiglie (Fondo FASDAC) e i diritti alla formazione individuale (CFMT formazione) dimostrano una volontà che va ben oltre l’aspetto retributivo tipico della contrattazione individuale. Così come, nell’ultimo rinnovo del CCNL del terziario, dove Manageritalia ha scelto di privilegiare un sostegno ai manager in fase di transizione professionale piuttosto che insistere su altri aspetti ritenuti sacrificabili all’interno di un quadro di rafforzamento complessivo del ruolo del contratto nazionale. Un’operazione intelligente che mira ad affidare al contratto una funzione di tutela collettiva integrabile, nelle singole imprese, con la negoziazione individuale. Soprattutto un’operazione che non scarica oneri sulle aziende ma trova un maggiore bilanciamento rispetto al passato. Questa lungimiranza appartiene a tutta la categoria che dimostra così il legame con la propria organizzazione di rappresentanza ma anche la capacità di saper guardare oltre i propri interessi immediati. Un contratto nazionale per i dirigenti ha senso solo se continua a dimostrare questa sua capacità di essere in grado di tutelare il singolo ma sempre in una visione collettiva in un contesto in continuo cambiamento. Con gli strumenti a disposizione il manager può crescere, svilupparsi, gestire al meglio le fasi di transizione tra un’azienda e l’altra, mantenere tutte le coperture contrattuali anche quando, per scelta o per necessità, da manager si trasforma in consulente, temporary o professional. E questo non è una risultato da poco. È scontato che ad alcuni top manager questo impianto può non essere indispensabile. Ma un contratto nazionale deve saper guardare ad una intera categoria e tenere conto del contesto economico, politico e sociale nel quale viene sottoscritto. Oggi i dirigenti privati del terziario hanno indubbiamente un nuovo contratto nazionale di riferimento. Ma lo hanno anche le imprese che dispongono di un quadro normativo più chiaro ed equilibrato. Quindi un risultato importante per tutti.

Festività nel commercio e rischiose nostalgie fordiste

Ogni volta che si avvicina Ferragosto, Natale o il Primo Maggio riesplode puntualmente la polemica sulla liberalizzazione delle aperture dei centri commerciali. Sindacati e associazioni di categoria si confrontano sciorinando dati e argomentazioni a favore delle proprie tesi assolutamente inconciliabili. Quindi un dialogo tra sordi. La domenica e nelle festività lavorano, da sempre, centinaia di migliaia di persone. Nella sanità, nel turismo, nella pubblica amministrazione, nella logistica, nell’alimentare. Ovviamente tutti preferirebbero non lavorare in quei giorni ma nessuno si è mai scandalizzato. Nella Grande Distribuzione non è così. Nei settori sopra citati il motivo principale del lavoro festivo/domenicale è dato dall’indispensabilità di quei servizi per il cittadino, o per l’utente. Nella società in cui siamo cresciuti, organizzata per attività e sostanzialmente fordista, si andava tutti o quasi in ferie in agosto, si faceva la spesa al sabato, si lavorava dalle 8 alle 18.00 o a turni, ci si riposava la domenica. Ovviamente per molti è ancora così, oggi. Quindi i servizi che sostenevano quell’organizzazione sociale avevano una ragione per essere proposti in un certo modo, mantenuti e accettati nel tempo. Bisogna dare atto che, festività civili e religiose a parte, in questi anni si sono fatti molti passi avanti, tra le parti, per rendere meno fordista possibile il lavoro nella GDO trattandosi di negozi aperti al pubblico e non di reparti di una fabbrica. Dal part time ad una diversa distribuzione degli orari di lavoro individuali, da una seria regolamentazione del diritto di sciopero per evitare intralci alle vendite fino alla decisione di non svolgere assemblee durante l’orario di apertura al pubblico dei punti vendita. Tutte cose importanti che dal fordismo contrattuale facevano discendere una cultura precisa: mettere al centro, non il consumatore, ma la tutela del lavoratore come in una qualsiasi azienda manifatturiera. I contratti aziendali hanno trattato questi argomenti per oltre quarant’anni. Tutto questo non ha fatto i conti con l’evoluzione dei modelli di consumo e dei comportamenti di acquisto che nel corso degli anni sono profondamente cambiati spingendo le imprese a modificare le metodologie di vendita, il rapporto con il cliente, il livello di servizio. E senza mettere in conto le vendite on line, i servizi di consegna a domicilio, le casse automatiche e l’arrivo ormai imminente dei grandi player con le loro piattaforme che accentueranno ancora di più i cambiamenti del settore. Alcune aziende si stanno attrezzando con forti investimenti in formazione, nuovi modelli organizzativi che prevedono aperture h24, nuovi format di vendita e politiche commerciali molto aggressive. Domeniche e festività fanno parte di queste politiche. Un punto però resta ineludibile. Occorre procedere con una certa rapidità al superamento di un’architettura contrattuale costruita nelle singole aziende negli anni del “fordismo commerciale” mutuato dalla contrattazione aziendale tipica della cultura del settore industriale. Condizione indispensabile per le realtà del settore ma difficile da affrontare per il sindacato di categoria perché, negli anni, ha impostato una politica nelle singole realtà  tesa a salvaguardare, quasi esclusivamente, una o due generazioni di lavoratori (quelle che, di fatto, hanno costruito il sindacato nella GDO) “abbandonando” di conseguenza, al loro destino, i nuovi assunti e quindi i più giovani anche a seguito delle nuove forme di flessibilità in entrata che le aziende hanno utilizzato nel tempo. E questo ha determinato in molte realtà una spaccatura generazionale difficile da recuperare. Non servono grandi indagini di mercato per prendere atto che i consumatori preferiscono orari più ampi possibili di apertura sia giornaliera che settimanale in attesa, forse, di abituarsi a comprare direttamente dal divano di casa. E questo credo sia un punto ineludibile da cui partire. Le aziende, soprattutto in una fase di crisi dei consumi e quindi con possibili conseguenze sulle grandi superfici di vendita dove sono impiegati molti addetti devono poter disporre di tutti gli strumenti utili a sostenere i fatturati, i margini e di conseguenza l’occupazione. La tipologia dell’offerta, i modelli organizzativi, gli orari di apertura al pubblico, le campagne promozionali non possono essere materie di negoziazione sindacale. Le festività rientrano inevitabilmente in queste prerogative dipendenti dalle singole imprese. Chiarito questo punto su cui non ci devono essere equivoci di sorta ci possono essere specificità locali o problemi legati alla concorrenza commerciale che possono determinare nella singola realtà, anche su sollecitazione delle istituzioni, modalità applicative che tengano conto di sensibilità, opportunità, interessi tali da far propendere chiusure singole specifiche gestite a livello locale. Ma esclusivamente per ragioni di opportunità commerciale. Non altro. Questo perché non bisognerebbe mai dimenticare l’affermazione di Sam Walton, fondatore di Wal Mart, “esiste solo un capo supremo: il cliente, che può licenziare tutti nell’azienda, dal presidente in giù, semplicemente spendendo i suoi soldi da un’altra parte.”

Metalmeccanico sarà lei!

Siamo in vacanza e quindi non voglio anch’io mettermi a sparare sulla croce rossa. L’onorevole Arcangelo Sannicandro ha già fatto marcia indietro da solo dopo la figuraccia fatta in aula per contrastare l’intervento di un pentastellato che proponeva un taglio (teorico) degli stipendi dei parlamentari: “Non siamo lavoratori subordinati dell’ultima categoria dei metalmeccanici!”. Chiaro. Comunista, ex PCI, ex Rifondazione Comunista. Oggi SEL. Un pedigree di tutto rispetto. Probabilmente in passato qualcuno ne avrebbe chiesto conto al Partito. Oggi, no. Dopo Federica Guidi che si era sentita trattata come una “sguattera del Guatemala” dal suo compagno adesso tocca al “metalmeccanico” occupare l’ultimo gradino sociale. Ovviamente fa più scalpore soprattutto per molti della mia generazione per i quali i metalmeccanici hanno rappresentato, nel bene e nel male, la punta di lancia del movimento sindacale. Poi con il tempo, il “metalmeccanico” è ritornato, fortunatamente, ad essere un lavoratore normale come tutti i suoi colleghi degli altri comparti industriali. Così come il sindacato che li rappresenta al quale la crisi del fordismo, le riorganizzazioni aziendali e le ristrutturazioni ne hanno definitivamente ridimensionato le ambizioni politiche e quindi la volontà di egemonia sul resto del movimento. Nella CGIL, la FIOM ha continuato e continua tuttora a marcare una sua specificità convinta che, prima o poi, le contraddizioni economiche e sociali la riproporranno come protagonista in grado di essere un punto di riferimento per una rinnovata sinistra politica. Nella CISL, la FIM, da sempre costretta a misurarsi con le pretese egemoniche della FIOM, ha dovuto costruire una organizzazione in grado di stare sempre un passo avanti sia nelle proposte che nella capacità di negoziare e quindi di sottoscrivere accordi. La UILM, infine, ha sviluppato negli anni una sua caratterizzazione nella UIL che gli ha consentito una credibilità importante data da un profilo sindacale specifico e sempre rivendicato con determinazione. La crisi, la globalizzazione e le difficoltà di rilancio di un comparto che ha dentro di sé grandi eccellenze ma anche realtà che non riescono ad affrontare il cambiamento (su questo è interessante l’articolo di Di Vico sul Corriere di oggi) hanno fatto a pezzi le velleità egemoniche ponendo problemi complessi che non sono affrontabili osservando il contesto con lo specchietto retrovisore. Infine le rispettive derive identitarie che hanno contribuito, anch’esse, al ridimensionamento del  profilo politico della categoria. La sinistra che frequenta i salotti televisivi ne è rimasta ovviamente delusa. Ma, essendo parte della stessa crisi di visione e di proposta, ha mantenuto una sorta di sudditanza psicologica nei confronti dell’unica organizzazione che, a parole, ha continuato con un tranquillizzante verbalismo inconcludente di stampo novecentesco. La vicenda FCA ha costituito uno spartiacque importante per due ragioni. Innanzitutto perché il CEO del Gruppo ha capito che era arrivato il momento per chiudere un ciclo politico e sindacale e ha forzato la mano. In secondo luogo, ma non meno importante, Il fatto che una parte del sindacato (FIM e UILM) è riuscita a rientrare in gioco accettando una scommessa difficile e rischiosa. Una scommessa certamente vinta che ha rilanciato la credibilità di questa parte del sindacato nel comparto e nel Paese e accentuato la crisi organizzativa e di strategia della FIOM. Purtroppo due piattaforme presentate ad un difficile rinnovo del CCNL non facevano presagire nulla di buono soprattutto di fronte alla necessità di Federmeccanica di non restare invischiata su di un terreno tradizionale che ne avrebbe accentuato le difficoltà dopo l’uscita di FCA. Da qui la proposta di “rinnovamento contrattuale”, una mossa decisiva che dimostra la forte sintonia tra quell’organizzazione e le imprese che vi aderiscono. Ovviamente a spese degli interlocutori che si sono ritrovati uniti “contro” perché spiazzati da una iniziativa interessante per certi versi ma insufficiente sul piano economico. In autunno vedremo come finirà. Soprattutto vedremo se il sindacato metalmeccanico saprà ritornare protagonista sul terreno dell’innovazione. E, soprattutto, se potrà farlo unitariamente o meno. Personalmente non credo che ci sia spazio per un ritorno indietro. Quindi anche per la FIOM sarà un passaggio delicato e decisivo. Le polemiche seguite all’accordo con CONFIMI non sono certo di buon auspicio. Sul tavolo con Federmeccanica si gioca una partita importante per il futuro anche del sindacalismo confederale. Non è secondario ciò che si sta affrontando con le organizzazioni datoriali ma anche con lo stesso Governo sul tema delle pensioni e del lavoro. I metalmeccanici devono decidere se giocare fino in fondo la partita e rientrare in gioco insieme alle altre categorie o essere ai margini dei cambiamenti che comunque ci saranno. Soprattutto se farlo insieme. Ed è solo in questo modo che l’onorevole Sannicandro e chi la pensa come lui potranno avere la risposta che si meritano.